Il caso dell’istituto siciliano
La tortura in carcere come metodo: da Trapani a Milano gli abusi sono diventati modus operandi
Il caso dell’istituto siciliano, con 46 indagati e 11 agenti agli arresti, ricalca uno schema già visto, la sistematicità degli abusi racconta la normalizzazione di un “modus operandi”. E le vittime sono spesso i più fragili
Giustizia - di Sofia Antonelli
«Un girone dantesco». Così il procuratore Gabriele Paci ha definito il sistema di violenze e abusi messo in piedi all’interno della Casa Circondariale di Trapani. Sistema venuto alla luce grazie ad un’inchiesta avviata nel 2021 che vede oggi indagate 46 persone – di cui 11 agenti penitenziari agli arresti domiciliari – per vari reati tra cui tortura.
Al centro dall’inchiesta non vi sono sporadici episodi di violenza, ma una vera e propria modalità di gestione dell’intero reparto che prevede derisioni, umiliazioni, violenze fisiche. Modalità di gestione che costringe le persone detenute a spogliarsi e ad essere colpite da secchiate d’acqua mista a urina. Il teatro di questi orrori era il cosiddetto Reparto blu, la sezione di isolamento dell’Istituto. Secondo la procura, in questa sezione erano spesso collocate persone con disagio psichico, che invece di ricevere maggiori attenzioni erano vittime del sistema di violenza.
Il caso di Trapani ricalca uno schema già visto tante volte, con elementi frequenti in molti casi di (presunta) tortura. Anzitutto l’elevato numero di persone indagate e la sistematicità degli abusi commessi raccontano la normalizzazione di un modus operandi, attuato indisturbatamente per lungo tempo. Circostanze che riportano alla memoria i recenti fatti del Beccaria di Milano. Anche lì le indagini parlano chiaramente di violenza sistematica e reiterata che «connota la condotta ordinaria degli agenti che vogliono stabilire le regole di civile convivenza e imporle picchiando, aggredendo e offendendo». Un sistema consolidato che ha determinato per un lungo tempo «un clima infernale», per tornare alla retorica dantesca. Il fatto che a Trapani gli abusi siano avvenuti nella sezione di isolamento rappresenta un altro elemento comune a molti dei procedimenti per tortura.
Sempre al Beccaria, ma anche a San Gimignano, Ivrea e Torino, molte delle violenze sono state commesse in questi reparti. Questo perché i luoghi in cui si svolge l’isolamento sono spesso delle sezioni a parte, poco frequentate dal resto del personale, in cui è più facile che accadano abusi di varia natura. Spesso, come nel caso di Trapani, questi luoghi sono anche privi di telecamere. È stato infatti solo dopo le denunce di alcune persone detenute che la procura, nel corso delle indagini, ha installato le telecamere nascoste dalle quali è poi emersa la lunga serie di violenze. Il potere delle immagini è evidente. Santa Maria Capua Vetere ne è la testimonianza. I video della mattanza commessa nell’aprile 2020 nel carcere campano impressionarono il mondo intero, dando avvio al più grande processo di tortura attualmente in corso in Europa.
Altro elemento tristemente comune a numerosi fatti di tortura sta nella fragilità delle vittime prescelte. Tra la ventina di casi emersi dalle indagini di Trapani, si parla di persone con disagio psichico, persone con ulteriori difficoltà rispetto al resto della popolazione detenuta. È proprio nei confronti delle persone più deboli che più di frequente si verificano gli abusi. Non è un caso che tra le vittime di tortura vi siano persone con problematiche psichiatriche, come nel carcere di Trapani, persone straniere, come il signore incappucciato e picchiato nel carcere di Reggio Emilia, o addirittura ragazzi minori, come nel Beccaria. Non si tratta di una coincidenza, ma del peggiore sintomo di un sistema che troppo spesso risponde con il pugno duro ad ogni forma di marginalità.
Se c’è qualcosa di positivo rispetto a quanto accaduto a Trapani, è il ruolo del Nucleo Investigativo della Polizia Penitenziaria, che ha partecipato alle indagini, facendo venir meno quello “spirito di corpo” che in passato si era registrato. Non è il primo caso in cui torture e violenze emergono grazie agli operatori penitenziari. Nel carcere di Bari erano state la direttrice e la comandante del corpo di polizia a denunciare i fatti. Le indagini su Trapani e i numerosi procedimenti in corso dimostrano non solo che la tortura esiste, ma che, grazie all’introduzione del reato nel 2017, è possibile perseguirla. Chi subisce violenza in carcere deve poter contare su uno strumento forte, che oggi incoraggia, più di prima, la tendenza a denunciare questi episodi.
*Associazione Antigone