Il dibattito su Napolitano
Giorgio Napolitano il comunista liberale, il lungo viaggio del PCI nella democrazia
Il fecondo dialogo tra Della Volpe e Bobbio, l’articolo 13 della Costituzione, le istanze partecipative di Ingrao e quelle riformiste di Amendola. Il peculiare caso del comunismo italiano
Editoriali - di Michele Prospero
Si è svolto un intrigante dibattito sul Foglio in merito alla formula di “comunista liberale” che è stata utilizzata a proposito del profilo politico di Giorgio Napolitano. A Giuliano Ferrara l’accoppiata appare come un puro ossimoro, mentre al linguista Franco Lo Piparo sembra un accostamento di elementi eterogenei ma possibile: nella sostanza – egli dice – la combinazione è già accennata in Gramsci.
Se la dizione di comunismo liberale evoca un miscuglio di concetti, per cui ad un po’ di Marx si aggiunge un tantino di Kant o di Mill, allora si tratta di una vacua propensione al sincretismo. Però, proprio un filosofo come Galvano della Volpe, che respingeva le conciliazioni eclettiche a vantaggio dell’autonomia teorica del programma scientifico del “Moro”, intrattenne negli anni 50 un fecondo dialogo con il liberale Norberto Bobbio. Nel corso del confronto, il pensatore imolese mutò di accento e, raccogliendo gli stimoli intellettuali dell’interlocutore, ricavò il bisogno di riformulare alcune sue asserzioni troppo rigide. La discussione convinse della Volpe che andassero accolte le tecniche formali del liberalismo (primato della legge, habeas corpus) entro la prospettiva marxista.
In uno scritto apparso su Sisifo nel 1989, tornando sullo scontro di oltre trent’anni prima, Bobbio rilevò che della Volpe ritoccò assai il suo testo originario dopo la loro polemica suggerendo di risalire come radice della legalità socialista non solo al “democratico” Rousseau, ma anche al liberale Locke con le sue istanze di libertà personale, garantismo. Sul terreno politico-costituzionale, va tenuto presente che l’articolo della Costituzione influenzato più organicamente dai postulati liberal-garantisti è forse il 13. Nella redazione del testo, fondamentale si rivelò proprio la “penna verde”, e con taluni residui staliniani, di Togliatti. Il dispositivo raccoglie il principio della inviolabilità della libertà personale, presidiato dalla riserva di legge assoluta e da quella di giurisdizione, nonché il divieto – in nome della dignità dell’uomo – di atti di violenza sulle persone sottoposte a restrizioni di libertà.
Per i comunisti, la chiarezza teorica sul rapporto con il corredo delle tecniche liberali è giunta più tardi rispetto alla conseguente pratica politica e allo stesso disegno costituzionale. Nel 1953, proprio il “comunista liberale” Napolitano censurò in un editoriale sull’Unità il giovane storico Paolo Spriano che a Frattocchie si era lasciato sfuggire una critica alla nozione di “dittatura del proletariato”. Questa locuzione negli anni successivi cadrà in disuso per poi scomparire di fatto nella pubblicistica comunista.
Nella disputa tra gli studiosi marxisti attorno allo “Stato di diritto”, aveva sicuramente ragione Valentino Gerratana a recuperare questa formula come un valore imprescindibile nella strategia gradualistica del Pci; e aveva torto Lucio Colletti, grande innovatore nella gnoseologia e però con categorie scivolose sul piano della teoria politica, il quale sosteneva la necessità di un nuovo modello di democrazia antiparlamentare, visto che lo Stato di diritto esisteva già in Italia e non poteva perciò rappresentare un vero obiettivo progettuale della sinistra.
Le sensibilità dentro il gruppo dirigente del Pci sulle forme della democrazia erano diverse, ma non incompatibili tra loro. Sul tema, nel convegno “Togliatti e il Mezzogiorno” (Bari, 1975), ci fu uno scambio di battute tra Amendola e Ingrao. “Lasciate che io ringrazi Amendola per l’ironia indulgente, con cui egli mi lascia la fiaccola un po’ impallidita della democrazia diretta. Io preferisco parlare di democrazia di base, di presenza diffusa e organizzata delle masse. Dunque un intreccio organizzato, tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta” (Ingrao, Masse e potere, Editori Riuniti, 1977).
Al di là degli scambi non sempre in punta di fioretto tra i due grandi dirigenti di Botteghe Oscure, anche per Amendola (La classe operaia nel ventennio repubblicano) la transizione al socialismo si configurava come “il fiorire di una democrazia, assicurata non solamente dal funzionamento degli istituti rappresentativi, ma da una pluralità di centri di vita democratica e dalla esistenza di forme decentrate di autogoverno e di autogestione, nelle fabbriche, nelle università, nei quartieri delle città e nelle campagne, che permettano una larga e diretta partecipazione alle scelte politiche ed economiche che interessano i lavoratori”.
La differenza tra l’“eretico” e il “riformista” riguardava dunque non già l’innesto di contropoteri né l’ampliamento, con inedite migliorie, degli istituti della rappresentanza come luogo centrale della innovazione, ma il senso da dare alle riforme di struttura: Ingrao inseriva le grandi politiche di riforma entro un quadro strategico coerente, orientato verso un disegno di rottura delle compatibilità sistematiche per imporre un’altra razionalità; per Amendola, invece, le misure riformatrici dovevano incardinarsi sulla esigenza di superare i ritardi nello sviluppo, sugli interessi immediati che maturavano nelle lotte contingenti, senza alcun piano preordinato o progetto mirante alla discontinuità di sistema in vista di una diversa società.
Nel comportamento politico, il Pci, durante la sua lunga marcia nelle istituzioni, non ha mai interrotto il legame con la migliore produzione teorica liberaldemocratica. Nel 1977, la formula di Berlinguer sul “valore storicamente universale della democrazia”, mettendo a frutto un suggerimento di Umberto Cerroni (O. Massari, Gianfranco Pasquino come mio «tutor» tra politica e scienza, in A. Panebianco, a cura di, Una certa idea di scienza politica, Bologna, 2016), troncava in radice la questione. La diatriba si ripresentò come ancora sospesa, almeno al livello teorico-politico, nei primi anni 80. Nel convegno del Pci svoltosi al Ripetta nel 1982, la cultura della democrazia-valore venne contestata con l’assunzione dell’immagine esplicita della “crisi della democrazia”. Rispetto ai precedenti canoni del marxismo, curioso verso la democrazia-metodo, egemonici nel partito diventarono gli originali approcci legati al decisionismo politico, al post-operaismo, alla teologia politica, alla biopolitica.
Con la fine dell’Urss e l’eutanasia del Pci, poi, si riaffacciarono le tonalità liberali, ma ormai non si trattava più dell’introduzione del criterio di legalità, delle regole procedurali e di garanzia sopra delle fondamenta che richiamassero alla storia del comunismo italiano, bensì di una confusa conversione al mito di una “Cosa-carovana” quale incarnazione di un radicalismo di massa con corde molto sensibili al giustizialismo, all’antipolitica, al direttismo referendario. Paolo Franchi ricorda giustamente, a chi fantastica su un “liberale” partenopeo che per estraneità genetica non citava né Marx né Lenin, che in realtà nella formazione, nelle letture e negli scritti di Napolitano – il quale rese omaggio anche al “comandante Che Guevara” – si rintracciano tutte le canoniche curiosità, le tendenze, e anche i dogmatismi della tradizione comunista.
Semmai, il momento in cui Napolitano si spinse oltre il Pci, e anche il corpo più ampio del socialismo europeo, pare rappresentato da un suo scritto del 2011, quando in maniera esplicita al centro del recupero concettuale non stava, crocianamente, il liberalismo (politico), ma, alla maniera di Einaudi, il liberismo con il suo “Stato minimo”. Se nell’autobiografia Dal Pci al socialismo europeo rivendicava la scoperta di Keynes, con le pagine su “Reset”, quasi per fornire una base teorica al governo tecnico prossimo al varo e alle ricette necessarie ad uscire dalla grande crisi del debito sovrano, Napolitano rileggeva il rapporto Stato-mercato e l’esperienza dell’economia mista secondo la lente di Guido Carli (giudicava “interessante e suggestiva” la sua interpretazione della parabola repubblicana come dominata dalle culture marxista e cattolica, accomunate dal “disconoscimento del mercato”).
La “Costituzione economica” congegnata da Einaudi e De Gasperi tra il ’46 e il ‘47, come risposta dall’alto delle élite ancorata “alle regole e alle istituzioni monetarie internazionali” e posta al riparo dal dibattito costituente, veniva esaltata rispetto al disegno dei rapporti economici tracciato nella Carta del 1948. Napolitano proponeva di rispolverare “le verità del «liberismo» einaudiano”, ostile alla lettera e allo spirito dell’articolo 41 della Costituzione, all’idea di “piani” e “programmi”, e censore di “espressioni di dubbio significato” come quella di “utilità sociale” dell’iniziativa economica privata. Anche in questo suo rigetto dello “Stato proprietario” e dell’alluvionale espansione della spesa pubblica motivato dalla competitività dell’economia, Napolitano trovava appigli nella tradizione alludendo alle “ispirazioni di cultura liberale pure presenti nello stesso Pci”.
Il problema, però, non è la singola convergenza su politiche di concorrenza e di ammodernamento del sistema produttivo, ma la reviviscenza, sulla scia dell’intreccio originario tra il governo De Gasperi, il Quirinale e la Banca d’Italia avversi alle illusioni “sociali” dell’Assemblea costituente, di un illuminismo economico-politico che affida a istituzioni tecniche le grandi riforme che gli interessi di parte ciecamente respingono. Il mito dell’“interesse generale”, che le classi dirigenti devono perseguire senza badare alla costruzione di un consenso attorno alle modernizzazioni, presenta dei buchi neri che possono generare cortocircuiti, reazioni demagogiche.
Anche Occhetto volò in Inghilterra prima delle elezioni, ma, quando presentò ai laburisti il suo piano di privatizzazioni, i padroni di casa gridarono alla follia. Che occasionali politiche di libero scambio fossero (e siano) efficaci ed utili, nemmeno Marx lo metteva in dubbio, e Lenin le praticò con la Nep. Ha invece il sapore della novità il liberismo eretto a sistema etico-politico, per giunta proprio quando il trentennio liberista è al tappeto. Dopo la grande recessione del 2008, riaffiora il ritorno al protezionismo del “capitalismo politico” in un’età di guerre non solo commerciali.
Il modello misto all’italiana sarà anche risultato arcaico, e lo statalismo costoso, ma il connubio pubblico-privato ha garantito decenni di innovazioni, crescita e diritti sociali. La nuova costituzione economica imposta dai vincoli europei e da sua maestà il debito pubblico si sarà anche dimostrata più “competitiva” e agile nella ricezione del diritto comunitario, ma si è accompagnata a trenta lunghi anni di decrescita. La legislazione nazionale ispirata alle regole della concorrenza e del mercato, quali connotati del minimalismo statale, ha finora inaugurato, accanto alla stagnazione, una lunga deflazione salariale.
L’impasto di liberismo e governi tecnici ha poi incrementato nel comportamento elettorale il risentimento antipolitico e il populismo. E qui comincia quella terra inesplorata entro la quale, in assenza di una evoluzione dell’integrazione europea in direzione dell’approdo federale, le sinistre europee stentano a prendere le giuste misure. Prevalgono i tornaconti nazionali, per cui accanto a richieste di Stato minimo (per gli altri) fioriscono capitalismi (quello renano o francese) nei quali lo Stato gestore e regolatore continua a svolgere una funzione rilevante.