Il caso in Italia
Il reparto nel carcere di Trapani dove non batte il sole
È l’isolamento. Si trova nella parte più bassa e buia dell’istituto, le celle misurano 2 metri per 4. Nella cella 7 c’è Domenico che dice: “Mi impicco tutti i giorni”
Giustizia - di Sergio D'Elia
La sezione porta il nome del colore del mare quando è calmo e del colore del cielo quando è sereno. Ma il blu non si addice proprio alla realtà di un luogo di isolamento dove non splende mai il sole, l’anima è sempre in pena, il contatto umano è ridotto a zero. È una pena dell’anima non solo per l’uomo privato della libertà, ma anche per il suo custode, condannato innocente a un lavoro forzato alla vista quotidiana del degrado umano e ambientale.
Non basterebbe la sentenza europea più illuminata e generosa a risarcire il danno che un solo giorno di “vita” nel “reparto blu” del carcere di Trapani provoca al detenuto e al “detenente”. Il prezzo della tortura, del trattamento inumano e degradante inflitto all’uno e all’altro, è impagabile. Il reparto si trova nella parte più bassa, buia e sperduta del carcere. Le celle misurano due metri per quattro. La luce filtra a mala pena da una finestrella di 50 centimetri per 40 posta in alto a 25 centimetri dal soffitto. Una fila di sbarre e l’aggiunta di una rete a trama molto fitta impediscono anche all’aria di scorrere libera. Nella stanza, tutto è piantato alla parete o al pavimento di cemento: branda, tavolo, sedile, armadietto, lavabo.
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Il “cesso” è a vista: a volte si tratta di una tazza, altre volte il water è incastonato in un blocco di cemento, altre ancora il gabinetto è alla turca. L’ora d’aria può avvenire uno alla volta in una vasca di cemento di due metri per nove, con le mura altissime e la rete sopra come quella di un pollaio. In fondo al cortile c’è una piccola tettoia per ripararsi dalla pioggia e una “turca” per i bisogni senza un rubinetto da cui scorra dell’acqua. Nella cella numero 7 è rinchiuso Domenico, che parla in continuazione. È in cura psichiatrica da un anno e mezzo, e attende che si liberi un posto nell’Articolazione Tutela Salute Mentale di Barcellona Pozzo di Gotto. Nel frattempo continua a compiere atti di autolesionismo. È pieno di cicatrici soprattutto sulle braccia. “Mi taglio tutti i giorni, mi impicco tutti i giorni. Sei o sette volte sono riuscito ad andare in ospedale, uscendo da questo inferno”. Due settimane fa ha tentato nuovamente il suicidio. Per questo è sorvegliato a vista.
La scena della cella numero 15 è davvero dura da sopportare. L’ambiente è cupo, sporco, maleodorante. Dal nome sulla targhetta, Momodou, si capisce che la persona è arrivata in Italia dopo chissà quali traversie da un paese dell’Africa nera. È da molti mesi in questa cella, quasi sempre appollaiato sull’angolo del tavolo di ferro piantato al muro. È nudo e con una coperta sulle spalle. Non parla, a tratti biascica qualcosa, ha una piccola reazione solo alla pronuncia del suo nome di battesimo. La branda di ferro fissata al pavimento è priva di materasso, lenzuola e cuscino. C’è un water ma Momodou non lo usa. I suoi bisogni li fa per terra, sul tavolo, addosso. Dal cancello esce un rivolo di urina. È un altro evidente caso psichiatrico, anche se una perizia lo ha dichiarato del tutto capace di intendere e volere.
In questo “manicomio” c’è anche Gabriele, un ragazzo di 24 anni che però – caso più unico che raro – è capace sia di intendere sia di volere. Nel “reparto blu” non è possibile fare la spesa alimentare; si può acquistare solo acqua, bagnoschiuma, sigarette; pure il caffè, anche se non si può usare il fornellino. Per cui il detenuto usa uno stratagemma riempiendo un pentolino d’olio, dando fuoco a pezzetti di carta e piazzandoci sopra la moka: “e il caffè dopo un po’ se ne esce”. Gabriele è da due anni e mezzo nell’istituto di Trapani e ha una condanna a una pena di 15 anni. Ha già fatto il secondo superiore e intende prendere l’indirizzo alberghiero o per geometri. Si augura sia accolta la sua istanza di trasferimento nelle case di reclusione di Noto o di Brucoli. “Ho bisogno di preparare il mio futuro e sono disposto anche ad andare lontano dalla famiglia in reclusori del Nord per avere maggiori possibilità di studio e di lavoro.”
È la seconda volta in quattro mesi che visitiamo il carcere di Trapani e torniamo in questo reparto di isolamento, dove nulla è cambiato, che non può essere riformato, va solo abolito. Il nostro “viaggio della speranza” nei luoghi di privazione della libertà naufraga in questo cimitero dei vivi, degli abbandonati da Dio e dagli uomini. L’opera di misericordia corporale “visitare i carcerati” e il motto “despondere spem, munus nostrum” della polizia penitenziaria, paiono un’impresa vana in questo posto senza pace, senza grazia, senza speranza.
Anche se non v’è, all’ingresso della sezione, un avviso come quello sulla porta dell’inferno, la dura realtà balza subito agli occhi appena ne superi la soglia. La scritta terrificante “Lasciate ogni speranza voi che entrate” la vedi sui muri, sui volti, negli occhi degli “internati” nel manicomio che abbiamo abolito fuori mezzo secolo fa e che abbiamo oggi concentrato qui dentro, nel “reparto blu” del carcere di Trapani.