L'anniversario della strage

Cutro due anni dopo, quelli che hanno visitato il confine tra la vita e la morte

La rete 26 febbraio che ha messo insieme superstiti e parenti delle vittime, giuristi e attivisti, chiede che siano mantenute le promesse e che cambi la politica sui migranti

Cronaca - di Ammiraglio Vittorio Alessandro

28 Febbraio 2025 alle 11:58

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AP Photo/Valeria Ferraro – Associated Press/LaPresse
AP Photo/Valeria Ferraro – Associated Press/LaPresse

La Rete 26 Febbraio – che tiene insieme associazioni di volontari, studiosi del diritto, cittadini, superstiti e parenti delle vittime del naufragio di Cutro – in questi giorni, non si è limitata a celebrare il secondo anniversario della strage, ha fatto di più. Riportando in Calabria alcune tra le persone che sopravvissero a quella tragedia (soltanto quattro superstiti si sono fermati in Italia), l’Associazione ha infatti proposto una riflessione sui diritti dei vivi e dei morti, inseparabilmente richiamati in una frase di Sant’Agostino citata nel corso del convegno di martedì scorso: “Coloro che amiamo e che abbiamo perduto non sono più dove erano ma sono ovunque noi siamo”.

Il documento finale rivendica, dunque, il diritto delle persone recuperate dal mare al riconoscimento; quello dei parenti all’indicazione della sepoltura; quello dei superstiti al ricongiungimento familiare: promesse assunte dal governo subito dopo il naufragio e mai mantenute, così che a Cutro, dopo il mancato soccorso, è stato negato anche il rispetto nei confronti delle vittime e dei loro familiari. Non sappiamo bene se per insipienza o se per una programmata volontà omissiva. La seconda ipotesi è avvalorata dagli esiti della tragedia del 16 giugno 2024, appena 16 mesi dopo Cutro, rimasta senza storia, in cui morirono 76 persone (26 erano bambini) e nessuno spiegò mai perché non furono salvate.

I superstiti del naufragio del giugno 2024 furono distribuiti fra i più vari ospedali, al punto che nessuno di loro sapeva se i congiunti fossero vivi o morti; per evitare una seconda Cutro, i corpi delle vittime furono smistati nottetempo, lontano dagli sguardi dei giornalisti e senza alcun riconoscimento, verso i più vari luoghi di sepoltura e non fu nemmeno possibile celebrare un comune rito interreligioso. In tanta disumana coerenza è ravvisabile un disegno che mette insieme logiche deviate e silenzio (ne tengano conto coloro che, in nome di un malinteso rispetto delle regole, aderiscono alle une o all’altro). Dispersi i morti, e non solo in mare, i vivi attendono, dunque, risposte. Incontrandoli, feriti e colmi di una dignità integra, fermi nel rivendicare con compostezza i diritti che noi pure reclameremmo al loro posto, non percepiamo alcuna diversità per provenienza, religione, cultura e ci fa torto soltanto la non comprensione della loro lingua.

Parlano come chiunque abbia frequentato il confine fra la vita e la morte, ciò che accade non solo in mare, ma anche nella solitudine ordinaria o, per esempio, in un letto di ospedale, o in una cella. Confine tenue e percepibile non soltanto nelle acque in tempesta o insidiose, ma anche nel silenzioso distacco e nell’attesa: perciò il mare torna spesso come metafora della nostra esistenza, e per questo suona oltraggiosa una strategia migratoria che consiste nel modificare, restringendoli, i codici del soccorso. È inumano soffocare in mare, se non addirittura la vita, le speranze di chicchessia: la prima quella di raggiungere una sponda; e le altre così incontenibili – egregio signor ministro dell’Interno – da indurre padri e madri a portare con sé, su barche improbabili, i bambini e i loro sogni.

Quello del marinaio e di chiunque affronti il mare, scrive Fernando Pessoa, è troppo grande per far pensare, è il sogno di “una patria che non aveva mai avuto”, e lo porta “a fare sua un’altra patria, un altro tipo di paese con altri tipi di paesaggi, e altre persone, e un altro modo di passare per le strade e sporgersi dalle finestre”. Contro ogni speranza difficile, l’incontro di Cutro ne ha prospettato, dunque, una più ardita, una “spes contra spem” come quella giorni fa invocata dal cappellano del policlinico Gemelli di ritorno dal decimo piano: la speranza che la traccia segnata dalla Rete 26 Febbraio si faccia progetto più grande capace di abbracciare, oltre Cutro, Lampedusa e ogni altro luogo di confine e di naufragi.

Il primo tassello necessario a una rete resistente è il diritto all’informazione e alla verità. Negato al punto, per esempio che, al giornalista di Radio Radicale che chiedeva come mai alle navi ong vengano sempre assegnati porti lontani, il ministro Piantedosi lo scorso anno rispose: per non gravare sul sistema di accoglienza di Lampedusa. Mentre scriviamo, dunque, è in viaggio verso Ravenna la Humanity 1 con settanta naufraghi a bordo: superata Lampedusa, nei quattro ulteriori giorni di viaggio cui è stata costretta, la nave sta passando davanti a 29 porti fra grandi e medi, senza potersi fermare.

Molte altre volte è successo, tante altre navi sono state inoltre ingiustamente fermate e sanzionate e, in alcuni casi, ostacolate dalle milizie libiche. Bisognerebbe mettere insieme tutti questi dati (e i tanti altri) per comporre, finalmente, il quadro complessivo che consenta non soltanto di imporre il rispetto delle regole (da parte di tutti, soprattutto delle istituzioni) ma anche una visione d’insieme che renda noi tutti più consapevoli e più guarniti gli operatori dell’informazione e gli studiosi del diritto e della società.

28 Febbraio 2025

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