Il Giorno della Memoria

Ecco perché il ricordo di Auschwitz deve tormentarci per sempre

La tragedia di Auschwitz non è elaborabile: non può venir digerita. Può solo esser rimossa, negata, taciuta o ricordata. Ecco perché l’espressione Giornata della Memoria è quanto mai opportuna: possiamo ricordare.

Editoriali - di Danilo Di Matteo

28 Gennaio 2025 alle 18:30

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AP Photo/Oded Balilty – Associated Press/LaPresse
AP Photo/Oded Balilty – Associated Press/LaPresse

Psichiatri e psicoterapeuti sanno che gli eventi traumatici presentano due aspetti: vengono consumati in un certo lasso di tempo – anche di pochi secondi o di pochi minuti – e condizionano chi li ha vissuti a lungo, anche per un’intera esistenza.

La tragedia di Auschwitz, poi, è a mio avviso non elaborabile: non può venir digerita. Può solo esser rimossa, negata, taciuta o ricordata. Ecco perché l’espressione Giornata della Memoria è quanto mai opportuna: possiamo ricordare. E possiamo porci in ascolto di quell’orrore, di chi lo ha patito. E del silenzio dei milioni di ebrei e di altri esseri umani che non ce l’hanno fatta. In ascolto anche del silenzio macabro di chi sapeva e taceva, come monito per non tacere più. Persino, per chi crede, del silenzio di Dio, che sembrava essersi eclissato. Quante volte, del resto, abbiamo l’impressione di trovarci dinanzi a un Dio assente, rinunciatario. O a un Dio lontano.

Auschwitz, tuttavia, è stata opera umana. Non ci libereremo mai di quei campi di sterminio, anzi: è giusto non liberarcene. Essi sono, devono continuare a essere il nostro tormento. Guai a sbarazzarcene, come si illudono di fare i cosiddetti negazionisti: il diniego e la negazione, del resto, rappresentano due possibili strategie difensive del nostro inconscio e possono contribuire alla follia. Negare, dunque, corrisponde, a livello collettivo, a duplicare la follia: quella dei lager e quella del misconoscimento. Alcuni di coloro che vorrebbero relativizzare Auschwitz provano a elencare altre tragedie, altri genocidi: dai cristiani, soprattutto armeni, a opera dei turchi ai nativi americani, fino all’arcipelago gulag. In realtà essi partecipano della persecuzione e della morte degli ebrei, la condividono. Come ne hanno partecipato, in quegli stessi campi di sterminio, migliaia di nomadi, Testimoni di Geova, malati di mente, comunisti, omosessuali e altri ancora. Sono anche la sistematicità, il rigore “scientifico” di quelle deportazioni a inorridire, quella “lucida” follia. L’Occidente che nega le proprie radici, l’umanità che nega se stessa, l’Europa e la Germania di Goethe o di Kant che precipitano nella barbarie.

Nel 1967 Theodor W. Adorno pubblica a Francoforte Negative Dialektik, dove fra l’altro è scritto: «Dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna forma d’arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile. Il rapporto delle cose non può stabilirsi che su un terreno vago, in una sorta di no mans’s land filosofica». Il trionfo del silenzio tragico di Auschwitz, parrebbe. Eppure otto anni prima, nel 1959, nonostante tutto, Ernst Bloch, nella stessa Francoforte, aveva pubblicato Il Principio Speranza. Una Speranza colta, appunto, nel cuore del fallimento. Come dire: speranza e fallimento sono i due volti della condizione umana, come biblicamente rappresentata.

Quello di Bloch, non a caso, è stato definito il controcanto di una melodia ebraica. Qui giunti, mi sia perdonata l’autocitazione. Si tratta dei versi conclusivi di una mia raccolta poetica: “Esperienza del margine / certo / o terra di nessuno / non di confini / assenza, piuttosto, e / vuoto. / Per Adorno / dopo Auschwitz solo un terreno / vago, senza poesia, senz’arte / terra di nessuno arida e / deserta / aspettando una nuova / primavera”.

28 Gennaio 2025

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