L'Italia torna reazionaria

Tomba di Antonio Gramsci, la direttrice del cimitero vuole abolire la bandiera rossa: “È divisiva”

La direttrice del cimitero acattolico che non vuole il vessillo rosso in memoria di Gramsci perché “divisivo”, la panettiera marchigiana finita sotto torchio per la sua fede antifascista, Nell’Italia tornata reazionaria, l’ordine è uno: cancellare la sinistra e la storia del Paese

Politica - di Michele Prospero

6 Maggio 2025 alle 13:00

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Tomba di Antonio Gramsci, la direttrice del cimitero vuole abolire la bandiera rossa: “È divisiva”

Anche le ceneri di Gramsci hanno dovuto ascoltare, in quella “magra serra” che ospita i resti della “dura eleganza non cattolica”, la sentenza urticante della direttrice del cimitero secondo cui la bandiera rossa è “divisiva”, neanche si trattasse delle camicie nere che annualmente prendono d’assalto Predappio. Parole degne dei tempi che della verità sono diventati nemici, i quali restituiscono vigore ai carnefici e rendono proprio chi se ne andò “stilando le supreme pagine nei giorni del tuo assassinio” un corpo estraneo a “questo paese in cui non ebbe posa la tua tensione”. Si assiste a un evidente scivolamento verso l’ignoto, quando vengono obliate le radici.

Se l’antifascismo si riduce però al chiacchiericcio degli opinionisti Gedi, che nei talk reiterano l’invito a Meloni, La Russa e Galeazzo Bignami a partecipare ai cortei del 25 aprile, c’è da disperare della ripresa di un’alternativa. Persino nel ricostruire le fonti culturali di Francesco, le sonde dei più incalliti destrorsi penetrano maggiormente a fondo rispetto alle griglie preparate dalla mentalità liberale-progressista, che per l’occasione ha riciclato la inopportuna categoria di “populismo”. E allora tocca seguire la pista indicata dal titolo di Libero, con l’ex montiano Sechi che in prima strilla: “Un Papa tra luci e ombre rosse”. Non per niente, per via della sua formazione, di Bergoglio l’ultraliberista Milei ha parlato come di un comunista rappresentante mondano del maligno.

La sopravvivenza di un anticomunismo senza più comunisti in movimento rientra nella operazione regressiva progettata dalla destra culturale (quella del Corriere della sera, non della Verità, tanto per intendere). Distrutto il pallottoliere, che smentiva le sue addizioni sul numero non decisivo dei partigiani sotto il comando di Luigi Longo, Cazzullo ammette di non essere portato per la matematica. Per trovare conforto alla ipotesi strampalata circa la irrilevanza dei comunisti che si diedero alla macchia, il Galante Garrone di via Solferino si affida da ultimo alla logica (in)formale. La sua prima tesi afferma che “non tutti i partigiani delle Brigate Garibaldi erano comunisti”. Dunque non può esserci tra gli uomini di “Gallo” una maggioranza di combattenti dagli ideali sospetti: in montagna molti salirono, così assicura, confluendo nella “banda egemone” nel luogo o per non arruolarsi con i repubblichini dopo il Bando Graziani, come fecero i giovani maschi in età di leva (e le 35 mila donne in armi?).

Dopo aver rifiutato il computo dei sovversivi tra i ribelli, sostenendo che “non tutti i partigiani avevano un’appartenenza politica”, Cazzullo mostra con quali acrobazie le penne del Corriere si destreggino con la logica. Con la seconda tesi, infatti, per rendere conto delle “pagine nere” che accompagnano la Liberazione, ecco l’immancabile affondo: “a Porzûs i partigiani comunisti assassinarono i partigiani cattolici”. Ma come, non erano i guerriglieri per una larga fetta apolitici, affiliati senza alcuna ideologia alla formazione più capillare in ogni zona? Inoltre, nella guerra di religione immaginaria, cattolici non c’erano anche tra i garibaldini? La logica tutta viscere e zero cervello sbanda. Allorché ai resistenti Cazzullo conferisce una valenza positiva, i protagonisti non sono mai comunisti e le idealità non contano. Negli episodi bui, invece, i rei tornano ad essere comunisti e il rosso si rivela sinonimo di sangue.

Ad afferrare inconsapevolmente il collegamento autentico tra antifascismo, lotta partigiana e Costituzione fu senza dubbio Berlusconi. Nel 2003, e poi nel 2009, egli bersagliò la Carta del ‘48 di “ispirazione sovietica”, ben individuando i canoni sostanziali e (si può dire?) di classe. Se la prendeva in particolare con l’articolo 41: “risente delle implicazioni sovietiche che fanno riferimento proprio alla cultura e alla Costituzione sovietica, da parte dei padri che hanno scritto la Costituzione”. In realtà, la disposizione incriminata e il successivo articolo 42 raccolgono un principio riconosciuto nella stessa dottrina giuridica del fascismo: il valore “sociale” dell’impresa e della proprietà. Comunque è nell’articolo 3 che viene sancita per la prima volta la egemonia del lavoro, del proletariato, entro un regime liberaldemocratico.

Sarà anche stata una stagione di amori, come piace raccontarla a Veltroni, o una mobilitazione filosofeggiante intorno all’eterno criterio di “Libertà”, come preferisce ricamare Gramellini. Tuttavia la Resistenza, quale fenomeno collettivo, ha avuto un chiaro sostrato ideologico – in coloro che nel biennio cantavano “e noi faremo come la Russia, noi squilleremo il campanel” e certo non sognavano di masticare il chewing gum dei marines. Covava per giunta un sentimento di rivalsa, dal vercellese a Molinella, per diventare più forti dei padroni (che avevano finanziato le milizie fasciste, responsabili quando non ancora al potere dello sterminio di tremila avversari politici in un anno, e infine lucrato con l’economia di guerra decretata dal loro capo di governo Mussolini).

Non è possibile eliminare il richiamo alla lotta di classe, come dimensione anch’essa cruciale della guerra partigiana, e vedere nel 25 Aprile una riscossa genericamente nazionale (accostata con fantasia da De Angelis sulla Stampa alla contesa russo-ucraina, ossia all’urto tra due potenze sovrane che si scannano per il territorio e l’adesione alla Nato). Tra i 4671 condannati dal Tribunale speciale, o in mezzo ai 12330 spediti al confino dalla magistratura ordinaria, è davvero arduo raccattare le generalità di un democristiano o monarchico o liberale. Comunisti, socialisti, anarchici e azionisti, quindi per lo più operai, braccianti, lavoratrici: costoro hanno garantito il nerbo sociale al costituzionalismo. Quando il Cavaliere rammentava “la realtà storica”, per cui al documento firmato da Terracini contribuirono soprattutto “forze ideologizzate che hanno guardato alla Costituzione russa come a un modello”, coglieva, pur con maniere rustiche, un seme effettivo della Repubblica.

È precisamente la fine delle ideologie, la scomparsa di qualsiasi sinistra novecentesca cioè, a spalancare la contraddizione tra una Costituzione dal cuore socialista e un senso comune retrivo quando non apertamente nostalgico, che si accanisce contro una panettiera marchigiana colpevole di antifascismo oppure vieta di portare qualcosa di rosso al grande rivoluzionario sardo in omaggio “al tuo spirito restato quaggiù tra questi liberi”. Ma nessuna antinomia può durare per sempre, deve essere sciolta in un modo o nell’altro. Come Pasolini, anche se attorno non si ode più “qualche colpo d’incudine dalle officine di Testaccio”, bisogna interrogare le ceneri di Gramsci cercando di orientarsi “tra speranza e vecchia sfiducia”.

6 Maggio 2025

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