L'appello
La Chiesa non è solo dei cristiani ma di tutti
In una società secolarizzata nella quale la morte di Dio ha cagionato la morte del prossimo, la comunità cristiana è chiamata a tornare in cammino, a riscoprire e risvegliare solidarietà
Editoriali - di Mons. Vincenzo Paglia

La religione, da quando ne abbiamo notizia, insegna la necessità per l’essere umano di sacrificare e sacrificarsi per la sovrana maestà di Dio. La fede cristiana, invece, insegna che la verità iscritta nell’intimità divina che ci è rivelata è la potenza con la quale Dio sacrifica e si sacrifica per salvare l’uomo.
La parabola-tipo dell’amore del prossimo, dove un samaritano “eretico” riapre la via della vita per un ignoto “chiunque” aggredito sulla strada è la metafora assoluta della rivelazione di Dio. Dio – un “Dio ignoto” alle ortodossie religiose e alle immaginazioni filosofiche del pianeta – riveste i panni del secondo grande comandamento, simile al primo, al quale il Figlio si consegna radicalmente. Il “prossimo”, si sa, nella lingua evangelica di Gesù, è in realtà, esemplarmente, il più “lontano”: farsi prossimo – ossia l’atto d’amore che azzera ogni distanza – significa mettere in campo l’atteggiamento di Dio stesso, nel Figlio. Quale distanza è maggiore di quella che si dà fra Dio e la creatura? Di più: fra Dio e la creatura ostile? Eppure, “Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, quando eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5, 8). La Chiesa – il cristianesimo – esiste in funzione di questa testimonianza, di questo rimando, di questa scoperta sconvolgente. E deve imparare di nuovo a dire il Vangelo con serena e non ambigua franchezza e riconoscere quanto di bene c’è nella storia.
In effetti, dobbiamo emozionarci di più per quello che Dio, tramite Gesù, fa nel mondo e nella storia dell’umana creatura: e non solo per quello che fa nella Chiesa visibile, che è martyria e diakonia di quella. Quello che il Signore fa nella Chiesa (“il vangelo”) illumina, rinsalda, esalta quello che lo Spirito fa nel mondo (“il regno di Dio”). Il Signore non si limita a fare la Chiesa nella storia, come se la storia della Chiesa fosse tutta la storia della salvezza, Vorrei dire che quella che ora chiamiamo Chiesa non dovrà soltanto liberarsi dalla sua riduzione al clero gerarchico: dovrà oltrepassare anche la cerchia dei battezzati e dei fedeli. Non perché alternativa, ma perché inclusiva. Di questa inclusività nelle differenze, Paolo VI aveva già avuto la felice intuizione, nella sua trascuratissima enciclica Ecclesiam suam (1964). Riscoprirne la visione – anche con gli arricchimenti del magistero di papa Francesco – è quanto mai opportuno, proprio perché in questo versante della storia la cultura spinge a dividersi e a frantumarsi abbandonando la via del dialogo con tutti. Sin dalle prime parole si comprende l’anelito universale dell’enciclica. Il Papa si propone “di sempre più chiarire a tutti quanto, da una parte, (la Chiesa) sia importante per la salvezza dell’umana società, e dall’altra quanto stia a cuore alla Chiesa che ambedue s’incontrino, si conoscano, si amino” (3).
Papa Francesco chiede una Chiesa che «cammini insieme» agli uomini, che partecipi ai travagli della storia, che coltivi il sogno della riscoperta della dignità dei popoli per una società fraterna e universale. È la Chiesa “in uscita”, “in cammino”. E, se camminano insieme, Chiesa e società sono forzate a confrontarsi con un quesito che è lancinante: su cosa fondare l’intesa tra tutti? In nome di cosa intraprendere un dialogo sociale? Che cosa permette di rinunciare ai propri interessi per favorire quello di tutti? È straordinariamente attuale un passaggio della Gaudium et Spes: “Il popolo di Dio e l’umanità, entro la quale esso è inserito, si rendono reciproco servizio, così che la missione della Chiesa si mostra di natura religiosa e per ciò stesso profondamente umana” (n.11). Oggi, l’ultimo passaggio rende ancor più provocante l’interrogativo: la fede rende veramente l’uomo più umano? E non è proprio questa la missione odierna che la Chiesa deve riscoprire e vivere?
4. La Chiesa non sequestra la grazia di Dio, la attira per molti
In tale prospettiva mi pare più che opportuno abbandonare l’idea – che sta diventando una sorta di ossessione – di essere una minoranza, non perché non sia vero, ma perché è più importante adottare un nuovo paradigma: essere connessa con tutti. Il pericolo è volerne definire i confini precisi, come faceva il cardinale Bellarmino per il quale la Chiesa ha i suoi confini come li ha la Repubblica di Venezia. Il primo rischio è fermarsi a considerare la Chiesa come una «minoranza», non importa se «assediata» o «creativa». Il Vaticano II invita a guardare la Chiesa come «mistero», a immaginarla sulla falsariga di quell’icona evangelica che tiene insieme Gesù, gli apostoli e i discepoli assieme alla folla. La Chiesa è senza confini o, se proprio si vuole, ha i confini del mondo. Restando legata alle città dove vive, la Chiesa è anche universale. In una Chiesa così concepita non è più possibile separare le due dimensioni. Senza che questo vanifichi o indebolisca il «soggetto» che essa comunque è.
La Chiesa è “lievito” destinato a fermentare l’umanità intera. Non sarà mai maggioranza. Tale prospettiva evangelica torna oggi non come una condanna, ma come una opportunità: essere mescolata, come Gesù si mescolava alla folla, chiedendo ai discepoli di aiutarlo in questa “fermentazione”. Nella odierna condizione di “precarietà mondana”, la Chiesa è chiamata a riscoprire la sua radice evangelica e riprendere la visione larga che il Signore le ha donato. Libera da pesi ingombranti la Chiesa è chiamata a trasmettere con maggiore passione e intelligenza la forza trasformatrice del Vangelo nel tessuto della società. La società nella quale viviamo si è emancipata dalla religione. Si dice che è “secolarizzata”. Per la prima volta appare nella storia un progetto di convivenza sociale che trova la sua legittimazione in una cultura in cui le forme del sapere e del diritto coltivano la loro estraneità al dialogo con la tradizione religiosa, come garanzia di un umanesimo universalmente motivato e condiviso.
La memoria delle guerre moderne di religione che hanno lacerato la cristianità d’Europa – memoria oggi dolorosamente riattivata attraverso l’esplosione internazionale dei fondamentalismi religiosi di ispirazione nazionalistica – mostra che qualcosa di irreversibile si è prodotto in questa trasformazione della società contemporanea, che va custodito e persino difeso. Il superamento del progetto di una governance religiosa della società civile – della quale l’intera Bibbia diffida, e che Gesù mette definitivamente fuori gioco – è un punto di non ritorno. Il luogo di acquisizione irreversibile di questo carattere laico dell’umanesimo civile è certamente l’Europa che ne ha elaborato i principi e articolato le forme. C’è però da dire che il processo che ha portato in Europa la convinzione della “morte di Dio” ha avuto come conseguenza anche la “morte del prossimo”, come acutamente ha scritto Luigi Zoja. L’effetto collaterale negativo della rimozione della testimonianza religiosa, come momento indispensabile per l’ispirazione umanistica della società civile, riprende senso. Questo apprezzamento mostra di non essere affatto incompatibile con la “laicità” della sfera pubblica e della governance politica. Anzi, una testimonianza religiosa che si mostri orientata alla tutela dell’amore del prossimo e alla critica di ogni sostituzione dell’idolo mondano al Dio trascendente rappresenta un presidio insostituibile per la deriva pseudo-religiosa delle ideologie totalitarie (Jürgen Habermas).
L’invenzione della dignità individuale e della società democratica sono una innovazione europea della cultura antropologica. Questa innovazione, tuttavia, appare associata ad un impressionante balzo in avanti della “tecnica”, la cui diffusione planetaria oltrepassa i confini della religione, dell’etica, della politica.
Nella fase attuale, possiamo osservare addirittura un parallelo “sfiancamento” sia della teologia cattolica sia della ragione laica, che sono rapidamente passate dall’euforia di una possibile convergenza intorno al progetto umanistico dei liberi e uguali, alla depressione di una frammentazione individualistica totalmente vulnerabile alla manipolazione e alle diseguaglianze. L’individualismo, come un virus, si è introdotto nell’intero «sistema» della società. Non percepito come nemico, ha svolto la sua azione destrutturante senza ostacoli, senza che ci fossero difese immunitarie. Sbarazzatosi del «noi», l’Io è rimasto solo, anzi l’Unico, per riprendere Max Stirner. L’individualismo, l’egoismo, l’autorealizzazione e l’aspirazione a una felicità privata richiamano l’antico mito di Narciso che Pierangelo Sequeri, con l’arguzia dello studioso consapevole che l’architrave dell’umano sembra essere diventato l’Io, suggerisce di mettere al primo posto nel calendario dei santi della contemporaneità, facendo arretrare Prometeo (come voleva Marx, che proiettava sul soggetto collettivo la potenza della autorealizzazione umana). L’Io – sciolto da ogni vincolo – diviene attore di dissoluzione non di legami, di esclusione non di inclusione, di liquefazione non di solidificazione. Resta salda solo l’idolatria dell’Io, quella nuova religione che Giuseppe De Rita chiama «Egolatria».
La politica, che ha fatto di tutto per ereditare nella società il tratto egemonico della religione, come sorgente di valori e presidio di umanesimo, sempre più si rivela incapace di onorarlo. Continua piuttosto ad inaridirsi. La religione, dal canto suo, non è abbastanza attrezzata – né motivata – per l’elaborazione di una cultura della trascendenza capace di sinergia dialettica con la libertà dei moderni. Di fatto, la politica – ormai largamente occupata da titolari di estrazione mediatica, lobbistica, populistica, e funzionalmente assistita da un ceto medio burocratico che segue logiche aziendali e che ha quasi totalmente perso passione comunitaria e competenza umanistica. Il divorzio della politica dalla classe intellettuale è quasi fisico: come una sorta di separazione delle carriere. La grande retorica della fine delle ideologie, salutata come liberazione del soggetto dalla morsa di un progetto teorico dogmatico e oppressivo, fa ora i conti con un vuoto di pensiero umanistico tout-court.
La politica cavalca ora – da sinistra o da destra, l’anti-filosofia è trasversale – il risentimento dei popoli nei confronti dell’élite intellettuale, accusandola di avere preteso una fiducia che alla fine ha mostrato di non meritare. In tal modo, però, la politica post-moderna ha preso essa stessa enorme distanza dal lavoro del pensiero che le sarebbe necessario per illuminare e motivare un nuovo umanesimo. Il socialismo storico ha semplicemente perso il contatto che pure continua a rivendicare a parole, ossia il riscatto universale degli affetti che edificano la communitas dei liberi e uguali. Il cosiddetto populismo si intesta demagogicamente la stessa causa, e asseconda esso pure la consegna del legame sociale ad una economia e ad una tecnica che ne impoveriscono il tratto umano, proprio mentre promettono illusoriamente di migliorarne le funzioni.
5. La critica religiosa della religione nella rivelazione di Gesù
L’idea di una politica promozionale dell’irreligione, però, che avrebbe generato la liberazione dell’umanesimo è fallita. Si dovrebbe elaborare una critica alla religione come quella praticata da Gesù. La Legge dell’amore di Dio non è abolita in favore del libertinaggio; ma la sua sintesi è interamente iscritta nell’amore del prossimo, al di fuori del quale ogni religione è falsa. Ebbene, noi siamo qui, il cristianesimo che ha plasmato l’Europa è quasi un estraneo – come fede e conoscenza – per i suoi cittadini (compresi quelli formati dalla teologia e dalla catechesi post-conciliare). Il concetto secolare di qualità della vita è diventato sordo alla dimensione della trascendenza: l’inconscio collettivo manda i suoi avvertimenti – aggressivi e depressivi – nei confronti di una vita senza destinazione. D’altra parte, le acrobazie che incoraggiano i credenti a liberarsi dal “sacro”, fonte di angoscia, in favore del “santo”, portatore di benessere, sono ingenuità nominalistiche.
Non dobbiamo dimenticare che la religione, tutte le religioni, esistono per ricordare che il divino è stupore e assieme dramma. L’enorme sforzo investito in questi decenni nell’impresa di spiegare puntigliosamente ciò che la fede cristiana non è, ci ha come stremato. E le dotte spiegazioni sulla necessità di non ridurre la fede alla religione ancora continuano a stremarci. Mentre movimenti pseudo-religiosi si moltiplicano, con derive persino pericolose. In effetti, c’è un enorme bisogno di “sacro” in una società sempre più tecnologizzata e nichilista. Ma non è un sacro che si afferma nel segno della “distruzione” di tutto ciò che esso ha portato nella storia degli uomini. Una fede che ha bisogno del segno della distruzione – persecuzione dell’altro per affermarsi, parla la lingua del Serpente dell’Eden. Emblematico è quanto scrive Gregorio Magno ad Agostino di Canterbury che aveva inviato come missionario in Inghilterra.
Alla richiesta se i missionari avrebbero dovuto distruggere i templi pagani per costruire le chiese cristiane, Agostino risponde: “dopo lunga considerazione e attento esame della questione inglese abbiamo giudicato che non dovete distruggere i templi pagani, ma solo gli idoli al loro interno. Dovete purificarli con l’acqua santa, rimuovere gli idoli dall’altare e mettere al loro posto le reliquie dei santi. Perché, se questi templi sono ben costruiti, meritano che li facciamo passare dall’adorazione del Diavolo al servizio del vero Dio. Se il popolo vede che i luoghi sacri cui è abituato sono conservati, sarà più disposto a frequentarli. E, giacché sono abituati a sacrificare tori al Diavolo in quei luoghi, qualche solenne cerimonia relativa ai martiri le cui reliquie vi saranno venerate potrà sostituire i sacrifici. Dovete erigere tende intorno ai templi trasformati in chiese e lì organizzare feste dove si offra anche da mangiare. Anziché sacrificare animali al Diavolo, curate che siano macellati per il popolo, perché li mangi e renda grazie a Dio. In questo modo, attraverso le gioie sensibili, saranno introdotti alle gioie spirituali della fede. Perché è impossibile rimuovere insieme tutte le abitudini da spiriti induriti. È avanzando lentamente che si va lontano”.
È un atteggiamento che mi pare in linea con quello di Gesù. Gesù non chiude con la religione, né la abbandona semplicemente al suo destino di sterile sostituto – mondano e non salvifico – della fede. Per Gesù la fede viene a compiere la religione, non ad abolirla: ma questo compimento della religione esce dalla religione, porta Spirito e fuoco nella carne e nel sangue, certificando che non sono né la carne né il sangue a ottenerci di essere generati e rigenerati da Dio, nel Figlio.
D’altra parte, senza la religione non c’è neppure linguaggio per la “libertà” di un amore e di una giustizia che sono autentici soltanto se avvolti nella “scelta” di aver fede in essi. Ce ne incominciamo ad accorgere ora, nel momento in cui – proprio in Europa – l’aridità della convivenza e della cultura sociale “liberata” dal riferimento a Dio e dai segni della grazia – quella che insegna il linguaggio del dono e della gratitudine – è ormai abbastanza estesa da crescere nel nichilismo intere generazioni. Il cristianesimo è legato alla dimensione spirituale dei sensi corporei che è propria dell’umano: a cominciare dal “tatto”. Il tatto – toccare Gesù, essere toccati da Gesù – è la modalità salvifica dell’evento rivelatore supremo. Per questo l’avvento del regno di Dio inaugurato da Gesù può arrivare a “toccare” misteriosamente l’umano in tutte le provincie religiose della storia e in tutte le condizioni spirituali della vita.
Fino a che ci sarà un edificio sacro, fino a che ci sarà qualcuno che si lascia toccare dall’acqua battesimale e mangia il pane eucaristico, tutti potranno riconoscere che l’amore di Dio è reale: immette energia nella nascita di alcuni in favore di tutti i nati da donna; nutre la promessa di eterna destinazione a vantaggio di tutti gli imperfetti mortali della comunità umana. Le religioni cercano istituzionalmente forme non conflittuali di convivenza: ma nel complesso non producono alcuna sinergia verso il riposizionamento pubblico dell’amore del prossimo come cifra essenziale per la valutazione dell’apporto umanistico che scaturisce dalla conversione della religione all’adorazione di Dio “in spirito e verità”. La post-secolarità impone alla religione di produrre questa dimostrazione: ed è giusto che l’iniziativa sia in mano ai laici credenti e non all’istituzione clericale. L’esibizione corale – individuale e comunitaria – di questa dimostrazione, per così dire, è il segno epocale del kairos che deve essere conquistato dalla fede.
L’interpretazione non-religiosa della redenzione dell’uomo – attraverso Dio che si è fatto uomo – è però possibile, nella prospettiva della fede, soltanto se qualcuno introduce i segni dell’anomalia umanistica della fede dentro le formule e le pratiche universali della religione: anomalia nel modo di intendere il sacrificio, anomalia nel modo di intendere la sequela, anomalia nel modo di realizzare la consacrazione, nel modo di esercitare l’autorità, nel modo di custodire l’identità, nel modo di esercitare l’intercessione. La Chiesa è lo spazio che ospita e protegge l’esercizio di questa anomalia: impedendole di diventare anti-umanistica. Sono parole di Gesù al Padre riferite ai discepoli: “Essi non sono del mondo… come tu hai mandato me nel mondo, anch’io ho mandato loro nel mondo” (Gv 17, 14-18). L’anomalia religiosa e l’umanesimo evangelico destinati a fermentare la storia hanno un legame circolare fra loro: si sostengono a vicenda, senza sciogliersi l’uno nell’altro.
6. La religione, pedagogia della memoria di Dio fra i popoli
Il cristianesimo europeo, che è pur sempre il luogo dal quale tutti i tratti dell’egemonia economica e tecnocratica globale sono nati, di fronte a quanto sta accadendo sembra non battere ciglio. Tutto intento a rimediare alla diminuzione del clero, a lamentare la scarsa frequenza ai sacramenti, a rinnovare le regole di gestione delle comunità, non sviluppa ancora un pensiero decente per questo contraccolpo della storia. Il quale comunque contiene il kairos che gli è imposto di abitare.
Eppure, per il cristianesimo l’Europa è il suo prossimo più prossimo: che ora – evangelicamente – appare anche come il più lontano. Per il momento, a parte qualche esortazione all’umanesimo e alla pace, nulla. Ma questo è il campo nel quale abbiamo più storia, più esperienza, più invenzione.
Il cristianesimo deve appassionarsi di nuovo all’Europa: non per farne la ridotta dentro la quale difendere un cristianesimo identitario, minoritario e residuale. Bensì per restituirle la passione contagiosa di un umanesimo degno della sua qualità personale, che poggia sul fondamento della passione condivisa per l’umano che è comune. E non sull’ottimizzazione del godimento, che finisce per giustificare un’etica del narcisismo. Certo, la teologia dovrebbe sostenere tale impresa, se è vero che è intelligenza critica e creativa della fede, come pomposamente i suoi attori contemporanei la definiscono. Di fatto, la teologia parla un linguaggio così estraneo al dominio cognitivo condiviso, che non riesce neppure a rimediare all’indecenza di una ignoranza religiosa che non risparmia neppure le cattedre universitarie più prestigiose.
La ragione è semplice: la teologia parla ormai un gergo interno al costume ecclesiastico, il cui ordine di referenza (ossia il campo di realtà che orienta il realismo del significato a cui il significante linguistico rimanda) è quasi esclusivamente sussunto dalle esigenze della formazione alla vita consacrata. La cultura cristiana è così diventata incapace di nominare l’avvento salvifico del regno di Dio nella storia del mondo, ben oltre i confini della fede testimoniale.