Il ricordo del pugile

Chi era Nino Benvenuti: il poeta del ring, divo generoso e fascista ma amato da tutti

Spavaldo come Alì, tecnico, coraggioso. Era del Msi ma ruppe i tabù. La rivalità con Mazzinghi, le sfida ai giornali americani, gli aiuti a Griffith, il volontariato in India dai lebbrosi

Sport - di David Romoli

25 Maggio 2025 alle 17:33

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Foto Vincenzo Livieri – LaPresse
Foto Vincenzo Livieri – LaPresse

La notte del 17 aprile 1967 mamma Rai scelse di non trasmettere in tv la diretta dell’incontro di boxe più importante combattuto da un pugile italiano nel dopoguerra: Nino Benvenuti contro Emile Griffith per la cintura di campione del mondo dei pesi medi sia WBA che WBC, le due distinte e principali organizzazioni pugilistiche internazionali. Il servizio pubblico dell’epoca si preoccupava del sonno degli italiani. Temeva che restassero svegli in troppi e aveva ragione.

L’incontro trasmesso solo alla radio fu seguito comunque da 18 mln di persone: un record eguagliato solo, tre anni dopo, dalla storica partita Italia-Germania: quella del 4 a 3. Il ring era quello newyorchese del Madison Square Garden e in America il pugile triestino era dato all’unanimità per immensamente sfavorito. Lo stesso Benvenuti era consapevole di essere stato scelto in buona misura per una questione di pelle. Bianco, biondo, occhi azzurri: il combattimento con il nero Griffith prometteva di fare spettacolo. L’italiano, che in quanto a spavalderia giganteggiava, non si era perso d’animo. Con la scettica stampa americana aveva insistito: “Penso di essere il numero uno”. “Non gli manca la lingua. Peccato che debba vedersela con Griffith”, avevano commentato i giornali americani.

Avevano usato parole simili, la stampa americana, qualche anno prima, per l’allora Cassius Clay, futuro Mohammed Alì, in procinto di combattere con il grande Sonny Liston: “Big Mouth”, lingua lunga e nessuna speranza di vittoria. Alì aveva invece vinto, e vinse anche Nino. Griffith, destinato a diventare il primo pugile a dichiarare la propria omosessualità, volle stringergli la mano: “Con Nino ho combattuto da nemico ma lo ho apprezzato come uomo”. Sarebbero rimasti amici per tutta la vita, con Griffith padrino di cresima di uno dei figli di Benvenuti. Al ritorno in Italia Benvenuti fu festeggiato come un divo di prima grandezza e tale rimase per tutti gli anni in cui rimase campione del mondo: icona pop e protagonista onnipresente della cultura di massa, tallonato dai cacciatori di pettegolezzi, tanto ricercato da poter vendere la proprie interviste a caro prezzo. Le cronache della sua relazione extraconiugale con la futura seconda moglie, Nadia Bertorello, già miss Emilia, tenevano banco sulla stampa scandalistica e gli costarono l’udienza con Paolo VI dopo la conquista del titolo: qualcuno consigliò al pontefice di soprassedere: “Meglio evitare, santità”. Quando nel 1969, da campione del mondo, finì sullo schermo con la superstar del western all’italiana Giuliano Gemma per il film “Vivi o preferibilmente morti” sembrò un passo naturale, quasi ovvio: i due si somigliavano fisicamente, Gemma era stato pugile dilettante, erano stati persino militari insieme nella caserma Capannelle di Roma.

La popolarità di Nino era tale da sfidare il pregiudizio politico. Alla fine degli anni ‘60 essere apertamente di destra e anche amato dal grande pubblico era un terno al lotto. Benvenuti era missino ed era stato anche candidato dalla Fiamma nel ‘64, salvo rinunciare poi all’impegno politico diretto proprio per evitare contestazioni. Con il suo passato, del resto, lo schieramento a destra era forse inevitabile. Nato a Isola d’Istria, figlio di un pescivendolo, aveva conosciuto dopo la guerra i rigori della repressione jugoslava contro gli italiani. Il fratello si era fatto 7 mesi di galera, la famiglia era stata costretta a rifugiarsi nella zona “A” di Trieste, quella italiana. “Avevo conosciuto la sinistra di Tito: non potevo che essere di destra. Ancora oggi mi sento un esule”, avrebbe spiegato decenni più tardi. I primi passi da pugile, Benvenuti li aveva fatti in una palestra allestita in casa, ancora a Isola d’Istria, col padre ex pugile per allenatore. Dilettante dal 1955, a cavallo tra i “welter” e i “superwelter”, sarebbe passato al professionismo dopo l’oro conquistato alle Olimpiadi di Roma nel 1960 con alle spalle 108 vittorie e una sola sconfitta. Meglio di lui solo Sugar Ray Robinson, mai sconfitto da dilettante ma con solo 85 incontri disputati. A Roma Benvenuti si aggiudicò anche la coppa Val Barker per la miglior tecnica sul ring. Secondo posto per Cassius Clay, oro nei massimi.

I due pugili qualcosa in comune ce l’avevano davvero: la spavalderia, l’attitudine al divismo, la capacità di combattere con la testa e la strategia oltre che con il fisico. “Benvenuti sul ring sembrava danzare. Era l’antitesi del pugile rozzo: un poeta del ring”, scrisse Gianni Brera e la definizione si sarebbe potuta applicare senza modifiche ad Alì. Il primo grande rivale di Nino Benvenuti fu un altro italiano, Sandro Mazzinghi, campione mondiale dei medi junior dal 1963. I due si sarebbero dovuti incontrare subito ma un grave incidente d’auto in cui perse la vita la moglie del pugile toscano e lui stesso rimase seriamente ferito, li costrinse a ritardare. Si incontrarono nel 1965, Benvenuti vinse senza contestazioni la prima sfida a giugno ma la rivincita, nel dicembre, fu molto più sofferta. Entrambi i pugili arrivarono alla fine del quindicesimo round molto provati, con Benvenuti costretto a ricorrere alla bomboletta a ossigeno. Mazzinghi non accettò mai il verdetto che consegnava la vittoria a Benvenuti e il malanimo sarebbe proseguito per cinquant’anni. La riconciliazione è arrivata solo pochi anni fa, dopo un’intervista in cui il vincitore di allora affermò: “Una parte di quella vittoria la può sentire sua. Com’eri e come combattevi, Alessandro! Sei stato un grande campione”. Mazzinghi rispose a tono: “Ricambio il bacio con altrettanta stima. Ciao Giovanni”.

La rivincita fu durissima anche con Griffith, nel dicembre 1967. Nel primo round il nero ruppe una costola all’italiano che nonostante il dolore riuscì ad arrivare sino alla fine del match ma fu sconfitto ai punti: “Quella sofferenza è stata un’esperienza mai provata in tutta la carriera”. Benvenuti si riprese il titolo tre mesi dopo, nel marzo 1968 ancora al Madison, nel terzo e ultimo scontro con Griffith, e lo mantenne fino al novembre 1970. L’argentino Carlos Monzon lo sconfisse a Roma e poi di nuovo nella rivincita del maggio 1971, entrambe le volte per KO tecnico. Nino gettò la spugna definitivamente, ritirandosi dalla carriera. Anche di Monzon restò sempre amico, senza abbandonare l’argentino neppure quando finì in carcere per aver assassinato la moglie.

Nino Benvenuti è stato un gran pugile, un gran divo, un gentiluomo sul ring e fuori e forse soprattutto un uomo generoso. Pagò lui le cure per il malato Griffith, rimasto senza un soldo. Girava per le vie di Trastevere di notte cercando il grande Tiberio Mitri che, non più in sé, vagava senza meta per i vicoli del quartiere più romano di tutti. Nel 1995 si trasferì in India, per lavorare nel lebbrosario gestito dalla suore del don Bosco: “Ho avuto molto, volevo restituire qualcosa”. Gli ultimi anni della vita di Nino Benvenuti sono stati i più tristi, soprattutto dopo la morte del figlio Stefano, suicidatosi a 58 anni nel 2020, in piena pandemia. Se ne è andato come la leggenda che era sempre stato: non solo un pugile eccezionale ma anche il protagonista e uno dei principali simboli, sul ring e fuori dal ring, di un’epoca irripetibile.

25 Maggio 2025

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