L'inferno dalla Sierra Leone a Tunisi

La storia di Fantah e Mohammed: in fuga tra stupri e torture per salvare la figlia Kadija

I rapimenti, la prigione, le torture, il riscatto, l’orfano nudo trovato in strada a Tunisi e il naufragio. La burocratica indifferenza della Oim. Proteggono loro il bambino. E sono nascosti in Tunisia attendendo di partire per l’Europa

Cronaca - di Angela Nocioni

28 Dicembre 2024 alle 09:00

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La storia di Fantah e Mohammed: in fuga tra stupri e torture per salvare la figlia Kadija

“Le ho detto di essere forte, di finire ciò che avevamo iniziato e di ricordare che lo stavamo facendo per nostra figlia, non solo per lei. Nonostante tutto, abbiamo dei sogni”. Queste parole sono di Mohammed Sano, un giovane calciatore della Sierra Leone. La storia di lui, di sua moglie Fantah Fofanah, 18 anni, e della loro bambina, Kadija di due anni, le ha raccolte Ludovica Gualandi, ricercatrice e attivista dell’associazione Memoria mediterranea.

Racconta Ludovica: “Stavo camminando lungo Mongi Slim, una strada molto trafficata nel centro di Tunisi. Seduta su un gradino, c’era una giovane donna dalla pelle nera con una bambina in grembo, visibilmente esausta sotto il sole di agosto. Chiedeva l’elemosina. In Tunisia offrire aiuto a persone migranti può essere rischioso. Ho esitato. Volevo avvicinarmi, parlarle, chiederle se avesse bisogno di qualcosa, ma da mesi l’ansia e la paura mi assalgono. Mi sono avvicinata. Le ho lasciato il mio numero di telefono, invitandola a chiamarmi. Qualche ora dopo, ricevo una sua chiamata. Si chiama Fofanah Fantahh e si trova in Tunisia da pochi mesi. Il suo viaggio insieme alla figlia e al compagno Mohammed inizia a settembre 2023 quando decidono di lasciare la Sierra Leone. Mi chiamano assieme e con molta fiducia mi raccontano la loro storia. È lui che inizia a raccontarmi, è meno timido della sua compagna”.

Mohammed: “Mi chiamo Mohammed Sano, vengo dalla Sierra Leone, Africa occidentale. Siamo partiti dalla Sierra Leone il 16 settembre 2023. Nostra figlia Kadija è nata il 25 giugno. Entrambe le nostre famiglie volevano che Kadija entrasse a far parte della Bondo society (una istituzione tradizionale n.d.r.) che prevede venga praticato alle bambine un intervento per la rimozione del clitoride. Ma noi ci siamo opposti e abbiamo deciso di fare questo sacrificio per lei. Così siamo partiti dalla Sierra Leone e siamo arrivati in Guinea, affrontando grandi difficoltà economiche. Lì ho deciso di portare la mia famiglia in Libia, con l’obiettivo di arrivare in Europa, perché avevamo paura e non volevamo che accadesse a lei ciò che era successo a Fantah. Questa pratica è stata infatti imposta a Fantah, e non volevamo che Kadija subisse la stessa sorte”.

Mohammed continua: “Dalla Libia abbiamo tentato di raggiungere la Tunisia, ma siamo stati catturati al confine tra Libia e Tunisia. Le autorità tunisine mi hanno venduto ai libici che poi mi hanno chiesto un riscatto. Mia moglie e mia figlia erano scomparse, non sapevo dove fossero. Sono stato in prigione in Libia per circa due mesi. Ho fatto di tutto per contattare alcuni miei amici, che mi hanno aiutato a raccogliere il denaro richiesto, e alla fine sono stato rilasciato. Ci picchiavano giorno e notte, ci trattavano come se fossero migliori di noi, capisci? La prigione in Libia è uno dei posti più pericolosi in cui sia mai stato. Anche nei miei sogni prego che i miei nemici muoiano piuttosto che finire lì. Quelle persone si dichiarano musulmani, ma sono ben lontani dall’essere tali. A volte dicono di essere poliziotti, di proteggere il loro paese, di essere autorità statali, ma sembrano non avere un vero governo. Mentre ero in prigione, Fantah è stata violentata. Kadija era in una situazione terribile, era molto piccola e stava male. Fantah era preoccupata di essere stata contagiata da una malattia o di essere rimasta incinta, ma per fortuna, dopo averla portata in ospedale per un controllo, i medici hanno confermato che era in salute. Abbiamo deciso di rimetterci in viaggio. Ho lavorato duramente per raccogliere abbastanza soldi per permettere a Fantah e Kadija di raggiungere la Tunisia, io le avrei seguite dopo. È stato molto difficile, sai, molto difficile. Non riesco a pensare al giorno in cui me l’ha detto. Dal mio punto di vista, uno dei momenti peggiori della sua vita è stato il giorno in cui è stata stuprata. Quel giorno, quando l’ho scoperto e me lo ha spiegato, era in uno stato emotivo terribile. Pensava che forse l’avrei lasciata, che l’avrei abbandonata. Ho dovuto farle capire che non era colpa sua. Quelle persone sono disumane, sai, possono fare qualsiasi cosa gli venga in mente. Se possono ucciderti, possono anche stuprarti, è una cosa comune per loro. Le ho detto di essere forte, di finire ciò che avevamo iniziato e di ricordare che lo stavamo facendo per nostra figlia, non solo per lei. Nonostante tutto, abbiamo dei sogni”.

Ludovica domanda: “Perché siete entrati in Tunisia dall’Algeria e non dalla Libia?’”.

Risponde Mohammed: “Dopo l’esperienza al confine Libia-Tunisia abbiamo deciso di cambiare rotta. Non volevamo essere catturati di nuovo e venduti ai libici. Quando abbiamo attraversato dall’Algeria non eravamo insieme, eravamo separati. Lei era con la bambina, e quando sono arrivati in Tunisia, io ero ancora in Algeria. Non volevo che lei avesse di nuovo problemi. Se l’avessero presa, sarei stato io a trovare un modo per liberarle”. Fantah, con un sorriso amaro sulle labbra inizia a raccontare: “Non sapevo che il viaggio fosse così duro, non lo sapevo. Quindi, dalla Libia all’Algeria, abbiamo camminato nel deserto, e io portavo la bambina. Ma è stato molto difficile, la polizia è molto dura. Ci dicevano che se ti prendevano, ti avrebbero rimesso in prigione in Libia. Sono sopravvissuta grazie a alcuni ragazzi, alcuni guineani, maliani, persone di altri paesi. Mi hanno aiutata, alcune persone hanno tenuto la bambina per me, perché in quel momento non riuscivo nemmeno a camminare. Anche la bambina non aveva cibo. A volte non c’era cibo, niente. Il viaggio è durato dalle due alle tre settimane e sono sopravvissuta grazie a questi ragazzi che mi hanno aiutato”.

Continua Fantah: “La polizia algerina ci lasciava di notte e al mattino. Ci dicevano di non tornare indietro, ma di andare in Tunisia. I tunisini, se ti prendevano in quel periodo, ti rivendevano ai libici, perché quei libici avevano prigioni. Loro hanno una polizia finta che mette le persone nel deserto. Ma la polizia vera lo sa. Tutti loro sanno che sono poliziotti falsi. Fanno tutte queste cose per soldi. Se ti prendono, ti portano via il telefono, i soldi, tutto, e ti mettono in prigione, ti picchiano. A volte alcune persone muoiono lì”.

Ludovica chiede: “Ma quando avete deciso di venire in Tunisia, eravate consapevoli della situazione in Tunisia? O pensavate ancora che la Tunisia fosse un buon posto dove stare, un posto dove c’era lavoro? Volevate stabilirvi in Tunisia o volevate andare in Europa?”.

Risponde Fantah: “Quando eravamo in Libia pensavamo che forse la Tunisia sarebbe stata molto meglio della Libia, ma quando siamo finalmente arrivati qui, abbiamo scoperto che è più o meno lo stesso. Non avevamo in mente di venire in Tunisia per stabilirci, sai, pensavamo che, arrivando in Tunisia, le cose sarebbero andate un po’ meglio, giusto il tempo di arrivare in Europa. Quando sono arrivata in Tunisia prima di Mohammed non sapevo che qui le persone chiedono l’elemosina. Pensavo che, venendo qui, avrei solo lavorato. Sì, pensavo che ci fosse molto lavoro, ma tutto è andato diversamente. Dopo due o tre giorni, ho visto una come me uscire la mattina. Pensavo andasse a lavorare e invece mi hanno detto che vanno a chiedere l’elemosina ogni giorno per mangiare e pagare l’affitto. Quindi sì, io e una mia amica abbiamo iniziato a chiedere l’elemosina. I tunisini anche se ci trattano male a volte, so che lo fanno perché è così che dice il Presidente. Se il Presidente ordina qualcosa, la polizia e gli altri lo seguono. Ma, in generale, la gente comune qui ci dà i soldi, sono buoni con noi. Sì è vero, ci attaccano, certo, ma soprattutto la polizia. Se ci vedono mendicare, a volte non ci arrestano, ma ci portano comunque alla stazione di polizia. Se ti prendono al mattino, verso sera ti rilasciano. A volte però si prendono tutti i soldi che hai guadagnato mendicando dalle nove o dieci del mattino fino a quel momento. Rispetto alla Libia è meglio. A volte ti dicono semplicemente di lasciare il posto in cui stai mendicando, e se non lo fai ti arrestano”.

Ludovica è rientrata in Italia da pochi giorni quando, il 12 ottobre scorso, riceve una chiamata da Fantah. Insieme a lei, la piccola Kadija e Mohammed, c’è un ragazzino spaventato. “Che sta succedendo?” chiede ai due.

Mohammed risponde terrorizzato: “Abbiamo trovato questo ragazzino per strada, è solo, non ha più nessuno, era nudo e con le gambe bruciate. Ha paura. Lo abbiamo portato qui a casa. Non può rimanere solo fuori per strada la notte. Sono uscito per comprare del cibo per Fantah e la bambina. Così l’ho incontrato, e lui mi fissava, mi sono avvicinato e gli ho fatto alcune domande. Per fortuna veniamo dallo stesso paese. Mi ha detto di aver perso entrambi i genitori nel Mar Mediterraneo e che non ha nessun posto dove andare, non ha nessuno. Sentendo la sua storia, mi sono sentito molto abbattuto, capisci? Così l’ho portato a casa. Lo abbiamo lavato, gli abbiamo dato dei vestiti e qualcosa da mangiare. Abbiamo cercato di parlare con lui per capire se ci fosse qualcuno, un parente sia in Sierra Leone che qui”.

Il ragazzino racconta a Mohammed e Fantah di chiamarsi Yappio, di venire anche lui dalla Sierra Leone e di essersi imbarcato qualche settimana prima da Sfax insieme alla sua famiglia e ad altre persone. I suoi sono tutti morti. Lui è stato salvato da un peschereccio dopo molte ore passate in acqua. Le bruciature sulle gambe sono state causate dalla mistura di acqua di mare e carburante del motore. Racconta Ludovica: “Davanti a questa situazione, abbiamo cercato di intervenire per offrire aiuto al ragazzo: individuare membri della sua famiglia o fare in modo che fosse preso in carico dai servizi di protezione dell’infanzia. Tuttavia, in Tunisia, per un bambino straniero senza documenti, l’assistenza si è dimostrata pressoché inesistente. Abbiamo comunque deciso, con disillusione, di contattare un membro dell’Organizzazione Internazionale per la Migrazione, spiegando la situazione e chiedendo una presa in carico. Mohammed riceve un primo appuntamento”.

Ecco le sue parole: “La tua amica (una persone della società civile in Tunisia n.d.r.) aveva inviato all’Oim il mio numero, e mi hanno contattato lo stesso giorno. Ho fissato un appuntamento per il giorno successivo, alle nove di mattina. Sono andato lì con il ragazzo, ma il numero con cui avevo fissato l’appuntamento non rispondeva. Ho provato innumerevoli volte, mandando messaggi, ma nessuna risposta. Ero lì davanti al cancello con il bambini. Ho parlato con qualcuno, ma non c’è stata risposta. Alla fine ho parlato con un dipendente dell’ufficio, che mi ha detto che il mio nome e quello del ragazzo non erano sulla lista. Mi sono sentito molto male, per me e per lui. Sono andato due volte. La seconda volta è stata uguale. Dopo qualche ora di attesa ho lasciato il posto”.

Dice Ludovica: “Il lessico umanitario usato di solito per raccontare l’Oim si scontra con la realtà operativa che Mohammed descrive. La missione dell’organizzazione si riduce sempre più frequentemente ai cosiddetti rimpatri volontari assistiti, politiche che operano sotto una maschera di umanità ma che di fatto si allineano alle agende securitarie degli Stati e dell’Unione Europea. L’esperienza di Mohammed dimostra non solo l’incapacità dell’Oim di rispondere a bisogni immediati, ma anche l’esclusione sistematica delle persone migranti dai sistemi di protezione. Le mancate risposte, la confusione amministrativa e l’assenza di responsabilità concreta hanno lasciato Mohammed e il ragazzo in una condizione di totale abbandono, aumentando il senso di vulnerabilità e isolamento. La retorica dei rimpatri, mascherata da un linguaggio umanitario, diventa uno strumento che non solo fallisce nel fornire protezione, ma contribuisce attivamente al rafforzamento della logica securitaria, orientata al respingimento delle persone migranti”.

Mohammed: “Dopo alcune settimane, siamo riusciti a contattare una zia che era a Kasserine. Ma, sai, è stato solo un tentativo, perché il numero che usava non era il suo telefono, quindi da allora non siamo più riusciti a rintracciarla. Non avendo contatti con nessuno e con la situazione qui in Tunisia per noi (persone nere), ho pensato che questo ragazzino avesse bisogno del mio aiuto, e sicuramente lo merita. Ho davvero bisogno di aiutarlo, perché è solo un ragazzino, forse ha 10, 11 o 12 anni. È tutto solo qui in Tunisia, non ha nessun posto dove andare, quindi, sai, aiutarlo, decidere di prendermi cura di lui, penso che sia il minimo che possa fare. È il minimo che posso fare per sentirmi che ho fatto qualcosa di cui posso essere davvero orgoglioso, sai, nonostante le difficoltà. Penso che qualunque cosa accada, accada per una ragione, e sento che sto facendo la cosa giusta, davvero. Ma, comunque, abbiamo in mente di andare in Europa per dare a Kadija una vita migliore, e dobbiamo affrontare qualsiasi tipo di rischio lungo il cammino. Per questo siamo qui. La mia forza è mia figlia, sto facendo tutto questo per darle una vita migliore. Supero tutti gli ostacoli che incontro lungo il percorso per mia figlia. Lo facciamo perché siamo un esempio per lei. E poi ci sono i miei sogni. Ho talenti, a volte, quando guardo me stesso, mi sento nel posto sbagliato. Sì, sicuramente sono nel posto sbagliato, senza dubbio. Ma quando arriverò in Europa, sai, la storia sarà fatta presto. Perché credo in me stesso, so chi sono, e ho una famiglia bellissima che mi rende più forte ogni giorno. Sai, non importa se abbiamo incomprensioni o affrontiamo delle sfide, loro credono sempre in me. Non hanno mai smesso di credere in me, qualunque sia la situazione o le circostanze. Essere un’ispirazione per loro, con il talento che Dio mi ha dato, mi fa sentire che sono solo a un piccolo passo dal realizzare i miei sogni. So che arrivando in Europa, quel giorno inizierà una nuova era del calcio. Sì, lo credo davvero. Continuo a muovermi, sai, continuo ad allenarmi”.

Ludovica: “È sabato 30 novembre, un mese fa. Ricevo una chiamata dai due ragazzi che mi informano che la loro partenza è vicina. Mohammed il giorno dopo sarebbe andato a pagare il viaggio per la sua famiglia, compreso Yappio, il ragazzino. Dicono di avere un contatto “sicuro” che per 3 mila dinari tunisini li avrebbe fatti arrivare a Lampedusa. Il giorno seguente cerco di mettermi nuovamente in contatto con loro per assicurarmi che vada tutto bene. Non ricevono i miei messaggi. Insisto numerose volte, ma nulla. Riprovo il giorno seguente e quello dopo ancora. Nessuna risposta. Una sola cosa mi viene da pensare: hanno preso il mare e non ce l’hanno fatta. Mercoledì 4 dicembre 2024, mi arriva un messaggio su Messenger, è Fantah. Apro il messaggio e leggo: ‘Mohammed è stato rapito, non so niente di più. La madre di Mohammed ha ricevuto questo video ieri. Lo picchiano, lo picchiano forte e chiedono un riscatto’. Lei è disperata, mi inoltra il video dei soprusi inflitti al compagno, denudato, picchiato e ripreso mentre implora di lasciarlo andare e chiedendo un riscatto per la sua liberazione. Non è chiaro chi siano le persone che lo tengono in ostaggio. La madre di Mohammed invia tempestivamente un riscatto di 2000 dinari tunisini, circa 600 euro, ma Mohammed non viene liberato. Passano alcuni giorni, nessuna notizia.

Il 9 dicembre 2024 Fantah mi chiama: Mohammed è tornato a casa. Stanco, con evidenti segni di violenza e un mal di testa cronico dovuto dalle percosse ricevute. Vedo la faccia sempre sorridente di Mohammed in video chiamata. Vorrei aspettare un attimo prima di chiedergli cosa sia successo, ma lui ha subito bisogno di raccontarlo: “Sono partito presto la mattina, verso il Kram (quartiere della periferia di Tunisi n.d.r.). Avevo un contatto sicuro di una persona che ci avrebbe aiutati a partire, prendendo il Mediterraneo per raggiungere l’Italia. Abbiamo faticato molto per mettere da parte i soldi necessari. Mi hanno dato appuntamento in una piazzetta del Kram. Aspetto un ora e nessuno si fa vivo, comincio allora a chiamare questa persona che mi dice che stava arrivando. Passa un uomo davanti a me, mi chiede indicazioni, non so rispondere, non conosco bene questo quartiere. Mentre cerco di aiutarlo a trovare la strada qualcuno mi prende da dietro. Mi ritrovo poco dopo in una grande casa, con più stanze. Non ero solo, con me c’erano altri due uomini e una donna. Ci stavano imprigionando. Ci hanno fatto spogliare, con i loro telefoni hanno cominciato a filmarci, nudi, chiedendo un riscatto alle nostre famiglie per essere liberati. Mia madre ha mandato subito i soldi. Inutile dire che mi avevano già rubato tutto: il telefono e 3 mila dinari che avevo con me per pagare la traversata. Durante i giorni di prigionia ci hanno trattato molto male, non ci hanno dato né da mangiare né da bere, ci hanno tenuti nudi nonostante avessimo già pagato il riscatto. Hanno violentato una donna davanti a me. Io per fortuna sono riuscito a scappare. Durante la notte sono corso fuori da una delle porte della casa. Per fortuna sono stato trovato da un giovane ragazzo tunisino, ero in mutande, infreddolito e sotto choc. Il ragazzo mi ha aiutato, mi ha portato a casa sua e si è preso cura di me. Io volevo subito tornare a casa dalla mia famiglia, ma non avevo le forze. Mi hanno accudito, mi hanno dato da bere, da mangiare, dei vestiti caldi e qualche medicina. Dopo due giorni e grazie alla cura di questa famiglia, ho ripreso le forze e sono tornato nella mia casa, da Fantah e Kadija. Non ci posso credere di essere ancora vivo”.

28 Dicembre 2024

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