L'appello

Cristiani è ora di impegnarsi: nella politica, nel sociale, nell’amore

Pubblichiamo la terza e ultima parte di un saggio che riguarda il cristianesimo inteso non solo come religione ma come modo di vedere il mondo e di impegnarsi per cambiarlo

Editoriali - di Mons. Vincenzo Paglia

20 Febbraio 2025 alle 12:19

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Foto Vatican Media/LaPresse
Foto Vatican Media/LaPresse

Mi chiedo perciò se il cristianesimo europeo che vuole essere all’altezza della situazione non debba anzitutto chiudere la fase delle lamentazioni per l’indebolimento di una forma di assistenza spirituale della cittadinanza propria della chiesa-di-stato e della religione civile. Persino confessando con vergogna qualche imbarazzo per questa lagna: mentre noi europei ci poniamo il grave problema di rendere “più attrattivo” (?!) il cristianesimo sul mercato “del benessere psico-fisico, molte migliaia di credenti sono odiosamente perseguitati e molte comunità sono violentemente spinte all’estinzione”. La seconda mossa che il cristianesimo europeo deve fare è la riabilitazione della spinta ecumenica: essa sopravvive nella celebrazione e nella devozione, ma si sta svuotando di serietà teologica e culturale. I cristianesimi vogliono davvero riconciliarsi? Le comunità cristiane si rendono davvero conto della marginalità alla quale la divisione della fede condanna la rivelazione del vangelo? L’Europa è stata segnata profondamente – nelle sue ricchezze e contraddizioni – dalle tre tradizioni cristiane: cattolica, ortodossa e protestante. È vero che il Cristianesimo è nato fuori dall’Europa, ma è in Europa che ha ricevuto la sua impronta culturale e intellettuale storicamente più efficace, come amava sottolineare Ratzinger. La divisione dei cristiani in Europa – e non solo, ovviamente – è uno scandalo. Ma è ancor più incredibile che le spinte unitive che dal Vaticano II avevano cambiato il clima nei rapporti sia tra i fedeli che tra le gerarchie, ora si sono più che raffreddate. Ricordo ancora l’emozione (che era anche un ammonimento) dell’affermazione del grande Patriarca Atenagora: “Chiese sorelle, popoli fratelli”. Le divisioni e i conflitti che stanno traversando il tessuto europeo non trovano le Chiese complici per la loro divisione?

Più in generale, credo che l’Europa, cristiana-ebraica-laica, sia chiamata a svolgere un ruolo che può essere decisivo per il coinvolgimento delle altre religioni, a partire dall’Islam. La fede cristiana (nelle sue tre tradizioni) e la ragione occidentale (più la democrazia politica) possono diventare i principali attori nel dialogo interculturale e interreligioso, con l’obiettivo–guida dell’affermazione dei diritti umani universali. Questo impulso di testimonianza disinteressata dell’esperienza religiosa, fino ad ora inedito per la storia religiosa a oggi irrimediabilmente politica ed etnocentrica del nostro pianeta, richiede un inevitabile incontro interculturale. Questo è proprio lavoro per intellettuali degni di questo nome. E in tale congiuntura, della quale si danno sino ad ora flebili cenni da parte di generose iniziative private, l’Europa è chiamata a riscoprire la sua vocazione al dialogo con gli altri partner religiosi e culturali per l’individuazione di una ragione della natura e quindi di un diritto naturale per l’uomo e il suo dimorare nel mondo. L’obiettivo è restituire fiducia nella profezia che genera la creatività comunitaria: ridare forza all’umanesimo che è in caduta verticale. La qualità spirituale si nutre di occasioni di dialogo, di riflessione, di curiosità intellettuale, di provocazione estetica, di gratificazione dell’apprendimento. Sfruttando ogni sinergia possibile con l’impegno di altri corpi intermedi che operano nella società civile e creandone di propri. Ragazzi e adulti stanno perdendo il linguaggio, la capacità e il gusto della narrazione esistenziale, della comunicazione interiore, della ricchezza metaforica degli affetti, delle emozioni, dei moti dell’animo. Le città perdono la loro punteggiatura umanistica.

La presenza cristiana nel contesto della formazione di una politica europea è il tema di una domanda di estroversione e di ripresa di iniziativa che sta assumendo il rilievo di questione epocale essa stessa. Le politiche prevalenti appaiono sempre più polarizzate sull’umanesimo materiale della collettività. L’Europa è il campo nel quale il cristianesimo ha più storia, più esperienza, più invenzione. Ebbene, proprio questa eredità deve interrogare i cristiani europei perché riprendano il tesoro di fede ed umanesimo nella loro mani e lo immettano in un’Europa che continua a ripiegarsi su ste stessa e a frantumarsi. Va recuperata e ricompresa la tensione all’universalità insita nel messaggio cristiano come vissuto nell’esperienza secolare europea. Nelle corde del cristianesimo europeo – nonostante una lunga storia di prove ed errori – c’è ancora quella tensione profonda che ha portato l’Europa e l’umanità stessa verso la democrazia, i diritti umani e la scienza naturale. La diffusione di questi tratti di civiltà, nella loro versione attuale, registra un’inclinazione di enorme popolarità e di inquietante drammaticità: non ci sono più popoli – quale che sia la loro antropologia e la loro religiosità – che possono sottrarsi agli sviluppi dell’invenzione europea: dell’economia di mercato, alla giustizia contrattuale, alla strumentalità tecnica. Nello stesso tempo, l’atmosfera creata dal capitalismo finanziario della competizione neoliberista, della sostituzione tecnologica e dell’individualismo etico, accentua paradossalmente il clima da “tutti contro tutti” che sta emergendo ovunque nel mondo. Paesi di culture nobili e millenarie istupidiscono in guerre commerciali, guerre civili, guerre di confine, guerre di sovranità, guerre di prestigio. Proprio come, al loro interno, sempre più frequentemente – e per analoghi motivi – si accendono pulsioni aggressive di cui l’apparato emozionale non registra neppure il pericolo e – spesso – i veri e propri orrori dei suoi effetti. Di fronte a questi scenari inquietanti, il cristianesimo europeo deve ritrovare una sua missione proattiva, direi profetica, per delineare una visione umanistica planetaria che sola può aprire un futuro pacifico. È urgente riprendere l’iniziativa per aiutare la crescita di una cultura politica europea adeguata all’umanesimo spirituale della comunità che in questo momento storico può assumere il rilievo di questione epocale.

L’incremento del benessere non si distribuisce affatto automaticamente: anzi le disuguaglianze crescono esponenzialmente e incominciano a toccare i fondamentali delle promesse di una cittadinanza assistita e regolata secondo giustizia. La cultura dei diritti umani, poi, sta impetuosamente evolvendo verso il culto ossessivo della indiscriminata libertà individuale di arbitraria manipolazione di tutti i legami fondamentali: dell’eros e della generazione, del sé e del corpo, del benessere individuale e del bene comune. Questa manipolazione, accortamente incoraggiata dall’economia neoliberista dei consumi e assistita dai protocolli tecnologici delle prestazioni, genera forme – per lo più inconsapevoli – di assuefazione e costrizione mentale che, fino ad ora, la storia del rapporto fra poteri ideali e libertà reali non aveva ancora reso possibili. Ecco allora la domanda cruciale: esiste la possibilità di immaginare una rinnovata vocazione del cristianesimo europeo che sia capace di coniugare l’adorazione di Dio in spirito e verità (che passa indiscutibilmente attraverso la responsabilità dell’amore del prossimo) con la passione per il destino spirituale e comunitario della società civile (che si concepisce democraticamente come soggetto culturalmente composito e politicamente auto-governato)? Il cristianesimo europeo – in tutte le sue articolazioni, dimensione politica compresa – non deve riscoprire la passione per un nuovo futuro sia del continente che del pianeta?

7. L’amore per l’Europa e il riscatto dalla cultura del debito

È ormai opinione largamente condivisa che non sia più possibile la creazione di un “partito” cattolico (o cristiano). D’altra parte, la semplice “diaspora” civile del cristianesimo, che consegna la fede ad una ispirazione personale senza mediazione culturale e comunitaria dei suoi potenziali umanistici, appare di dubbia coerenza con la missione. La formulazione di una dottrina sociale della Chiesa, che pure rimane a testimonianza della vocazione umanistica della fede cristiana, non può comunque essere assunta come manifesto politico, né come pregiudiziale programmatica, di una comunità cristiana identificata come parte civile. La Chiesa come “società perfetta” è una formula gravida di equivoci, sia nel senso storico-giuridico del diritto pubblico, sia nel senso etico-teologico più generale. L’evidenza di un tesoro della grazia affidato a vasi di creta pieni di crepe è – nuovamente – una convinzione comune. L’evidenza non colpisce, come nell’epoca della Riforma, i tenaci conservatori di una mondanità spirituale della grazia e della potenza della religione, sovrapposta e anche sostituita alla fede, che era ormai insopportabile ai moderni. Oggi colpiscono anche le oscure contraddizioni di molti protagonisti del risveglio evangelico della contemporaneità. Umiltà e spregiudicatezza della fraterna partecipazione al destino comune di un’umanità imperfetta, diventano necessariamente parte costituiva della testimonianza. Il Signore che deve venire a ricomporre la creazione del mondo con il regno di Dio è la ragione della nostra speranza di salvezza, sulla quale possono fare affidamento tutti gli umani. E non siamo noi. Questa è la parola-chiave della testimonianza cristiana, che solo la fede evangelica può confermare: l’annuncio che dimentica la seconda parte, getta un’ombra irrimediabile sulla prima. Non siamo noi, il Cristo: la singolarità irriducibile del Figlio che si fa uomo, legando il destino della generazione eterna con quello della nostra nascita temporale, è il cuore del dogma cristiano. Messa al riparo questa pulizia del dogma, è superata anche ogni logica della doppia cittadinanza fra la città di Dio e la città dell’uomo. Mettere in gioco i potenziali umanistici della fede cristiana nell’Europa contemporanea chiede oggi una speciale concentrazione sulla produzione di fermenti attivi, capaci di alzare l’asticella della coscienza riflessiva. Anche su questo versante si possono individuare due mosse propedeutiche al riscatto culturale della testimonianza cristiana che deve propiziare la redenzione dell’umanesimo europeo, rendendolo interlocutore affidabile di pacificazione geopolitica.

La prima mossa sembra individuabile nell’allestimento di una rete di contatti e di scambi culturali capaci di istituzionalizzare l’allestimento degli stati generali del rapporto fra religione e cultura, fede e umanesimo, affetti e diritto. Vanno promosse reti di relazioni culturali che favoriscano incontri e dialoghi, capaci di coinvolgere intellettuali anche non cristiani e non credenti. Per intenderci, è urgente immaginare una sinodalità dell’esercizio del pensare generato dalla fede e interessato alla fede, che mette in comune le urgenze dell’approfondimento e i risultati della ricerca. I punti di coagulo di questo esercizio di sintonia vanno individuati ai diversi livelli dell’orizzonte ecclesiale, e con una periodicità utile. Normalmente non ne dovranno scaturire manifesti o proclami. Siamo su un piano che possiamo chiamare “trans-politico” nel senso di una ispirazione più larga degli stessi partiti. La potenza di questo stile di navigazione della cultura alta del cristianesimo, al contrario, starà proprio nel fatto che essa ha l’obiettivo di far lievitare il pensiero umanistico ispirato dalla fede, non di imporre l’ideologia vincolante di un “partito di Dio” (conservatore o progressista che sia). La seconda mossa, capace di segnalare la ripresa di iniziativa di un cristianesimo non burocratico e resiliente, è l’azione etico-pedagogica di contrasto nei confronti dell’indotto narcisistico-competitivo associato alla cura del benessere e dell’autorealizzazione. Un pilastro dell’imperativo “etico” del “postmoderno”. Il cristianesimo attuale non dispone ancora della sofisticazione culturale necessaria per disinnescare il doppio legame che oggi tiene in ostaggio le libertà democratiche destinate al bene comune (il cui refrain è il seguente: “se volete allargare i diritti delle libertà individuali dovete imporre limiti ai legami comunitari”, che sono poi il ramo che rendono possibili e sostengono quelle libertà). La “dottrina sociale” della Chiesa conserva l’idealità di un “bene comune” che nella complessità e nella frammentazione odierna non trova referente adeguato. La reazione culturale adeguata alla incalzante retorica del messaggio neo-liberistico e consumistico deve essere preparata dalla competenza di carismi teorici impeccabilmente centrati sulle astuzie economiche e tecnocratiche della odierna “ragione” mercantile. E sostenuta da un massiccio riversamento di presenze ecclesiali nelle periferie esistenziali e sociali. La parrocchia “borghese” non si illuda: o entra con entusiasmo in questo processo, con tutte le sue risorse, oppure si troverà presto a vendersi anche la chiesa dove va alla Messa.

Non daremo al sistema la soddisfazione di abbandonare il “centro”, consentendogli impunemente di trasformare le città in smart-city dei capitali, dei flussi, dei lussi e dell’esclusione. Anzi, lo presidieremo culturalmente e creativamente con gli uomini e le donne migliori che abbiamo. Dedicheremo più impegno alla rete delle scuole e delle accademie che abbiamo generato: ma riscatteremo dall’oblio uomini e donne credenti nel Signore che abitano le università statali, le pubbliche amministrazioni, l’imprenditoria locale. Non saremo l’ornamento spirituale delle “zone a traffico limitato” della Città dei flussi, né gli assistenti spirituali delle “politiche assistenziali del welfare di Stato”. Perciò, mentre ci batteremo per restituire i servizi pubblici alla dignità e alla bellezza che meritano, riempiremo le periferie di musica, di poesia, di teatro. E di celebrazioni ospitali del mistero cristiano, anche, capaci di far ridiventare la presenza di Dio una emozione primaria: da smuovere anche il centurione romano e la samaritana dai molti (non) mariti. Siamo pronti ad andare ai crocicchi e a invitare alla Messa – sì, proprio alla Messa dove si è “toccati” dal Signore risorto, anche i pubblicani, gli irregolari, i pagani, gli zacchei, le cananee? Nel frattempo, questa vera e propria inter-posizione/inter-cessione del cristianesimo, della quale condividere e affinare i processi attraverso una opportuna periodicità delle complicità sinodali dell’umanesimo fraterno, potrà creare le condizioni per immaginare un’altra oikonomia e propiziare un’altra koinonia fra i popoli. Mammona, “signore” del denaro, non potrà essere cacciato dalla storia: ma si può impedirgli di diventare “padrone” del quale essere schiavi.

8. La città, banco di sperimentazione della (fraternità) cultura del dono

La polis richiede l’intervento di tutti i “corpi” sociali che la compongono. È un nuovo pensiero politico (o prepolitico) che promuova un ordine sociale poliarchico. Le istituzioni, i poteri e i soggetti più diversi, comprese le religioni, debbono entrare – anche controllandosi e limitandosi reciprocamente – come attori della edificazione della società. Tanto più la società è plurale, poliarchica, tanto più è civile. Non possiamo affidare alla sola politica la gestione della società…Certo, la politica regola le diverse realtà, ma non ne è né la guida né tantomeno l’anima. Un compito particolare spetta ai cristiani laici, come scriveva Benedetto XVI: «Impegnarsi per il bene comune è prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall’altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende forma di pólis, di città»(7). Il cristianesimo ha la forza per ispirare una società democratica che pone al centro la qualità della persona umana. Il cristianesimo, che ha proiettato l’Europa nell’orizzonte planetario, è forse il solo – oggi – che può rianimarla dal ripiegamento nella quale è precipitata: una società senza più sogni – qualcuno dice anche senz’anima – e rassegnata a frammentarsi. Il cristianesimo può ridarle vigore, può liberarla dalla prigionia dell’Io e suscitare uno spirito che generi il Noi, che faccia esistere ciò che ancora non c’è, realizzandolo in forme organizzative e istituzionali. C’è bisogno di una creatività nuova. Vanno avviati processi di cambiamento, coinvolgendo soprattutto le nuove generazioni chiamate a rinascere, lasciandosi alle spalle il mondo che la generazione dei baby-boomers ha costruito e diventando protagonisti di un nuovo modo di vedere, di immaginare, di vivere. È in questo largo orizzonte di ripensamento che va colto anche il suggerimento del cardinale Zuppi a proposito di una Camaldoli europea e – aggiungerei – persino mondiale: “Il Codice di Camaldoli è diventato il simbolo della capacità di iniziativa dei cattolici per il futuro dell’Italia durante la guerra… Oggi siamo in una stagione in cui si sente il bisogno di una responsabilità civile maggiore. Per l’Italia, per l’Europa, per il mondo: tutto è incredibilmente connesso. Una ripartenza? Certo, non si può restare inerti. Non si può restare chiusi nel proprio “io”: bisogna avere il coraggio del “noi”! …Tornare a Camaldoli, allora, è un bisogno e una chiamata: per guardare lontano e liberarsi dalla prigionia del presente. Il Codice è stato un’iniziativa coraggiosa di chi non aspettava gli eventi, non stava a guardare ma voleva andare oltre il fascismo e le distruzioni della guerra. Niente avviene in maniera uguale. Ma lasciamoci ispirare dalla storia”.

Importante l’interrogativo che Sergio Matterella, a Marsiglia, ha posto ai popoli europei: “Bisogna scegliere: essere “protetti” oppure essere “protagonisti”? Siamo in un versante delicatissimo della storia. Si tratta di essere consapevoli delle gravi responsabilità che pesano sulle spalle dei popoli”. In effetti, l’Europa si trova davanti a un bivio, divisa, come è, tra Stati più piccoli e Stati che non hanno ancora compreso di essere piccoli anch’essi, a fronte della nuova congiuntura mondiale. E a ragione sottolinea che “l’Unione Europea è uno degli esempi più concreti di integrazione regionale ed è, forse, il più avanzato progetto – ed esempio di successo – di pace e democrazia nella storia. Rappresenta senza dubbio una speranza di contrasto al ritorno dei conflitti provocati dai nazionalismi”. Ed è opportuna la sua riflessione sull’influenza che il modello di convivenza europea ha suscitato negli altri continenti: Africa, America Latina e Asia. E aggiunge: “L’Unione Europea semina e dissemina futuro per l’umanità. Ne sono testimonianza gli accordi di stabilizzazione internazionale stipulati con realtà come il Canada, il Messico, il Mercosur. Le stesse politiche di vicinato, le intenzioni messe in campo dopo la Dichiarazione di Barcellona sul partenariato euro-mediterraneo (siamo a trent’anni da quella data). Occorre che gli interlocutori internazionali sappiano di avere nell’Europa un saldo riferimento per politiche di pace e crescita comune. Una custode e una patrocinatrice dei diritti della persona, della democrazia, dello Stato di diritto. Chiunque pensi che questi valori siano sfidabili sappia che, sulla scia dei suoi precursori, l’Europa non tradirà libertà e democrazia. Le stesse alleanze si giustificano solo in base a – transeunti – convergenze di interessi e, dunque, per definizione, a geometria variabile, o riguardano anche valori? L’Europa, ricordava Simone Veil al Parlamento Europeo, nel 1979, è consapevole che “le isole di libertà sono circondate da regimi nei quali prevale la forza bruta. La nostra Europa è una di queste isole”.

Da quanto sin qui detto mi pare emerga un impellente invito a riscoprire la dimensione “poliarchica” della società e quindi della politica. È conseguente che anche i cattolici si impegnino in una nuova visione della società nella prospettiva poliarchica. Come fondamento di questa tensione torna attualissima l’intuizione di Paolo VI sul compito “poliarchico” dei laici cristiani nella vita politica, economica e sociale della città. Papa Montini – che da giovane fu tra i promotori del Codice di Camaldoli e della ricostruzione dell’Italia dopo la caduta del fascismo e la tragedia del secondo conflitto mondiale – lo sintetizza magnificamente nella Evangelii Nuntiandi: “I laici, che la loro vocazione specifica pone in mezzo al mondo e alla guida dei più svariati compiti temporali, devono esercitare con ciò stesso una forma singolare di evangelizzazione. Il loro compito primario e immediato non è l’istituzione e lo sviluppo della comunità ecclesiale – che è il ruolo specifico dei Pastori – ma è la messa in atto di tutte le possibilità cristiane ed evangeliche nascoste, ma già presenti e operanti nelle realtà del mondo.  Il campo proprio della loro attività evangelizzatrice è il mondo vasto e complicato della politica, della realtà sociale, dell’economia; così pure della cultura, delle scienze e delle arti, della vita internazionale, degli strumenti della comunicazione sociale; ed anche di altre realtà particolarmente aperte all’evangelizzazione, quali l’amore, la famiglia, l’educazione dei bambini e degli adolescenti, il lavoro professionale, la sofferenza. Più ci saranno laici penetrati di spirito evangelico, responsabili di queste realtà ed esplicitamente impegnati in esse, competenti nel promuoverle e consapevoli di dover sviluppare tutta la loro capacità cristiana spesso tenuta nascosta e soffocata, tanto più queste realtà, senza nulla perdere né sacrificare del loro coefficiente umano, ma manifestando una dimensione trascendente spesso sconosciuta, si troveranno al servizio dell’edificazione del Regno di Dio, e quindi della salvezza in Gesù Cristo”(70).

9. L’uscita dai vecchi schemi e la nuova tessitura della rete

Il mondo della cultura umana non può essere concepito sommariamente come un interlocutore deviante semplicemente in ragione della sua esteriorità ai vincoli e ai linguaggi della fede. Il mondo della cultura umana esprime la comunità umana, della quale noi stessi condividiamo i desideri, le attese, le fatiche, le sfide. Quando la cultura è buona, è buona: anche prima che noi la riconosciamo e indipendentemente dal permesso che le accordiamo. Imparare “le lingue” è dunque necessario, per imparare a “tenere ciò che è buono” (1 Tess 5, 21). Molte parti del gergo ecclesiastico e teologico che abbiamo tenuto in vita per inerzia, anche quando descrivono istanze di un umanesimo condivisibile, sono semplicemente irricevibili a fronte di riflessioni più smaliziate dei vari sapèri, e dei linguaggi che integrano le nuove esperienze in cui l’umano è appreso nelle nuove generazioni. Il problema è avere protagonisti credenti in tutti i mondi, che si fanno apprezzare perché li abitano valorizzando le affezioni rivolte al bene comune. La Chiesa concreta, la Chiesa del Signore, la Chiesa inaugurata da Gesù è la rete indissolubile degli Apostoli, dei Discepoli, della Folla dei chiunque che si aspetta di ricevere riconoscimento, guarigione, perdono. La Chiesa non si esaurisce nella somma dei ministeri e neppure dei carismi: la Chiesa è “luogo” della ricerca di senso e di incontro con il Signore per coloro che la guidano e la animano esattamente come per coloro che la incontrano magari anche solo occasionalmente e ne invocano l’attenzione. La Chiesa – di cui la parrocchia è icona originaria e insuperabile – è intreccio indissolubile della comunità confessante “dei discepoli” e della sua offerta di intercessione “alle folle”. Una Chiesa che considera estranei o esterni alla comunione con Gesù coloro che non si identificano con la disciplina della testimonianza, ha incominciato a perdere la sua icona evangelica. L’aveva già chiaramente messo in evidenza la visione profetica – poi abbandonata – dell’enciclica di Paolo VI Ecclesiam suam.

Quando papa Francesco insiste, oggi, sul fatto di una “sinodalità” ecclesiale, mossa dallo Spirito, che apre per “tutti” un orizzonte di accoglienza intorno a Gesù, rimette in asse quella profezia. La Chiesa va da Pietro alla Samaritana: con tutto il realismo delle sue differenze, ma senza alcuna soluzione di continuità. Infine, potremmo enunciare un’ultima pregiudiziale che converrebbe abbandonare subito, per lasciare il posto alle passioni liete della fede. Questo pregiudizio – “impegnatevi a massimizzare il godimento di sé, il resto ci verrà dato in sovrappiù”, così potremmo ironizzare l’oscena perversione della massima evangelica della ricerca del regno di Dio – è quello più grave di tutti. La sua gravità sta appunto nell’apparenza morale che questa pulsione, insofferente all’amore del prossimo, è stata capace di conquistare. Esso ha contaminato astutamente la giusta lotta per i diritti umani, la sacrosanta speranza di emancipazione dei popoli sacrificati, l’inconciliabile indignazione per tutte le vittime. E così siamo diventati noi stessi deboli e un po’ spersi: ci siamo domandati se, per caso, non fosse necessario venire a patti con l’amore di sé, anche quando produce la subordinazione di ogni giustizia all’amore di sé: e chi vorrebbe negare all’amore di sé un diritto inviolabile? Ebbene, discutiamone. Ma intanto, teniamo ferma la nostra opposizione ai trucchi del prestigiatore, che attraverso quel “sacrosanto” diritto all’amore di sé e alla ricerca della felicità, fa passare astutamente ogni corruzione possibile della ragione (e anche della fede, talora). La guerra predatoria e distruttiva non è semplicemente una forma estrema della competizione per il diritto di proprietà: è la sua perversione criminale, che il profilo del diritto lo annulla, semplicemente. La speculazione finanziaria non è una specializzazione migliorativa della ricerca del profitto, che remunera l’investimento di pochi e assicura ricchezza per tutti: è lo svuotamento nichilistico del valore sociale del lavoro.

La consegna al singolo di un potere illimitato sulla nascita e sulla morte, non è una maturazione civile della democrazia della libertà: è un allargamento della democrazia dell’arbitrio, che impone di decidere sulla morte che si può considerare dignitosa e sulla vita che si deve giudicare indegna. Contrastare l’esasperazione del potere dell’Io – che sembra potere su di Sé, ma diventa potere su di Noi – è il progetto positivo di una cultura del “Noi”, che rappresenta una vera e propria fonte di illuminazione su ciò che sta nel cuore dell’umano che è comune. Insomma, la riabilitazione dell’orgoglio di avere generato qualcosa del quale “noi” ci è grato, sta evaporando dalla grammatica delle emozioni che ci rendono orgogliosi di essere umani. Questa aspirazione è profonda, ma anche vulnerabile. Si tratta di qualcosa di molto vicino al “mistero del popolo” di cui parla spesso papa Francesco. Non si accende forse una suggestiva analogia con l’icona della Folla che abita l’intero percorso evangelico della rivelazione di Gesù? Non insegna forse Gesù ai suoi Discepoli, proprio così – ossia guardando alla Folla e non a loro stessi – ciò che devono imparare e custodire a riguardo del modo in cui Dio “ama il mondo”? È proprio impossibile per l’immensa rete dei Discepoli e delle Folle che “guardano con fede a Gesù, autore della salvezza e principio di unità e di pace” (LG 9), mettere a fuoco una riflessione-guida – al tempo stesso accademica e testimoniale, teologica e pastorale, politica e popolare – su “guerra”, “profitto”, “democrazia” oggi, nell’epoca che è cambiata? Se è vero che i cattolici europei – “il popolo di Dio” – sono insofferenti della loro percezione di essere privi di forza di gravità nella società attuale, dicano qualcosa di “cattolico” sul potere “laico” del denaro e sulla libertà “religiosa” della testimonianza. E rendano la Messa – sì, la Messa della Domenica – l’archetipo della nuova ospitalità sinodale della Chiesa, che ritorna ad essere evento di benedizione per la “città dell’uomo”, ma è tutto il contrario del “partito di Dio”. Qui incomincia la nostra “rivoluzione culturale”.

PARTE III (FINE)

20 Febbraio 2025

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