Il libro di Pietro Gargano
‘Napule nun t’o scurdà’, il nuovo libro di Pietro Gargano: quando Napoli si liberò dai nazisti
Un libro che mescola la ballata popolare all’acume del saggio storico. Ma anche un monumento ai piccoli e grandi eroi che nel settembre ‘43 ebbero l’ardire, per primi - di dire ‘nein’ ai tedeschi
Cultura - di Filippo La Porta

A Napoli si preparano, sia pure con qualche ritardo, le iniziative culturali per celebrare il compleanno della città, fondata dai greci – secondo la leggenda – il 21 dicembre di 2.500 anni fa, nel 475 a. C. Ora, quali sono i valori del proprio passato che Napoli intende celebrare e valorizzare? Nella città “porosa” di Walter Benjamin (la porosità del tufo, estesa financo alla voce, secondo Erri de Luca) si mescolano innumerevoli apporti, tra folklore, storia, religione, mitologia. Andrebbe ricordato anzitutto il legame tra Neapolis e Virgilio, che amava la cultura greca e che lì volle essere sepolto.
Virgilio Mago, profeta e taumaturgo, protettore della città, a testimoniare una propensione all’immaginazione poetica e negromantica, dalla Napoli sotterranea al principe di Sansevero, scienziato e alchimista. Ma un elemento centrale dell’identità napoletana risiede nella sua tradizione di rivolta, di sollevazione popolare e protesta civile, dal seicentesco Masaniello alle pagine gloriose del Risorgimento e alle Quattro Giornate di Napoli (27-30 settembre 1943), rievocate non abbastanza spesso (la prima insurrezione contro il nazifascismo di una città italiana, prima ancora dell’arrivo degli Alleati, come poi accadrà al Nord con la città di Genova, nell’aprile del 1945!). Sulle Quattro Giornate – celebrate in un grande murales degli studenti dell’Accademia di Belle Arti (coordinati dall’artista Christian Leperino e con il prezioso sostegno dell’associazione Miradois di Antonello Pisanti) – è uscito un libriccino prezioso: Napule nun t’o scurdà (Magmata) di Pietro Gargano (scrittore ed ex giornalista del Mattino), titolo ispirato a un verso di Salvatore Palomba musicato e cantato da Sergio Bruni.
Anzitutto una notazione sullo stile e la struttura del libro (che alla fine è corredato da foto su luoghi, monumenti e lapidi). Il lettore, invogliato dal titolo, si prepara a leggere un onesto resoconto di quei terribili eventi, un documento da accostare alla vasta letteratura neorealista e memorialistica resistenziale. E invece ci troviamo subito dentro un libro espressionista che mescola vernacolo a prosa raffinata, che, linguisticamente, sta tra Basile e Gadda: “Sofia e la sorellina Maria scemiarono indifferenza pure se avevano il cuore appilato dallo spavento…” di fronte ai gagliardi soldati tedeschi “che a vederli facevano azzillire la pelle”. Il linguaggio si fa specchio deformato e deformante della realtà per estrarne la verità nascosta. E dove Sofia è naturalmente Sophia Loren, che a nove anni, ragazzina “dagli occhi lunghi”, – affacciata a una loggia – vide uno scugnizzo lanciare una bottiglia incendiaria contro un Panzer! Epifania abbagliante dentro l’orrore della guerra di occupazione. In quei giorni Napoli rispose con fierezza “alle durezze e alle allisciate” degli occupanti germanici: al bando del colonnello Scholl (ribattezzato “Sciosciò”, per dire “vavattenne”)si presentarono solamente 150 dei 30.000 giovani di leva!
Sottotitolo di questa esaltante cronaca di una “insurrezione sfrantummata” (ordinata però anarchica) è “Lenuccia, Raffaela e le altre donne combattenti. Scugnizzi, femminielli e un eroe uscito dal carcere”. Il ruolo centrale delle donne nella Resistenza italiana, come si sa, è stato sempre svalutato e tenuto ai margini: staffette con compiti delicatissimi di coordinamento, informazione e logistica (far da mangiare e dar da vestire), combattenti in armi (si pensi solo all’Agnese va a morire di Renata Viganò) , ma – e ciò è decisivo – sempre con una attitudine a “contenere” la violenza, a darle una misura. A Napoli le donne sono state spesso protagoniste., come ci mostra Gargano. Da Marija Bakunin, terzogenita dell’anarchico, a Raffaella De Martino, Lenuccia Cerasuolo e la sorella Maria, Gabriella Centanni, Elena e Gaetano Romano (violentate dai militari della Wermacht, guerrieri feroci che non si comportavano affatto “da signori”, come qualcuno diceva) e tante altre.
Poi gli eroici scugnizzi, gli intrepidi guaglioni di strada e i tanti “bravi giuvane” falcidiati dai nazisti. Poi i partigiani gay, con in testa Vincenzo o’ Femmeniello, “una specie di boss buono della zona”. Se la Pelledi Malaparte, pur nella sua potenza rappresentativa, indulgeva a una immagine corrusca e tenebrosa della città stremata, Gargano affonda in quella stessa umanità brulicante per ricavarne la inesauribile narrazione di una resistenza civile e armata. Ricordandoci tra l’altro che Napoli fu una delle poche città europee “a salvare donne uomini vecchi bambini nati sotto la stella di Davide” (ospitando tra gli altri il grande attore ferrarese, di origine ebraica, Arnoldo Foà, che “cuffiandosi di stare al riparo” era scappato da Roma a Napoli). Una verità da ribadire con energia, per allontanare dalla città qualsiasi ombra di antisemitismo, sciaguratamente tornata in questi giorni per un episodio di cronaca.
Questo libro oltre a essere un microsaggio storico scritto con il piglio di una ballata popolare, riafferma la funzione morale della letteratura, e cioè la sua vocazione a sottrarre all’oblio cose e persone, destini individuali ed esistenze concrete. Sfilano davanti ai nostri occhi persone comuni, semplici – “puverielli” – che in una situazione estrema (qui vengono rievocate le tante mattanze compiute dai nazisti, al centro e in periferia) diventarono eroi involontari: il ciabattino Vincenzo Di Napoli, il muratore Domenico Palladino, lo studente Alfonso Pansini, il professore di educazione fisica Antonino Tarsia in Curia, l’operaio milanese Antonio Pianta…La stessa folla anonima – disfatta dalla morte – che Dante, preso da pietà, intravede scendendo nell’oltretomba. . Lenuccia quando andava al Camposanto “conosceva le sepolture a una a una”: è importante sillabare i nomi di ciascuno, in questo Spoon River dei resistenti e della gente comune spazzata via dalla Storia. Inoltre: non pensiamo che crudeltà, stragi, violenze di ogni tipo, furono opera solo dei tedeschi. Il supporto datogli dai fascisti italiani è stato decisivo (si pensi solo ai micidiali cecchini fascisti appostati sui balconi): tanto che dopo la Liberazione si scatenò la “caccia ai neri”, anche se il leggendario e magnanimo capo partigiano Federico Zvab ne salvò molti dalla esecuzione sommaria, poiché “la giustizia vale anche per i fetenti”.
Va bene, non possiamo chiedere a Giorgia Meloni di dichiararsi antifascista, per la semplice ragione che non lo è. Però se volesse testimoniare davvero la sincerità di un percorso identitario – suppongo anche doloroso – di riflessione autocritica e maturazione politica, dovrebbe andare simbolicamente a Napoli, nell’anniversario delle Quattro Giornate. Proprio lei, i cui amati progenitori politici erano amici del famigerato comandante “vavattenne” Scholl. Non tanto e solo per riconoscere – come ha già fatto – i valori di libertà negati dal fascismo (petizione nobile ma un tantino astratta) quanto per onorare la parte di umanità che a Napoli ha combattuto il nazifascismo (veri patrioti e fratelli d’Italia!), chiamarla per nome, inchinarsi di fronte alle sepolture dei tanti partigiani protagonisti delle Quattro Giornate, rimasti al 95% in una vergognosa “macchia di silenzio”.