Parla lo storico leader della sinistra

Intervista a Fausto Bertinotti: “Vincere ai referendum, quei Sì per tornare alla lotta di classe”

Cinquant’anni fa l’approvazione dello Statuto dei lavoratori. Tradito. Fu una grande conquista del conflitto sociale sprigionato da studenti e operai. Il gioiello dell’autunno caldo e dell’azione politica di comunisti, socialisti e democristiani

Interviste - di Graziella Balestrieri

28 Maggio 2025 alle 08:00

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Photo credits: Sara Minelli/Imagoeconomica
Photo credits: Sara Minelli/Imagoeconomica

Giusto mezzo secolo fa, Il 20 maggio del 1970 viene promulgato lo Statuto dei diritti dei lavoratori. Chiedo a Fausto Bertinotti, che allora, in pieno autunno caldo, era sulle barricate con la Cgil, di parlarmi di quella tappa importantissima nella storia del conflitto di classe.
La cosa più importante dello Statuto dei lavoratori è la sua genesi, perché racconta di molte cose che sono, come tante altre, importanti e dimenticate dalla politica contemporanea. Il primo elemento della genesi è il tempo lungo della conquista. Lungo. La prima proposta dello Statuto dei diritti dei lavoratori è stata avanzata dal più prestigioso sindacalista italiano del dopoguerra, cioè Giuseppe Di Vittorio, che intorno a metà degli anni Cinquanta chiese uno Statuto dei diritti dei lavoratori come elemento di completamento della Costituzione Repubblicana. Di Vittorio si riferiva sia all’articolo 1 della Costituzione che all’articolo 3. La proposta fu avanzata dalla CGIL in pieno periodo di guerra fredda e di governi centristi. Il clima anticomunista che regnava in Italia funzionò come un muro. La nell’opinione pubblica l’idea dei diritti iniziava a farsi largo. Il salto di qualità avviene quando la riscossa studentesca e operaia , alla fine degli anni 60, fa del lavoro la questione centrale del modello economico e sociale del Paese e della politica tout court.

È dopo il ‘68 che l’idea di Di Vittorio diventa realistica?
Si impegnano in tanti, a sinistra, in particolare la proposta arriva a un ministro socialista del governo di centro-sinistra, Giacomo Brodolini, che lavora con una equipe di giovani giuslavoristi che poi diventeranno tutti famosi. È allora che una idea strutturata di Statuto dei lavoratori inizia a prendere corpo. Vorrei solo ricordare che questa proposta contiene elementi rivoluzionari per l’epoca, a partire dalla conquista del diritto all’assemblea in fabbrica, all’ingresso del sindacato in fabbrica. Prima, come si diceva con un termine riassuntivo, la Costituzione si fermava ai cancelli della fabbrica, cioè la fabbrica era off limits, era il regno del padrone. Quindi l’idea di poter valicare i cancelli e portare i diritti dei lavoratori all’interno della fabbrica era un’idea fortemente riformatrice. L’idea proprio di un cambio di passo nella vita civile del paese e nel suo ordinamento economico-sociale. Da qui la trasformazione in legge di molti diritti dei lavoratori tra i quali l’impossibilità per i padroni di licenziare senza giusta causa. Il celebre articolo 18.

Lo Statuto arriva dall’alto?
No. C’è la spinta operaia e studentesca del 68 e del 69 che mette tutto in moto. Si potrebbe dire che si coniugano istanze rivoluzionarie e istanze riformiste. Il banco di prova è un contratto che farà storia, da molti punti di vista. Il contratto dei metalmeccanici del 1969.

Da quali punti di vista?
Intanto dal punto di vista della lettura della società italiana e del conflitto di classe: stiamo parlando del contratto simbolo dell’autunno caldo. Così verrà chiamato l’autunno del 1969 che realizza la congiunzione tra i moti giovanili, che erano esplosi a partire dagli Stati Uniti dell’America e avevano investito tutte le università dell’Occidente, da Berkley a Berlino, a Roma, a Milano, a Torino, a Napoli, con il conflitto operario, che dopo il gelo degli anni Cinquanta aveva cominciato faticosamente a riaffacciarsi negli anni Sessanta ed è esploso proprio nel nel biennio rosso.

Qual è il biennio rosso?
Il 1968 / 1969. Uno degli elementi che caratterizza il biennio rosso è la lotta per il contratto dei metallurgici. Chi ha vissuto quelle pagine della storia non la dimenticherà mai. La manifestazione dei metalmeccanici a Roma a fine novembre del 1969 segna un tornante della storia sociale del Paese. Si svolge dopo giornate di grande tensione: dieci giorni prima c’era stato uno sciopero generale per la casa, che fu accompagnato da manifestazioni in tutte le città, da scontri con la polizia e dalla tragica morte di un agente, Annarumma, colpito da un tubo di metallo durante i caroselli con le gip della celere. Quella manifestazione dei metalmeccanici del 28 novembre fu un’invasione che investe e avvolge Roma, è un fatto sconvolgente. Senza precedenti per la capitale. Con una grande articolazione di fabbriche in cui i “consigli” prendono peso e per la prima volta e ottengono grandi risultati sul terreno del salario, dei diritti, dell’orario.

Furono importanti quelle giornate?
Si, insisto molto su questo perché io dico che lo Stato dei diritti dei lavoratori non nasce nelle aule parlamentari: nasce nel conflitto sociale, che riporta in primo piano una proposta di lungo periodo. E così il testimone passa alle forze politiche, ma tutte le forze politiche in realtà sono trasformate da questa vicenda. Basti pensare, appunto, che il protagonista principale del dibattito parlamentare è un ministro socialista, Brodolini, che purtroppo morì prima dell’approvazione dello statuto. Ricordo un suo intervento drammatico e molto bello ad un congresso della CGIL. Era ormai quasi morente.

E chi fu il ministro che portò lo Statuto all’approvazione?
Carlo Donat Cattin. Democristiano. Ti racconto un episodio che lo riguarda. Per dirti come la lotta sociale cambiava il modo di pensare e di comportarsi dei protagonisti. In un momento molto aspro della trattativa tra i sindacati e i lavoratori con il padrone, un dirigente di Confindustria affrontò bruscamente Donat Cattin. “Vorrei ricordarle – gli disse – che lei è il ministro del lavoro”, come per invitarlo a restare uomo di mediazione. Donat Cattin rispose secco: “No, sono il ministro dei lavoratori”.

Chi lavorò a stendere lo Statuto?
C’è stato un lavoro di questi giuslavoristi, di sinistra, socialisti, comunisti, democratico-cristiani, che costruirono questa gigantesca operazione. Se uno proprio vuole ragionare su dei particolari che oggi sembrano totalmente impossibili, vorrei ricordare che la Statuto dei diritti dei lavoratori passa con l’astensione del partito comunista. Però con un argomento forte e cioè l’impossibilità di licenziare per giusta causa riguardava solo le aziende sopra i 15 dipendenti. Non valeva per le aziende piccole e medie. E il partito comunista, con una parte larghissima dei giuslavoristi, che pure avevano lavorato alla scrittura del testo, non erano di questo avviso. Ma la mediazione che portò questa grande legge all’approvazione era resa necessaria per avere la maggioranza. Quindi il partito comunista si astenne e alcuni esponenti del PSIUP, il Partito Socialista di Unione proletaria (nato da una scissione da sinistra del Psi) addirittura votarono contro per la stessa ragione. Questo testimonia il clima. Una grande riforma costruita con il movimento di massa e con le lotte di classe, che approda in Parlamento, recuperando il testimone di una proposta lanciata quindici anni prima dalla CGIL nel periodo della guerra fredda, e realizza veramente un sogno .

Nello Statuto dei diritti dei Lavoratori ovviamente si parla di dignità del lavoratore. Dignità che oggi è completamente calpestata. Pochi giorni fa sono morte tre persone in tre città diverse d’Italia, l’Italia è diventata un cimitero di morti sul lavoro: allora a che serve avere uno Statuto dei diritti dei lavoratori se poi non viene rispettato?
Io credo che si possano usare i termini giusti: lo Statuto dei diritti dei lavoratori come la Costituzione Repubblicana sono stati traditi. Assolutamente traditi! Guarda, vale sempre la formula molto indovinata di quel grande sociologo che era Luciano Gallino, che a un certo punto disse che tra l’inizio degli anni Ottanta e metà degli anni Ottanta il conflitto di classe si è rovesciato. Fino alla fine degli anni Settanta lo hanno esercitato i lavoratori contro i padroni, poi lo hanno esercitato i padroni contro i lavoratori. Su questo io insisto molto: leggere le vicende politiche, separandole dal conflitto sociale, costituisce l’errore più grave che un esponente di sinistra e di una politica di sinistra possa fare. Negli anni settanta, mentre il conflitto era forte, c’è stato un brande avanzamento. Noi adesso parliamo dello Statuto dei diritti dei lavoratori, ma poi potremmo parlare delle riforme sociali, persino di quelle civili, come il divorzio e l’aborto, tutte conquiste raggiunte nel fuoco della lotta conflitto di classe, del conflitto operaio.

Poi che succede?
C’è la controriforma, se vuoi chiamarla così: la rivincita di classe, dopo la sconfitta del movimento operaio. E dopo la metamorfosi della sinistra politica, che da sinistra operaia si trasforma in sinistra del mercato, la famosa sinistra liberale. Sparito l’antagonismo politico. Vince la classe padronale, vince l’impresa, e l’impresa guida il convoglio della controriforma. Ma sul convoglio della controriforma c’è tutta la politica legislativa. Quindi è tutta contro il sindacato. Basta guardare solo questo: noi oggi abbiamo i salari più bassi d’Europa. Abbiamo una perdita di trenta punti percentuale, rispetto a Germania e Francia. Ma noi avevamo invece uno strumento che proteggeva il salario e le pensioni dall’inflazione, che si chiamava “scala mobile”. A metà anni 70 avevamo conquistato il punto unico di contingenza che equipara gli aumenti automatici per i lavoratori poveri a quelli per i dirigenti ricchi. L’abbattimento di quella difesa dei lavoratori, nel 1984, ha portato a trasformare il salario in variabile dipendente. Una vittoria strutturale, ideologica, che dice che tu puoi avere un aumento salariale solo se hai un aumento della produttività. Poi anche con l’aumento della produttività, l’aumento ti viene sostanzialmente negato.

Adesso lo riconosce persino Draghi, che la politica dei bassi salari è diventata controproducente e crea danni seri per il paese. Come nella canzone “Morire”, dei CCCP: Produci-consuma-crepa!
Sì, è così. Per competere, invece di lavorare sull’innovazione, hai lavorato sulla riduzione dei salari e dei diritti dei lavoratori. Tanto è vero che per una lunga fase la ristrutturazione economica e industriale del paese è avvenuta anche attraverso la delocalizzazione. Cioè, l’inseguimento dei paesi con bassi o inesistenti diritti sindacali. Polonia, Romania, ma anche India, ma anche Cina.

Dove c’è più sfruttamento dei lavoratori.
Sì, esattamente. Un modello di sviluppo fondato sulla rapina nei confronti della natura e sullo sfruttamento dei lavoratori. Si potrebbe aggiungere, per un omaggio a Rosa Luxemburg, che prima dello sfruttamento e della rapina c’è la spoliazione, che è visibile nel fenomeno dell’immigrazione. Cioè dell’iper-sfruttamento sugli immigrati che arrivano e sono condannati per quattro soldi a crepare nelle campagne.

I Sindacati?
I sindacati sono stati indeboliti da questa vittoria del capitale. Poi ha pesato una divisione sindacale che ha visto una parte importante del sindacato – esattamente come la sinistra liberale – farsi paladina delle imprese invece che dei lavoratori. La CGIL ha cercato di resistere a questo. Qualche volta ha cercato di alzare la testa. Nella CGIL ci sono alcune esperienze sindacali importanti. Penso a quella dei metalmeccanici, che ancora oggi sono in lotta per un rinnovo contrattuale senza che la politica se ne sia nemmeno accorta, e dopo 40 ore di sciopero il padronato non ha ancora accettato di sedersi al tavolo delle trattative. Io capisco che oggi è difficile costruire il tessuto del conflitto e della lotta, però è indispensabile: senza questo frana tutto.

C’è qualche luce, da qualche parte?
Si. Qualche mese fa, nel luogo che tutta la sociologia considerava ormai off-limits per il conflitto di classe (cioè le fabbriche di automobili negli Stati Uniti d’America), proprio a Detroit, nel cuore della “cintura della ruggine”, il sindacato ha organizzato contro le tre “Major” uno sciopero a oltranza con una rivendicazione di un aumento della retribuzione del 40%. Vuoi sapere una cosa incredibile? Ha vinto.

Quando i sindacati sono uniti, perché, se sono divisi, come in Italia…
I sindacati sono più forti se uniti. Ma se una parte del sindacato compie una scelta compatibilista, sostanzialmente istituzionale, a quelli che non la compiono corre l’obbligo di tentare di invertire la tendenza.

Come arriviamo ai referendum del 8 e 9 giugno
Sul referendum dell’8 e 9 giugno l’impegno della CGIL è stato ed è molto consistente. Per fortuna ritrovo nelle strade e negli appuntamenti pubblici, una presenza che da tempo non si vedeva. Per essere chiari però l’unità sindacale non te la regala nessuno. L’unità sindacale negli anni Sessanta venne conquistata dopo un ciclo lunghissimo di divisione sindacale. Alla fine, venne riconquistata contro il sindacato giallo, cioè un sindacato padronale che pure era numericamente importante. E viene realizzata perché la Cisl subisce una scissione per riaprire la strada dell’unità sindacale. Non è che siano processi indolore. Non è che facendo l’appello all’unità, all’unità sindacale, il sindacato si unisce.

La sinistra non ha abbandonato i lavoratori, dunque anche i sindacati, facendo anche il gioco delle destre?
La destra semmai è al governo perché i governi di centro sinistra hanno governato galleggiando sulla crisi della democrazia e accettando come paradigma la competitività nell’economia capitalista. Cosa che ha spinto tanta parte di lavoratori, in una sorta di nebbia, determinata dalla loro solitudine. Non è che non ha appoggiato i sindacati, la sinistra. Piuttosto ha smesso di leggere la società secondo il conflitto di classe. È una cosa più radicale, più profonda. È diventata una parte del sistema economico e sociale. Non si scappa da questo. Le politiche di un quarto di secolo, dei governi del centro-sinistra, negli Stati Uniti come in Europa, hanno aperto una crisi sociale su cui si è abbattuto drammaticamente il colpo di clava di una destra reazionaria, autoritaria ed estremista.

Referendum: ancora si dibatte se andare a votare o meno, facendo perdere di vista l’argomento del referendum e l’importanza del referendum.
Assolutamente andare a votare. Io trovo anche questo, a proposito di crisi della democrazia. Mi piacerebbe interrogare una donna o un uomo che ha vissuto quell’epoca lì, gli anni Sessanta, e semplicemente chiedere: “scusa, c’è un referendum che riguarda questioni importanti per la vita dei lavoratori, tu pensi di andarci?” Quella persona mi risponderebbe sconcertata: “Scusa, che domande mi fai? Certo che si!” Non votare ad un referendum che interessa la vita di tutti, a cominciare da quei cinque milioni che vivono nella precarietà e quegli altri milioni che potrebbero avere la cittadinanza italiana, io credo che sia un atto di diserzione della democrazia.

28 Maggio 2025

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