L'annullamento del voto
Perché è stato annullato il voto in Romania: così la democrazia finisce alla sbarra
La decisione dei giudici di Bucarest è alquanto opinabile: su che basi si può sostenere che la consultazione popolare è stata viziata dalla disinformatija di Mosca sui social? Bisogna rimanere fedeli alla propria bandiera anche quando la nave affonda, ammoniva Kelsen
Esteri - di Michele Prospero
Quello che sta avvenendo a Bucarest è qualcosa di inedito nelle vicende del costituzionalismo. Dinanzi all’annullamento del voto poco persuasive paiono le giustificazioni abbozzate da taluni giornali italiani (soprattutto La Repubblica e Domani). La decisione della Corte costituzionale rumena, peraltro emessa con dubbia tempistica, non poggia su sostanziose basi formali. Solamente il clima emergenziale, dilatatosi dopo l’invasione russa dell’Ucraina, riesce a spiegare l’intervento sanzionatorio di un organo di garanzia che si tramuta in un centro di ricerca dotato di poteri irresistibili, diretti a scongiurare gli effetti perversi dei nuovi media sui comportamenti elettorali.
Per via delle ricadute della guerra lunga contro Mosca, la Germania manda in rovina il suo modello economico, la Francia strapazza il di per sé irrazionale ordinamento della Quinta Repubblica e la Romania getta un’ombra definitiva sui malfermi regimi (il)liberali dell’Est. Azzerare le schede, in virtù tra l’altro non di un ponderato processo con incriminati per sovversione e puntuali capi di imputazione ma di riservate informazioni dei servizi segreti (specialmente quelli inglesi), non appartiene alle pratiche accettabili di una democrazia, sia pure minimale. Il fatto è che nei Paesi dell’ex Patto di Varsavia, passati quasi quarant’anni dal crollo del comunismo, si è allargato lo spazio di mercato (influendo innanzitutto sul costo della forza lavoro in Occidente), e però non sussiste alcun indice di apprezzabile consolidamento democratico.
Finora erano stati i presidenti sleali – da ultimo in Corea del Sud – a manovrare contro le istituzioni democratiche e, una volta persa la testa, a sperimentare l’azzardo di una sfacciata prova di forza. Adesso, alla regia di scivolosi colpi di mano coperti da ragioni neutrali, si trova nientemeno che “il custode della costituzione”. In Romania i giudici supremi assumono il compito di correggere il popolo sovrano allorché nelle cabine cade in tentazione e dà la preferenza a candidati invisi alle élite (come d’altronde accaduto di recente in Germania, Francia, Austria, Ungheria e Slovacchia). L’irrituale scioglimento del popolo, sancito in nome delle superiori esigenze di contenimento del nemico all’interno di un conflitto ibrido, annichilisce i principi della libera competizione attraverso la risibile pretesa di misurare con esattezza geometrica il tasso effettivo di manipolazione degli elettori. Convinta che l’infaticabile contadino della Transilvania e il vecchietto delle foreste dei Carpazi sbirciando l’app di TikTok sono stati sedotti prima di recarsi al seggio, la Curtea rumena disperde il corpo elettorale come irrilevante e ordina di rifare il gioco daccapo.
Ammesso pure l’ingresso in scena di un esercito di influencer a libro paga di Putin, e avvistata per ipotesi la strategia di propaganda travolgente a furia di divulgare fake news, nulla di ciò è in grado di dimostrare con certezza la correlazione tra esposizione del pubblico alla menzogna e sostegno anomalo regalato alla destra di opposizione. Il determinismo tecnologico, che perfino negli studi sociologici è ancora una categoria aleatoria situata nel campo del non quantificabile, per i saggi della corte rientra invece nel novero dell’evidenza apodittica in conformità alla quale è doveroso sospendere le scaramucce per le presidenziali. Tutto questo ha un che di surreale. Il non-vero, l’esagerato, addirittura il falso (i comunisti che “mangiano i bambini”, per esempio) scandiscono da sempre le campagne per carpire il consenso.
Tuttavia conferire ai tutori della giustizia costituzionale il controllo della verità del dibattito pubblico e la certificazione della veridicità dei prodotti della comunicazione politica conduce dritti verso uno stato autoritario. Già Gramsci aveva intuito quanto la radio e la “stampa gialla” contassero nelle credenze collettive fino ad apparecchiare “colpi di mano elettorali”. Naturalmente egli non si appellava alle alte magistrature allo scopo di dirimere un nodo che poteva essere spezzato solo dalla organizzazione diffusa della soggettività politica, per rimediare ai guasti di una società atrofizzata in seguito alla scomparsa di “ogni movimento vertebrato”.
Fra le censure più pesanti piovute sull’esponente della destra radicale rumena, che per pochi punti percentuali (con un misero 23%) ha prevalso al primo turno, spiccano il vezzo di rivolgersi enfaticamente a Dio, il richiamo costante ai sacri valori della tradizione e una sospetta ammirazione nutrita per Putin. Con lo stesso metro di valutazione, occorrerebbe (senza scomodare il redivivo Trump o la Brexit) infirmare le tornate che avvantaggiarono Orbán e le sue crociate, la Le Pen rinfrancata dai prestiti orientali, la Meloni urlante sui palchi andalusi, Salvini col rosario, l’AfD nostalgica. Pensare, alla maniera di Hegel, che le masse siano una moltitudine informe, un aggregato atomistico che non sa quel che vuole, e pertanto in vista dei suoi pronunciamenti richiede il premuroso scudo dei guardiani con la toga, è già la dichiarazione di un fallimento strutturale della democrazia.
In presenza di ben altri antagonisti, che marciavano con i vessilli del partito-milizia nel pieno della crisi che stava trascinando la Repubblica di Weimar alla tragedia, Hans Kelsen negava qualsiasi fascinazione per la “democrazia protetta” e per le neutralizzazioni affidate a momenti tecnici. “Una democrazia che cerchi di affermarsi contro la volontà della maggioranza, di affermarsi con la forza, ha cessato di essere democrazia. Un potere popolare non può continuare ad esistere contro il popolo. E non deve nemmeno tentarlo: chi è per la democrazia non può farsi prendere nella funesta contraddizione di ricorrere alla dittatura per difendere la democrazia. Bisogna rimanere fedeli alla propria bandiera anche quando la nave affonda” (Kelsen, Difesa della democrazia).
Convivere con l’incerto, che è insito nelle abituali oscillazioni del criterio di maggioranza, e insistere qualora con la verbalizzazione dei risultati delle urne ci si imbatta nel responso sgradito offerto da votanti forse condizionati, è un imperativo politico-giuridico che non consente deroghe di sorta. Se, come notava Kelsen, è precisamente con la numerazione dei suffragi che si esplica per i cittadini la “autodeterminazione politica”, nessun tribunale può invalidare lo scrutinio con il pretesto che il popolo, complice lo stordimento cognitivo indotto da un diabolico cellulare, non riconosce più cosa sia meglio per lui.