L'appello all'impegno

I cristiani si facciano avanti, non abbiano paura di fare la storia

Si tratta di immaginare la cittadinanza come casa dell’umano comune, che i diversi (individui o popoli, non importa) sono felici di abitare. Ciò chiede uno scatto congiunto dei cattolici e dei laici

Editoriali - di Mons. Vincenzo Paglia

22 Giugno 2023 alle 17:30

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I cristiani si facciano avanti, non abbiano paura di fare la storia

Ieri abbiamo ricordato l’inizio del Pontificato di Paolo VI, un Papa che accolse il Concilio iniziato da Giovanni XXIII e lo portò al suo compimento. Fu una svolta epocale. La Chiesa si diede un nuovo volto per poter comunicare – così diceva Paolo VI – il Vangelo di sempre in modo che gli uomini del XX secolo potessero comprenderlo. Ardua fu la stagione dell’implementazione dei dettati conciliari. Tra gli insegnamenti significativi ci fu la Gaudium et Spes sul rapporto che la Chiesa doveva avere con il mondo, con la storia umana.

È un testo straordinario e ancora oggi ispirante. Sono passati più di cinquanta anni dal Concilio (ed anche un cambio di secolo, anzi di millennio) e la Chiesa si trova – assieme agli uomini e alle donne di questo tempo – nel mezzo di una “terza guerra mondiale a pezzi”, come ama dire Papa Francesco. È un mondo a pezzi.

Non dobbiamo dimenticare: dire “cambiamento d’epoca” significa che per la prima volta nella storia umana – dal 1945 in poi – l’uomo può distruggere sé stesso e il creato (con il nucleare, con il dissesto climatico e con le nuove tecnologie emergenti e convergenti). Quando Hans Jonas, qualche decennio fa, titolava un piccolo libretto, Sull’orlo dell’abisso, parlando della crisi ecologica, dava un gravissimo allarme. Inascoltato! E se a alla sfida climatica aggiungiamo quella nucleare e l’altra della tecnica, c’è da tremare.

Non possiamo stare a guardare. Dobbiamo svegliarci! Dobbiamo in fretta uscire da una condizione drammatica e individuare percorsi per un futuro comune. Mi torna sempre più in mente l’immagine biblica del diluvio. Anche perché ci sono situazioni allarmanti. Penso all’alluvione in Emilia Romagna o anche l’inondazione provocata dall’esplosione della diga di Kakhovka in Ucraina, o anche alle tragedie degli annegamenti in mare di profughi a centinaia. Sono esagerato? Forse. Certamente siamo in un momento di svolta della storia. A tutti vengono chieste creatività e audacia. Il diluvio è il frutto amaro della corruzione degli uomini. È una nostra responsabilità. Di tutti. Non di Dio. Siamo entrati nel nuovo millennio a testa bassa, senza visioni. Aveva ragione il giovane Karol Wojtyla quando scriveva: «L’uomo soffre soprattutto per mancanza di visione».

Il tempo che stiamo vivendo, proprio per le gravissime criticità che lo caratterizzano, è anche il tempo opportuno per ri-generare la storia, come ripetevano i profeti biblici: ossia, per farla ripatire e portarla oltre il “caos” che ci sta travolgendo. Ma dove lo troviamo un “Noé”? Oggi, Noè non può essere uno solo. Oggi Noè è “plurale”. Il compito va affidato a un NOI che “sogna” e “vive”, già ora, la complicità condivisa e operosa di un domani liberato dalle acque. Papa Francesco, con le due encicliche: Laudato sì, sul creato, e Fratelli tutti, sulla famiglia umana, ci ha offerto una visione sul mondo che deve venire. Dobbiamo farla nostra. E viverla con responsabilità. Oggi c’è troppa autoreferenzialità.

Quando parliamo di dimensione sociale del dogma cristiano, non si deve intendere semplicemente il contenuto dottrinale, ma anche la forma testimoniale della presenza e della spiritualità ecclesiale. Il grande teologo francese Henri De Lubac scriveva: “Ci si rimprovera d’essere individualisti, anche nostro malgrado, a causa della nostra fede, quando in realtà il cattolicesimo è essenzialmente sociale” (Cattolicesimo. Aspetti sociali del dogma). I cristiani non abitano una storia di salvezza separata dal destino dei popoli. La salvezza annunciata dal cristianesimo non è una dotazione individuale, non è un privilegio etnico, non è una sovranità religiosa (splendide riflessioni di Benedetto XVI, a questo riguardo, nella sua enciclica sulla speranza Spe salvi).

Le nostre società si sono indebolite nel tessuto connettivo. Le democrazie si sono indebolite in favore delle cosiddette “democrature” cui si aggiungono le tentazioni “autocratiche” e imperiali di alcuni. I dati ci dicono che per la prima volta nella storia il numero delle “autocrazie” ha superato quello delle democrazie nel mondo. Per fronteggiare tale indebolimento non basta pensare di ritornare ai cosiddetti “valori tradizionali” pensati come “il mondo di prima” (penso ad alcuni movimenti religiosi fondamentalisti, ivi compresi alcuni cattolici).

Il mondo di prima non ritorna: i valori che si vogliono custodire devono rendersi abitabili nel mondo di adesso. La stessa contrapposizione tra “progressisti” e “conservatori” appare sempre più come l’inerzia di un vecchio schema che non ha presa sulla realtà: si sventola a vuoto e non muove più niente. C’è bisogno di un pensiero – e quindi una politica capace – di intercettare e di suscitare speranze veramente comuni. “La speranza – diceva Vaclav Havel non è per nulla uguale all’ottimismo. Non è la convinzione che una cosa andrà a finire bene, ma la certezza che quella cosa ha un senso, indipendentemente da come andrà a finire”. Avere speranza – bisogna ripetercelo – vuol dire avere una visione, un disegno che prende forma e forza bastanti a ridestare il piacere della convivenza – del popolo, dei popoli – come impresa comune, pacifica, operosa.

La società liquida – è la grande lezione di Bauman – ha costituito il compimento del modello individualistico, sorto negli ultimi decenni del Novecento. Va rafforzata la spinta a trascendersi per non restare prigionieri dell’IO. Ma è difficile avviare un’azione politica senza un lavoro culturale esplicitamente teso alla realizzazione del bene comune. Diventa indispensabile promuovere nuovi comportamenti conseguenti alla nuova visione del mondo. Oggi, il cattolicesimo italiano, in questo campo è ancora debole.

Resta un punto di forza, in ogni caso, anche se non può supplire la politica, l’azione di molti cattolici che assieme ad altri, continuano a sostenere il tessuto sociale del Paese. I Papi della Dottrina Sociale, da Leone XIII a Francesco, hanno esortato ad una fede attenta al prossimo, “samaritana” come si legge nella parabola evangelica. Paolo VI mostrò un forte impegno nella lotta alla povertà, alle disuguaglianze. E con forza – riprendendo una espressione di Pio XI – parlò della politica come un’alta forma di carità. Tutti i Pontificati successivi l’hanno fatta propria.

Papa Francesco, nel 2014, parlando ai movimenti popolari, rilevava: “solidarietà è una parola che non sempre piace; […] ma è una parola che esprime molto più che alcuni atti di generosità sporadici. È pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni. È anche lottare contro le cause strutturali della povertà, della disuguaglianza, della mancanza di lavoro, terra e casa, della negazione dei diritti sociali e lavorativi. È far fronte agli effetti distruttori dell’impero del denaro: i dislocamenti forzati, le migrazioni dolorose, la tratta di persone, la droga, la guerra, la violenza […]. La solidarietà, intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia”.

Ecco di cosa abbiamo bisogno: una nuova consapevolezza dell’importanza di “fare la storia” intervenendo sulle cause che, mentre impediscono uno sviluppo equo e ragionevole, potranno pregiudicare lo sviluppo della vita umana e del pianeta. È la sfida epocale di questo inizio del nuovo Millennio. Si tratta di un compito di cui tutti e ciascuno siamo responsabili. C’è un avvertimento da cogliere. Più volte l’amico Giuseppe De Rita lo ha richiamato: “In buona sostanza, il mondo cattolico italiano si è autoinflitto, nell’ultimo trentennio, una duplice avvilente illusione: quella di poter essere il lievito che entra nella pasta dei vari partiti per condizionarne, almeno in parte, i programmi; e quella di poter esercitare con successo il potere come influenza, prescindendo dal potere come potenza. Davvero pie illusioni”. Presenti dovunque, ma dovunque irrilevanti.

La comunanza che si cerca – è sempre la suggestione di De Rita – non può essere né quella propria di una comunità culturale, né quella propria di una comunità religiosa (mai si dimentichi che, comunque, è con il Cristianesimo che storicamente si afferma il principio di laicità): ma quella di una comunità politica. Il compito specifico di quest’ultima è quello di far convivere, in vista del bene comune, portatori di visioni diverse. E il cattolicesimo italiano, a mio avviso, può apportare il suo prezioso contributo, soprattutto se la visione che abbiamo davanti si centra sul bene comune del Paese, dell’Europa e del mondo.

La contemporaneità culturale si è definita anche attraverso l’associazione del cattolicesimo dottrinale all’ideologia totalitaria dello statalismo etico, e successivamente alla egemonia culturale del capitalismo borghese. Non si può certo negare che, nell’epoca inaugurata dal Concilio Vaticano II, il cristianesimo non abbia fatto – per primo, rispetto alle grandi religioni storiche e alle culture politiche dominanti – passi decisivi in ordine alla emancipazione della sua specifica identità testimoniale dagli equivoci di quella duplice associazione.

Proprio per questo, e seguendo l’impulso che ora viene vigorosamente promosso dall’attuale pontificato, è giusto attendersi una libertà di ispirazione e una creatività di pratiche destinate alla legittimazione sociale di una convinta affezione – pluralistica finché si vuole- nei confronti delle aspirazioni comunitarie della convivenza democratica e del bene comune. La rappresentazione di una società degli individui ossessionati dalla competizione per il dominio e dalla spensieratezza del godimento, semplicemente, non corrisponde alla realtà profonda delle aspirazioni e delle disposizioni che abitano l’umano che ci è comune.

L’egemonia “culturale” di questa rappresentazione individualista e liberista della convivenza democratica e dei diritti umani è il riflesso della pubblicità commerciale, non lo specchio del comune sentire. Naturalmente, in assenza di contrasto, questa narrazione diventa una profezia che si auto-avvera. La pubblicità commerciale, anima ideologica dei social e levatrice antropologica dei singoli, ha le proporzioni inedite di un dominio globale e una raffinatezza teorica superiore a quella della “fenomenologia dello spirito” di Hegel. Il suo spirito del customer care detta legge anche all’Università dei saperi e al Diritto dei poteri.

Le stesse tradizionali reazioni “umanistiche” di una sinistra critica e di una destra conservatrice sono sospinte verso l’assunzione degli stessi argomenti: incalzate ad assumere la persuasa fidelizzazione del cliente consumatore della propria vita individuale, più che la libertà creatività del soggetto produttore di una vita comunitaria solidale. Immaginiamo per un momento che proprio la “moltitudine” – il “popolo” di cui parla sempre papa Francesco -, ridiventi l’interlocutore di una testimonianza creativa, che intercetta proprio le sue parti più deboli e vulnerabili, caricandole di un valore di normale inclusione, di sensibile partecipazione, di allegra condivisione persino.

Fino alla moltiplicazione di corpi intermedi – di socialità vissuta, estetica e culturale anche, non solo di mediazione rivendicativa – che rifiutino di chiamarsi “terzo settore”, per legittimarsi come “parti sociali” del tutto normali. E immaginiamo che la Chiesa investa, nella riqualificazione politica, culturale, spirituale di queste “politiche famigliari” della convivenza le parti normali delle sue istituzioni: compresi i luoghi di culto dismessi, i seminari e i conventi svuotati, le professionalità inaridite e mortificate dai tecnocrati, i redditi ancora destinati ad una burocrazia imperiale. La normalità sociale della Chiesa che si riposiziona su quella che la normalità politica considera anomalia. E non perché interessa soltanto l’handicap escludente e la povertà estrema.

L’erosione dell’umanesimo planetario sta facendo ben più di questo: coinvolge i ceti medi, le generazioni precarie, le genealogie famigliari, gli studenti universitari, i creatori di arte, i ruoli governamentali. Utopia? Forse sì, forse no. Faccio un solo cenno, a favore dell’argomentazione contraria alla rassegnazione. Nella congiuntura epocale inaugurata dalla seconda metà del secolo scorso, dopo la tragedia delle due guerre, e definita dall’esaurirsi (in linea di principio) del concetto imperialistico / coloniale di egemonia (di destra e di sinistra), si può osservare un fatto che a mio avviso è sottovalutato.

La “retorica” dei pubblici pronunciamenti degli Stati si lascia omologare, quasi senza eccezioni, dall’intenzione propositiva del benessere dei popoli, del progresso civile, della cooperazione internazionale, dell’umanesimo delle vittime. In Italia, nel secondo dopoguerra, uomini e donne di culture e di fedi diverse – anche in serio conflitto tra loro – riuscirono a scrivere la Costituzione che fu votata da tutti e che ancora oggi è un faro. Il testo nasceva dal comune desiderio di ricostruire un Paese distrutto dalla guerra che fosse accogliente per tutti. Ci furono anni e mesi di dibattiti, di scelte, di visioni, di prospettive che finalmente – in un civile confronto – hanno regalato all’Italia quel testo straordinario che è la nostra Costituzione. Una cosa analoga accadde a livello europeo ed internazionale.

Nacque il primo avvio dell’Europa con l’impegno di attivo di tre politici cattolici: Adenauer, De Gasperi e Schumann. A livello planetario vide la luce la Carta dei Diritti umani universali. Non era accaduto, prima. Nessun soggetto internazionale – ancora oggi – si propone più obiettivi di imperium del potere e di legittima supremazia (anche quando fa la guerra), e mette sempre in evidenza il munus di una pacifica convivenza e di una giustizia distribuita (anche quando lo contraddice). Questo linguaggio è, obiettivamente “cristiano”. Nella storia, il diritto della Politica e della Religione di affermare semplicemente sé stesse, aveva fino a ieri una legittimazione dotata di valore e priva di imbarazzo. Esiste insomma un cristianesimo largo che, alla fine, ha sfondato un soffitto di cristallo che sembrava infrangibile e ha ispirato un futuro nuovo.

Mi chiedo: è così strano pensare che i fermenti di un nuovo kairos possano preparare un altro momento assiale, conquistando terreno per il principio cristiano di prossimità all’interno della cultura civile della democrazia, inducendola a fare un passo irrevocabile verso la convivenza plurale di una responsabilità comune? Non si tratta di immaginare che la comunità cristiana inglobi nella forma religiosa la cittadinanza condivisa. Non accadrà più. Si tratta invece di immaginare la cittadinanza come “casa” dell’umano comune, che i diversi (individui o popoli, non importa) sono felici di abitare.

Questo chiede uno scatto di intelligenza convergente e di impegno sociale congiunto sia da parte dei cattolici che da parte dei laici. La “chiesa in uscita”, la chiesa “ospedale da campo”, la complicità di una fraternità operosa, la cura affettuosa della casa comune, la cultura “sinodale” (inclusiva) dei credenti, non vanno in questa direzione? E non è forse compito degli intellettuali e dei politici – congiuntamente, credenti e laici – creare una rete trans-disciplinare, trans-confessionale, trans-egemonica per gestire questa transizione? Il punto di partenza richiede l’elaborazione di una nuova cultura politica che coinvolga assieme le diverse realtà della società e l’intelligenza sia credente che laica.

 

22 Giugno 2023

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