L'anniversario della scomparsa
“Per Berlinguer non esisteva politica senza un fondamento etico”, l’intervista ad Aldo Tortorella
A quarant’anni dalla morte vi raccontiamo Berlinguer attraverso 10 interviste raccolte dall’Unità 20 anni fa. Che restano attualissime. Abbiamo già pubblicato Giovanni Berlinguer, oggi il braccio destro del segretario
Interviste - di Piero Sansonetti
“La solidarietà nazionale? No – dice Aldo Tortorella – non è quello l’aspetto più importante della politica di Berlinguer. Lì ci fu un errore di valutazione da parte del Pci. Non si capì che le condizioni internazionali non avrebbero permesso l’ingresso dei comunisti nel governo. Non erano solo gli americani a opporsi. Persino i socialdemocratici tedeschi, dopo la caduta di Brandt, erano contrari. Recentemente Giovanni Galloni, che all’epoca era vicesegretario della Dc, ha ricostruito quegli anni e i veti che venivano da tutti i luoghi di potere dell’occidente. Ha raccontato i suoi tanti incontri con gli americani e i “no” che fioccavano. Anche dopo che il partito comunista francese era andato al governo con Mitterrand.
Gli americani dicevano: i comunisti francesi sono sotto la garanzia dei socialisti francesi e i socialisti francesi sono affidabili. Allora Galloni protestava e faceva notare che anche i democristiani italiani erano affidabili. Ma gli americani rispondevano che erano diversi i rapporti di forza. Il partito comunista francese era un piccolo partito, il Pci era troppo grande per finire sotto tutela, e quindi era meglio tenerlo fuori.
Gli americani non si rendevano conto che noi non costituivamo nessun pericolo per la collocazione internazionale dell’Italia. Berlinguer aveva già da tempo detto la famosa frase sul fatto che ci sentivamo più tranquilli sotto l’ombrello della Nato. E quella posizione era stata discussa e approvata in Direzione. E loro lo sapevano benissimo, perché l’ambasciata americana spiava i nostri lavori e registrava e ascoltava tutte le nostre discussioni segrete…”
Tortorella è stato uno dei dirigenti del Pci più vicini a Enrico Berlinguer. Dice che soprattutto nei primi anni della loro collaborazione le posizioni politiche non coincidevano perfettamente, però c’era grande stima reciproca. Poi con l’andar del tempo si trovarono ad avere idee sempre più simili. Tortorella apprezza soprattutto il Berlinguer degli ultimi anni, dice che fu in qualche modo profetico.
Aldo Tortorella oggi ha 77 anni e presiede l’ associazione per il rinnovamento della sinistra. Si iscrisse al Pci a 17 anni, nel ‘43, e quello stesso anno, in anticipo sui suoi coetanei, iniziò anche l’Università, filosofia, cattedra di Antonio Banfi, che è il suo maestro e che gli fece conoscere Husserl e Heidegger. Voleva fare il filosofo invece finì a combattere in clandestinità e poi il destino lo portò alla politica di mestiere. La clandestinità iniziale durò poco: i fascisti lo presero quasi subito e lo sbatterono in guardina. Fu il battesimo del fuoco.
Una cella con un tavolaccio e il cesso in un angolo. C’era posto per otto persone ma gli ospiti erano almeno 25. Non c’era neanche una finestrella sul muro, l’aria passava sotto la porticina blindata. Cimici dappertutto, niente luce, uno schifo, un fetore, un inferno. Lui era poco più di un bambino. Gli venne la febbre a 40, i fascisti temettero che fosse contagioso, questo ragazzino comunista, e lo mandarono piantonato all’o-spedale. In ospedale c’era una cellula del Pci clandestino che lo fece scappare.
Fondò il fronte della Gioventù a Milano, insieme a Raffaele De Grada. Poi Eugenio Curiel, che era il leader nazionale del fronte, lo mandò a Genova. Tortorella era uno studente istruito e di buona sintassi, così dopo la Liberazione il partito gli disse di andare a lavorare all’Unità. Dopo sei mesi era redattore capo. Aveva 19 anni quando iniziò a fare il redattore capo. Perché lui? Gran parte degli studenti e degli intellettuali che avevano militato con lui nella Resistenza erano morti sgozzati, o fucilati.
Serviva una persona che conoscesse le lettere, e quindi avanti il ragazzino. Tortorella poi sarà direttore dell’Unità di Milano, di quella di Genova e più tardi, negli anni ‘70, dell’Unità nazionale (che aveva unificato tutte le sue edizioni). Poi sarà il capo della commissione culturale del Pci e successivamente andrà in segreteria nazionale e diventerà il numero due di Berlinguer.
Quando Berlinguer morì, Tortorella collaborò con Natta e con Occhetto, poi al momento della svolta e dello scioglimento del Pci si dissociò, andò in minoranza, guidò l’opposizione alla Bolognina insieme a Pietro Ingrao, e dopo qualche anno di dissenso fondò l’associazione di cui oggi è presidente.
Tortorella, se non è la solidarietà nazionale il capitolo importante del berlinguerismo, qual è il capitolo importante?
Se tu giudichi Berlinguer sulla base dei successi o degli insuccessi ottenuti sul campo, allora devi dare un giudizio molto negativo. La solidarietà nazionale è fallita, ed è fallita prima ancora di nascere, con l’assassinio di Moro. L’alternativa di sinistra non si è compiuta, perché quella sua concezione di “alternativa” aveva trovato ostacoli formidabili persino dentro il suo partito. L’idea che si potesse rompere con il sistema sovietico, ma non definitivamente e mantenendo la speranza che quel sistema si riformasse, è un’idea che è durata a lungo, ma alla fine è stata sepolta dal muro di Berlino.
Era un’idea solo di Berlinguer o di tuto il gruppo dirigente?
Era di tutto il gruppo dirigente. Tutta la nostra generazione ha creduto nella riformabilità del comunismo. Non c’è niente da fare, è così. La generazione precedente era filo-sovietica (Amendola, Pajetta, e poi Togliatti e soprattutto Secchia) la nostra non era affatto filo-sovietica però credeva che il socialismo reale si potesse correggere. E restò di questa idea anche dopo la morte di Berlinguer, soprattutto per via di Gorbaciov, che riaprì molte speranze e che faceva riferimento esplicito al comunismo italiano e al pensiero di Berlinguer.
Quindi dici che le grandi opzioni di Berlinguer non produssero risultati.
No, neppure l’idea, modernissima, del governo mondiale, e dunque della collaborazione tra est e ovest, che era un punto importantissimo del suo pensiero. E persino la questione morale, della quale oggi si parla molto, non ebbe seguito. Non si trovano tracce di successi. Ma allora perché Berlinguer rimane un personaggio fondamentale della politica italiana, e oggi, vent’anni dopo che è morto, politici e politologi sentono il bisogno di tornare a occuparsi di lui? In questi giorni in Italia si tengono decine e decine di convegni su Berlinguer. Qual è il motivo? Perché molte delle idee che lui espresse erano connesse a questo concetto: che essendosi esaurita la spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre occorreva un altro fondamento per la politica di sinistra, un altro ancoraggio. Lui pensava che non fosse possibile un grande movimento o un grande partito che non avesse una solida base ideale, di valori, di aspirazioni, di modelli. La frase sull’ “esaurimento della spinta propulsiva” non va letta solo come presa di distanze dall’Urss e dal mondo comunista (che in quei giorni, in Polonia, stava reprimendo il dissenso sindacale): va intesa come punto di partenza per una nuova ricerca. Indicava quella necessità. Diceva: attenzione, non è possibile fare politica senza una spinta propulsiva, e la vecchia spinta che ha alimentato nei decenni precedenti il movimento operaio si è fermata: se il sistema di valori e di modelli al quale si riferiva quella spinta si è perduto, vuol dire che dobbiamo ricostruirne uno nuovo. E che la sfida del comunismo italiano si sposta su questo terreno. La via italiana al socialismo non è più una correzione della via sovietica ma deve essere una via del tutto nuova.
Questo è il Berlinguer degli ultimi quattro anni, degli anni ‘80?
Si, quello che molti dirigenti del Pci considerarono un Berlinguer un po’ bizzarro. Lo consideravano un uomo politico che avendo perduto la battaglia principale finisce per occuparsi solo di questioni marginali. Suggestive ma non decisive. Invece no: quello era un Berlinguer importantissimo, che mentre cerca novità politiche sulle quali rifondare la sinistra, scopre delle cose che non aveva capito prima: per esempio i movimenti, per esempio il valore della spontaneità politica, che aveva sempre trascurato. E facendo queste scoperte si applica all’esame della società moderna e alla ricerca delle nuove contraddizioni sulle quali costruire una strategia per il futuro. Le nuove contraddizioni che si affiancano alle vecchie contraddizioni individuate da Marx, e cioè, soprattutto, alla contraddizione principale che è quella tra capitale e lavoro. Però, nella società post-fordista, non ci si può più fermare lì. Marx funziona ancora ma non è più sufficiente. E per mantenere la funzione rivoluzionaria della classe operaia bisogna che la classe operaia si faccia carico di contraddizioni nuove e non più esclusivamente sue.
E quali sono queste nuove contraddizioni?
Ne vede cinque. O almeno, cinque sono quelle più importanti sulle quali lavora Berlinguer. La prima è la contraddizione uomo-donna, che non è più la questione emancipatoria o la richiesta paritaria, ma è la nascita del femminismo della differenza, che pone il conflitto tra i sessi come conflitto centrale. Le teorie del femminismo della differenza sono molto complesse e non facilissime da capire. Ancora oggi il mondo politico le ignora. Berlinguer si avvicinò a quelle teorie. La seconda contraddizione è la contraddizione tra uomo e natura, cioè la questione ambientale, e cioè la consapevolezza che il modello di sviluppo capitalistico è un modello di rapina e di distruzione della natura, ed è un modello destinato a incepparsi perché basato sul presupposto che lo sviluppo possa essere infinito; mentre invece non è così, la natura e il pianeta pongono dei limiti allo sviluppo. E un modello di sviluppo moderno non può non tenere conto di questa novità concreta.
La terza contraddizione è la contraddizione internazionale, che porta al pericolo di guerra. E qui Berlinguer si impegna molto. La nostra politica internazionale diventa di opposizione agli armamenti sia americani che sovietici. Noi ci battiamo per la non installazione degli SS20 sovietici, non solo dei missili americani. In quel periodo si tiene una riunione della Direzione nella quale Berlinguer dice che l’Urss ha sbagliato tutto perché non ha saputo cogliere l’occasione della sconfitta americana in Vietnam. L’Urss, secondo Berlinguer, doveva usare quella sconfitta per costruire un quadro più avanzato di distensione, di disarmo e di passi verso un governo mondiale; e non utilizzarla per avere qualche piccolo vantaggio meschino per se stessa o per i propri piani espansionisti e di controllo sulla sua area. Berlinguer pensa che dopo il Vietnam l’Urss non sia riuscita ad assolvere ad un ruolo di potenza internazionale, di difesa degli interessi del mondo. Si sia chiusa nei suoi interessi nazionali e lì abbia perso la partita. La quarta contraddizione – legata alla terza – è quella tra il Nord e il Sud del mondo. Cioè quella della quale si parla molto oggi, e che è stata riportata di attualità dal movimento no-global. Berlinguer l’aveva intuita molto bene vent’anni fa ed aveva capito che non era possibile costruire una politica internazionale che non partisse da lì, dalla lotta agli squilibri. E infine, tornando alla politica italiana, quinta contraddizione è la contraddizione etica. Berlinguer pone la questione morale come questione politica. E importante da questo punto di vista persino l’uso dei termini: questione morale. Nel linguaggio comunista la “questione” era un insieme di problemi legati ad un aspetto tradizionale e fondamentale della politica: la questione cattolica, la questione meridionale, la questione agraria, la questione contadina… Cioè temi che esulano dal conflitto di classe principale ma che sono fondamentali nell’elaborazione della strategia. Berlinguer decide che i problemi della moralità politica diventano una “questione”. A cosa si riferisce? Al fatto che i partiti stanno realizzando l’occupazione dello Stato e questo cambia la qualità e la natura della politica. Berlinguer vede un deterioramento della politica che ormai sta trasmettendosi per li rami anche nel partito comunista. E quando parlava della diversità non parlava di un miracolo genetico, parlava della necessità di salvare la diversità delle persone normali, e cioè doti come l’onestà, la semplicità, il rispetto e l’amore per la giustizia. Non parlava dell’idea di una superiorità comunista, tutt’altro, parlava della normalità e della necessita di difenderla. Quando pose la questione morale Berlinguer tornò ad usare una parola che non si usava più dai tempi di Gramsci. Cioè da quando Gramsci parlava di riforma intellettuale e morale.
C’è una svolta teorica a quel punto in Berlinguer? C’è un passaggio dal togliattismo al gramscismo?
C’è una svolta di pensiero. Berlinguer è stato un interprete scrupolosissimo e fedele della tradizione togliattiana fino a un certo momento della sua vita. Fino a quel momento lui riesce a conciliare Togliatti con Gramsci. A un certo momento in lui prevale un visione diversa, più gramsciana. Quando dice “rivoluzione copernicana”, riprendendo una espressione di Fernando Di Giulio, cosa fa? Cambia l’idea delle gerarchie politiche. E cioè dice: dalla priorità della politica delle alleanze si passa alla priorità della politica dei contenuti. Eccolo l’ultimo Berlinguer: il Berlinguer che cerca i contenuti.
Esiste quindi un primo e un ultimo Berlinguer?
No, in realtà è sbagliata questa distinzione. C’è uno svolgimento nel suo pensiero. E la sua capacità di sviluppare il pensiero, di tenere conto dei fatti, degli errori, delle novità, delle intuizioni, è la sua grande dote politica. Per questo è sbagliato distinguere tra primo secondo e terzo Berlinguer. Berlinguer esiste in quanto in continuo svolgimento.
Però il Berlinguer del compromesso storico è ancora pienamente togliattiano?
Quella fase è molto influenzata da Togliatti. Dopo l’undicesimo congresso (1966) e lo scontro feroce tra Ingrao e Amendola, Berlinguer si mette alla testa di un gruppo di centro, nel partito, che guida il Pci sia nella ricostruzione della sua unità interna sia nella tradizionale politica delle alleanze di Togliatti, che portava inevitabilmente all’incontro con la Dc. Unità nazionale concepita come fase di passaggio, verso orizzonti nuovi e socialisti, ma comunque come fase lunga e molto importante. Lui assegna a questo incontro con la Dc una dignità addirittura storica. Dice: compromesso storico. È una formula che non piace molto al partito. Paolo Bufalini diceva: “No, compromesso politico, non storico”. Erano due cose in parte diverse, concettualmente. Bufalini concepiva l’accordo con la Dc in termini strettamente togliattiani. Berlinguer no, già allora lui ragiona in termini diversi…
Torniamo alla rivoluzione copernicana, che è più o meno di dieci anni dopo l’undicesimo congresso.
Sì la rivoluzione copernicana vuol dire questo: contenuti al primo posto. Perché contenuti al primo posto? Perché i vecchi contenuti della battaglia politica erano finiti, il mondo era cambiato. E allora non poteva più funzionare lo schema precedente.
Qual era lo schema precedente?
Molto semplice. I contenuti della battaglia politica erano chiarissimi, ed erano quelli fissati dalla tradizioni comuniste e operaie. Potremmo dire: dalla rivoluzione d’ottobre. Il problema della politica era come realizzarli. E quindi le alleanze. Il tema delle alleanze (sociali, politiche, ideali) come tema numero uno. Berlinguer invece si rende conto che i “contenuti” tradizionali sono finiti. Non funzionano più. E allora bisogna rifondare i contenuti, trovare i nuovi, costruirli, elaborali. Diventano loro il “sole” della politica e intorno alla ricerca dei nuovi contenuti si ricostruisce la politica e si ricostruisce la sinistra.
Cioè occorre trovare un nuovo modello di sviluppo. È così?
Sì, è questo il tema.
Ma non è esattamente il tema che aveva posto Ingrao all’undicesimo congresso e sul quale era stato pesantemente sconfitto?
Sì, in parte è così. Berlinguer riprende quei temi di Ingrao. Del resto lui all’undicesimo congresso aveva assunto una posizione per la quale fu punito dal partito. Una posizione tra la mediazione e la comprensione. Negli ultimi anni lui riprese quei temi e quella prospettiva. Naturalmente li riprese a modo suo. E infatti la sua posizione venne osteggiata da molti. Da Napolitano, da Chiaromonte da Bufalini. Alcuni di loro poi gli restarono molto vicini, per esempio Chiaromonte, però non condivisero la rivoluzione copernicana, non la capirono.
Torniamo alla tua affermazione iniziale: nessuna delle sue idee si è realizzata. Quindi è uno sconfitto?
No, io questo non lo credo. Perché se guardiamo alle cose che diceva Berlinguer (così come se guardiamo a tante cose dette da Ingrao) vediamo che oggi tornano tutte, che aveva ragione, che erano profezie. Lui anticipava la politica, non era indietro, era avanti. Questo movimento che oggi riempie le piazze del mondo, in gran parte riscopre questioni che lui pose. Per valutare un personaggio politico si possono usare due metri: quello politicistico, e allora Berlinguer è un perdente, e quello storico-politico, e allora è uno che ha visto molte cose prima degli altri. Intuire realtà complesse non significa automaticamente avere successo.
Vuoi dire che bisogna distinguere tra politica e tattica?
Sì, bisogna distinguere. La politica non può essere solo tattica. Anche se la tattica è importante. E nella concezione politica di Berlinguer la tattica aveva uno spazio rilevante.
Risulta che ancora negli ultimi mesi della sua vita Berlinguer ebbe – attraverso Tatò – molti rapporti con Pertini, con De Mita, con Spadolini, e che attraverso questi rapporti operò a favore della possibilità di far saltare il governo Craxi. Quindi nessun disprezzo per la tattica. Però la convinzione che il rapporto tra etica e politica deve essere strettissimo. E non può essere subordinato alla tattica. Lui pensava che non esiste nessuna politica che non abbia dei presupposti etici. Senza questi non avrebbe senso fare politica. Oggi invece prevale l’idea della politica come tecnica, o nel migliore dei casi come amministrazione. La visione che aveva Berlinguer di rapporto tra politica ed etica lo portò ad avere una idea molto forte di verità. Per Berlinguer la verità era importante. Ed è questo il motivo per il quale lui riuscì sempre a mettere sotto esame e a riconsiderare anche i propri convincimenti, e a modificarli, e a cambiarli profondamente quando serviva. Cambiare idea faceva parte del suo metodo politico.