Il parlamentare Pd
Intervista a Roberto Morassut: “Che bello il Pd plurale ma serve un’area più socialista”
«Vorrei maggiore vitalità di una cultura che deve essere sia visionaria che capace di governare e cambiare nel reale. Come vagheggiava Matteotti». La “tenda” dei moderati? «Vanno costruite le condizioni per giungere alla sfida con la destra con la maggiore unità possibile delle opposizioni. Il Pd deve continuare ad essere la cerniera»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli

Roberto Morassut, parlamentare e membro della Direzione nazionale del Partito democratico, Vicepresidente della Fondazione Giacomo Matteotti. Si è aperto un dibattito sul “Campo largo”. È importante piantare la “tenda” dei moderati. Ma come? Basta fare dei nomi?
Credo sia importante costruire tutte le condizioni per giungere alla sfida con la destra con la maggiore unità possibile di tutte opposizioni. Attraverso le battaglie parlamentari che le vedono convergenti nella sfida ad un governo nel quale la destra estrema risulta egemonica. Una destra che vuole cambiare i connotati della Repubblica, demolirne la base costituzionale antifascista. Una destra che lavora contro l’Europa, che si è accodata all’amministrazione degli Stati Uniti, la quale guida le forze nazionaliste, oltranziste di tutto l’Occidente e che mette a rischio la pace; una destra, questa italiana, che ha fatto del nostro Paese una nazione piccola, ininfluente, inascoltata sulla scena internazionale; che sta aggravando la crisi economica e sociale. Ma la ricerca dell’unità e delle convergenze delle opposizioni va cercata e costruita anche nel Paese, nella società. Io considero eventi come quello della manifestazione di San Giovanni su Gaza, molto positivi, anche se hanno interessato solo una parte delle opposizioni. Perché si comincia a stare in piazza insieme, ad unire le bandiere, conoscersi, toccarsi, scambiare. Si è vero: la parte moderata dello schieramento su alcune scelte – compreso il referendum – si è distinta. Non si può andare d’accordo su tutto. Ma queste distinzioni non hanno fermato e non stanno fermando i processi unitari nelle coalizioni delle città e delle regioni dove si voterà. I processi si costruiscono per tappe ma io vedo un percorso che tende verso l’unità e non esalta le divisioni. Questo mi sembra decisivo. In questo quadro la riorganizzazione di un’area moderata più coesa, più unita e che abbia anche una leadership più riconoscibile e capace di spostare consensi verso il centro sinistra è molto importante. Poi le figure che emergeranno dipendono dai processi reali, dalle capacità dei singoli, cose che non si possono programmare a tavolino. Ma il tema politico è quello ed è chiaro ed evidente a tutti.
Se si costruisce un polo moderato forte nel centro sinistra che faranno i riformisti del Pd? Se ne andranno e lasceranno un Pd “di sinistra” e movimentista guidato da Schlein?
Il Partito Democratico è e deve continuare ad essere la cerniera dello schieramento di centro sinistra. Se perdesse questa qualità e questa funzione la coalizione non reggerebbe perché è proprio la capacità di rivolgersi, col suo interno pluralismo e la sua storia, a diversi versanti che vanno dal civismo, alla cultura cattolico democratica, a quella liberale e radicale di sinistra, alla storia delle componenti del movimento operaio e socialista, che ne fa un soggetto coagulante, fondamentale per la tenuta del patto costituzionale e per il suo rinnovamento nella continuità di quei principi, per un riformismo non ideologico ma aperto alle diversità di affluenti che nel tempo hanno segnato la storia italiana dal Risorgimento in poi. Se ognuno si riprendesse, un giorno, i suoi panni li troverebbe solo più vecchi e più lisi.
Il Pd pur nella sua complessa storia di questi quindici anni si è insediato nella mente e nel cuore di milioni di uomini e di donne. E grazie a questa poliedricità che ognuno di noi può sentirsi a volte più riformista, a volte più radicale. A volte più vicino a certe istanze socialistiche, a volte più liberali. A me, per esempio, capita spessissimo e devo dire che è bellissimo perché mi fa sentire continuamente alla ricerca di soluzioni e possibilità diverse. La nostra cassetta degli attrezzi, potrei dire, è molto ricca e non dobbiamo impoverirla ma imparare ad usarla meglio e ancora arricchirla. Io semmai sarei per una ancor maggiore accentuazione di certi elementi di carattere civico che fanno parte del Pd, anche nelle forme organizzative, nelle modalità di insediamento popolare.
Ma così non c’è il rischio di essere tutto e niente? Il solito Pd senza identità, pieno di divisioni e di correnti?
La domanda impone una risposta complessa. Andiamo con ordine. Personalmente non mi rassegno a distinguere tra pluralismo e correntismo. Il primo lo accolgo e lo esalto. Il secondo lo combatto. Perché non c’è una fratellanza diretta tra i due. E non deve esserci. Altrimenti ognuno di noi sarà costretto ad aderire a precetti e impostazioni che magari può non condividere. Ovviamente il pluralismo deve anche potersi organizzare in aree e correnti politiche ma non fino al punto di svilire la fecondità e la ricchezza della vita interna. E noi questo rischio lo corriamo continuamente: conformismo del dibattito negli organismi e bilancini sulla organizzazione del potere interno. È un rischio costante che però si può lenire con la ricchezza del dibattito il quale deriva da una forte soggettività, creatività dei gruppi dirigenti e da una continua sollecitazione delle intelligenze attraverso la formazione politica. Attualmente, nella ricchezza delle espressioni politico- culturali del Pd, io vedo un declino della forza, e della vitalità di quella componente socialista, che proviene dalla storia del movimento operaio, che guarda e valuta il mondo sulla base di analisi strutturali dei processi, che ha dentro di sé il senso della storia come trama dei cambiamenti umani. Questa profondità, questa alterità alla velocità dei giudizi e delle analisi che il tempo ci impone, si è eclissata e invece va ricostruita, riorganizzata. Se posso esprimermi in modo schematico ma chiaro, serve un’area, una componente nel Pd di oggi di matrice socialista che si confronti in modo aperto ma imprima anche agli altri questa indelebile funzione di leggere le cose partendo da un principio di scienza sociale, di percezione dei tempi lunghi o brevi degli eventi. Questa è la cultura socialista nelle sue varie declinazioni.
A questo proposito, nei giorni scorsi, Giuliano Amato ha detto che Napolitano avrebbe dovuto essere il leader del Pci e che Berlinguer fu sopravvalutato.
Non ero presente al convegno. Ho letto delle agenzie e quindi ho avuto una impressione forse parziale di quelle parole. Ma ho trovato certe affermazioni verso Berlinguer sgradevoli. Non sto qui a spiegare le qualità di Berlinguer, se ne è parlato tantissimo in questi anni di suoi anniversari. Dico questo: Napolitano e Berlinguer furono due leader della sinistra e del Pci diversi e complementari. Il Pci non sarebbe stato lo stesso senza uno dei due. E ancora prima senza Ingrao, Napolitano, Amendola e Berlinguer che dopo l’XI Congresso, svolto dopo la morte di Togliatti, rappresentarono le diverse interpretazioni della funzione che i comunisti italiani avrebbero potuto e dovuto svolgere nell’Italia del boom economico, della nuova fase del capitalismo e delle nuove condizioni internazionali di allora. Lo stesso Togliatti era stato, alla fine della sua direzione politica, molto oscillante tra diverse opzioni e lo stesso memoriale di Yalta è un testamento per certi versi contraddittorio e sofferto perché risente di quei tempi di transizione. Ma la forza del Pci fu quella di vivere, per l’appunto, il pluralismo di diverse opzioni politiche che si influenzavano l’un l’altra. Amato dice che Berlinguer portò il Pci in un vuoto di prospettiva ma fino al 1989 il vuoto di prospettiva era la democrazia bloccata e non credo che, di converso, Napolitano avrebbe mai agito nella direzione di forzature tali da produrre fratture nel Partito. Lo racconta bene, tutto questo, Giulio Napolitano nel suo libro “Il mondo sulle spalle” che descrive il tormento di Napolitano tra le sue convinzioni che da tempo lo avevano condotto nel campo del socialismo democratico e il rifiuto di portarle avanti a costo di un trauma. E ugualmente Berlinguer visse un analogo tormento dopo la fine della politica della solidarietà nazionale. Entrambi risolsero questa interna crisi in direzioni diverse che oggi, a distanza di tempo, si svelano collegate e inscindibili. Perché una grande forza popolare deve essere capace di grandi visioni e consapevole del valore – anche ideale – del governo reale delle cose, ammesso che si possa sintetizzare in questi due campi o poli le personalità di Berlinguer e di Napolitano, le quali avevano comunque dentro l’una e l’altra istanza ma con accenti diversi. Una forza di sinistra socialista e democratica deve essere sempre un po’ miope e un po’ presbite. Saper guardare meglio lontano e vicino al tempo stesso. Ecco perché il Pd non deve mai perdere né i riformisti né i radicali
Quindi lei vorrebbe nel Pd un’area socialista di quale tipo di queste due eredità?
Un’area socialista, una maggiore vitalità di una storia e di una cultura che deve essere sia visionaria, capace di “pensieri lunghi”, sia capace di governare e cambiare nel reale giorno per giorno. Come vagheggiava Giacomo Matteotti per esempio. Una tradizione che è socialista in quanto radicale e riformista. Perché non rinuncia a credere che possa esistere un mondo diverso ma intanto cambia quello presente e sposta l’orizzonte in avanti, sempre più in avanti. Un’area socialista occorre anche per avere una linea più chiara sulla pace. Oggi non si può lottare e agire per la pace come un tempo. La riorganizzazione della difesa e della deterrenza europea sono fondamentali. Ma è proprio qui che si aprono differenze anche tra di noi. Il riarmo non è la pace. Le spese militari al 5% non sono deterrenza ma economia di guerra. La difesa comune va insieme all’azione diplomatica comune e alla forza politica dell’Europa come scriveva Ernesto Rossi nel Manifesto di Ventotene. Questo è un crinale anche del nostro confronto interno. E di quello interno al PSE. Per questo è utile raccogliere tutte quelle forze e tutte quelle idee che possono lavorare per una vera prospettiva di pace, premessa e base di una moderna idea di socialismo e di democrazia integrale. Anche per la drammatica crisi in Medio Oriente dove la condanna del terrorismo di Hamas sostenuto dall’Iran non deve mai voler dire ignorare o giustificare l’azione di sterminio e di destabilizzazione di tutta l’area condotta da Netanyahu. Il Pd su questo può e deve essere il punto di raccolta delle preoccupazioni e della volontà di pace di milioni di donne di uomini e di risveglio di una voglia di partecipazione a partire dalle grandi questioni della pace e della guerra