Rotto il silenzio
Il referendum sulla cittadinanza non è un flop, ecco perché
È vero che ha registrato un numero di No più alto rispetto ai quesiti sul lavoro, ma ha affrontato un tema sconosciuto ai più, terreno di propaganda e confusione. E l’ha portato fuori dal recinto degli addetti ai lavori.
Politica - di Gianfranco Schiavone

Come noto, al referendum sulla cittadinanza è andato a votare il 30,59% degli aventi diritto, una percentuale assolutamente identica a quella degli altri quattro referendum sul lavoro, ma con una netta differenziazione rispetto agli esiti: per il Sì alla cittadinanza ha votato il 65,49% a fronte di un 34,51 di No, mentre rispetto agli altri quattro quesiti i No sono stati in media solo il 12,1%. Sono dati che evidenziano quanto la proposta di rendere meno difficile l’accesso alla cittadinanza italiana per gli stranieri sia un tema difficile anche tra gli elettori del centro sinistra, negarlo sarebbe insensato.
Alcune analisi sul voto hanno messo in evidenza come nelle grandi aree urbane si è registrato un maggior favore al quesito referendario: è il caso di Milano (72,6% di Sì), Napoli (76,8%), Torino (70%), Bologna (77,6%), Firenze (74,6), Roma (72,6%). Se è vero che la propensione al Sì sulla cittadinanza è stata elevata in queste metropoli, culturalmente e socialmente più dinamiche rispetto alle aree più periferiche del Paese, le periferie delle stesse metropoli, ovvero le aree più popolari, hanno però espresso un voto per il No simile o persino talvolta superiore alla media del Paese, mettendo in luce l’esistenza di una “polarizzazione tra centro e periferia” (Pregliasco) già peraltro esistente su altri temi rilevanti. Non deve stupire questa reazione tra le persone che vivono con maggiore durezza le iniquità laceranti del sistema economico e a cui sono imposte condizioni di lavoro segnate da una costante precarietà e ricattabilità.
È un facile gioco politico – odioso sul piano morale, ma sempre efficace – quello di aizzare chi è penultimo nella scala sociale contro chi è ultimo, facendo credere che è l’ultimo (e non chi sta sopra a entrambi) a insidiare il lavoro e le prospettive di vita di chi si trova penultimo. La dinamica della feroce contrapposizione tra esclusi non si sviluppa solo nelle grandi aree urbane ma attraversa tutti i territori, anche quelli meglio amministrati; prova ne sia che anche in città minori, ma non periferiche, prendo ad esempio il caso di Reggio Emilia dove l’affluenza è stata elevata (il 42%) e l’orientamento a sinistra tradizionalmente consolidato, il No dei votanti al quesito referendario cittadinanza (il 32,7%) è stato ugualmente rilevante.
Tutti i referendum, e quantomeno quelli principali che ci sono stati nella storia della Repubblica, hanno riguardato temi socialmente e politicamente dirimenti, sui quali il Paese era diviso in schieramenti contrapposti, che propugnavano alternative visioni della società e dei diritti degli individui. La cittadinanza da riconoscere agli stranieri, ovvero quando e a quali condizioni farlo, rientra a pieno titolo in uno dei grandi temi sociali che definiscono l’identità di un Paese, come ho più volte ricordato anche su queste pagine, e il referendum che questo tema ha affrontato aveva una rilevanza analoga ai referendum che hanno segnato – in una direzione o nell’altra – la storia nazionale. Ma esso aveva però una caratteristica peculiare che lo contraddistingueva da tutti gli altri referendum storici: ha affrontato un tema che non aveva mai avuto forte rilevanza nel dibattito pubblico. Prima del referendum, infatti, il confronto sulla concessione della cittadinanza agli stranieri che sono radicati in Italia non era mai uscito dallo spazio ristrettissimo degli addetti ai lavori, di coloro che per passione umana o per lavoro se ne sono occupati, o al più di coloro che ne avevano avuto contezza per esperienza diretta (ex migranti).
Nella campagna referendaria ho tenuto molti incontri in diverse parti d’Italia e la situazione che mi sono trovato di fronte è stata sempre la stessa, nonostante i partecipanti fossero, come è ovvio, non pregiudizialmente ostili o indifferenti al tema. Eppure pressoché nessuno, salvo rare eccezioni, aveva una conoscenza, neppure basilare, di cosa prevede la legge sulla cittadinanza, di quali fossero i requisiti richiesti e soprattutto di quale fosse la reale condizione di vita di quei milioni di stranieri che pur essendo radicati in Italia non ne diventano cittadini se non in tempi incredibilmente lunghi. Parimenti rimaneva sconosciuto ciò che avviene nella maggior parte degli altri paesi europei ovvero che il requisito dei cinque anni non è affatto un salto nel buio, bensì la normalità delle scelte fatte in gran parte dei paesi d’Europa, anche con governi non progressisti.
L’estraneità, la lontananza e la diffidenza dal tema oggetto del referendum è in larga parte il frutto del fatto che nello scorrere degli anni (anzi dei decenni) è rimasto normalissimo in Italia mescolare il tema della cittadinanza con l’immigrazione in generale, con gli sbarchi, con le espulsioni o con quello che si vuole, senza fare alcuna differenza, disseminando senza posa ogni sorta di sciocchezze. Ciò avviene ovunque a tutti i livelli, non solo tra chi sostiene posizioni politiche più facinorose o da parte dei mezzi di informazione più estremisti. Prendo un esempio recentissimo: sul Corriere della Sera, edizione del 10 giugno, è comparso un articolo di analisi sull’esito del referendum cittadinanza a firma di Adriana Logroscino. L’articolo è preciso e posato nei contenuti, ma una grande foto lo accompagna: una foto in cui vi si vede una carretta del mare che porta i migranti in Italia. Non si tratta di uno scivolone accidentale accaduto anche a un quotidiano con una storia autorevole, ma della assoluta “normalità” di ciò che avviene, talmente comune che nessuno neppure si accorge del problema. Sui temi delle migrazioni la crescita della consapevolezza, basata sulla conoscenza e sul confronto civile è un obiettivo che rimane ancora lontanissimo.
Proprio alla luce di queste premesse è legittimo chiedersi se questo referendum, nonostante la sua importanza cruciale su un piano astratto, andava comunque evitato. Sono note le ragioni di chi ritiene che farlo sia stato un errore, ma ritengo che vi siano altre e più rilevanti ragioni che vanno nella direzione opposta. Il referendum ha permesso a un tema che era rimasto ancora invisibile nonostante investa la vita di milioni di persone che vivono tutti i giorni accanto a noi (quelle vite degli altri che non vogliamo vedere), di uscire dal guscio in cui era eternamente rinchiuso e che non sarebbe stato rotto neppure se avessimo portato avanti dibattiti tra pochi esperti, politici e militanti per un ulteriore decennio. Dentro un clima politico velenoso e nell’assenza totale di una corretta informazione pubblica, il referendum ha dato vita a un dibattito reale (quindi necessariamente divisivo) su una questione che riguarda già ora l’identità del paese in cui viviamo e che soprattutto interroga il suo futuro.
Nove milioni di italiani hanno scritto sulla scheda che vogliono un cambiamento: troppo pochi per il risultato referendario, ma grazie a questi, affatto pochi, nove milioni di persone, il guscio è stato rotto. Sostenere che il fallimento del referendum abbia danneggiato la causa di una maggiore apertura sulla cittadinanza agli stranieri mi sembra dunque un non senso. Analogamente, credo sia assai debole la tesi in base alla quale bisognava non agire per non rendere la discussione politica su una possibile riforma della normativa ancora più difficile; tesi curiosa che non tiene in conto i dati di realtà, ovvero che la norma sulla cittadinanza giace immobile nella sua inadeguatezza dall’anno 1991 e che nel Parlamento si sono accumulati per legislature intere innumerevoli testi di riforma della legge sulla cittadinanza, depositati ma mai discussi.
Il cambiamento della società italiana è veloce, anche se molti ancora non se ne accorgono e il nodo del riconoscimento della cittadinanza agli stranieri che decidono di radicare la loro vita in Italia crescerà presto di importanza nella vita politica e sociale di questo difficile Paese. Ignorarlo o rinviare sine die la discussione, fingendo che l’arretrata normativa attuale vada bene così com’è, non sarà possibile.