Il pot-pourri complottista
Elezioni presidenziali negli Usa: Giorgia Meloni, la trumpiana che tifa Kamala Harris
Nel salotto di Vespa Giorgia Meloni denuncia il presunto complotto delle toghe ma poi sulla sanità le rema contro anche la calcolatrice: sbaglia i conti.
Politica - di David Romoli
Le interviste e i comizi della premier sono sempre più una lista di nemici e cospiratori ai suoi danni contro i quali urge muovere guerra. La lunga intervista a Porta a Porta non ha tradito le aspettative anche se, per una volta, Giorgia ha tenuto a freno la lingua parlando dell’opposizione. Forse perché sarebbe stato sparare sulla croce rossa, dato lo stato in cui l’opposizione versa come coalizione se non come singolo Pd, che da solo può ben poco.
Più probabilmente perché a modo suo, cioè ruggendo, al Pd la presidente sta chiedendo un favore e un aiuto, in nome – va da sé – “della nazione”, mica del governo. Il Pse intende giubilare la candidatura a vicepresidente della Commissione europea di Raffaele Fitto. Non che la carica significhi molto nel concreto ma Giorgia ci tiene moltissimo in termini di lustro e sa che solo il partito di Elly, delegazione più folta del Pse può metterci una buona parola. Su tutti gli altri la presidente in stato di assedio permanente spara a zero. Forse, come sospettano in molti, c’è davvero un po’ di calcolo, la convinzione che così facendo si ramazzino consensi. Ma è probabile che ci sia qualcosa di più sincero e dunque di più temibile, una sorta di mania di persecuzione che la porta a vedere pericoli anche dove non ce ne sono o manovre dove c’è solo venalissimo interesse.
Sul dossieraggio è impeccabile quando sostiene che le banche dati sono oggi come gli appartamenti per gli svaligiatori: contenitori da scassinare per appropriarsi del contenuto, pellicce o informazioni fa poca differenza, e poi rivenderlo. Poi però sente l’urgenza di specificare che il pericolo non sono gli hacker, cioè gli scassinatori, ma i funzionari infedeli dello Stato e quelli di più alto grado che dovrebbero sorvegliare e chiudono tutti e due gli occhi. Il nemico ci ascolta. Il nemico ci spia. Contro i sindacati, poi, va sul velluto. Persino gli opinionisti che hanno fatto del bersagliarla una professione e quasi un’ossessione quando sentono la parola “sciopero” e avvertono lo sgradito olezzo del conflitto sociale vacillano, anzi crollano.
La manovra certo è repellente, ma lo sciopero generale quello mai. Che ci faccia o che davvero tema supercomplotti quando vede ombre ovunque, il nemico numero uno la premier lo ha individuato nel potere togato e in quel caso non si tratta di un fantasma, essendo stata per decenni la magistratura un potere realmente imbattibile. Un po’ per questo, un po’ perché FdI non è la Fi di Berlusconi e non è animata dalla stessa ostilità nei confronti delle toghe, quello scontro all’inizio Giorgia aveva cercato di evitarlo. Fra le tre riforme promesse, quella della giustizia, la separazione delle carriere, era la tela di Penelope, puntualmente rinviata a data da destinarsi.
Le cose sono cambiate. Prima lentamente, poi, dopo il caso dell’Albania a rotta di collo, Giorgia si è convinta di dover regolare i conti prima di tutti proprio con la magistratura in una sorta di Armageddon referendario. La separazione delle carriere in sé non lede affatto l’indipendenza della magistratura. Ma il fatto stesso che i magistrati assegnino da sempre a quella riforma un’importanza capitale rende la sfida simbolicamente decisiva. Nordio va oltre, chiede la battaglia in campo aperto, il referendum. La premier è visibilmente molto meno convinta. Se si potesse evitare lo preferirebbe di gran lunga. Ma Giorgia sa che evitare l’ordalia sarà molto difficile, prima sulla separazione delle carriere, poi sul premierato e pur di stroncare quella che oggi considera la minaccia più temibile è pronta a correre il rischio. Tanti nemici, qualche amico. Solo che c’è il caso che gli amici si rivelino più pericolosi dei nemici.
Le posizioni di Donald Trump sono molto vicine a quelle della presidente del Consiglio su quasi tutto. Lei non si schiera, giustamente sottolinea che il governo italiano lavorerà benissimo con chiunque vinca le elezioni del 5 novembre. Ma è probabile che in cuor suo si auguri che a vincere non sia il sovranista d’oltreoceano ma la vicepresidente in carica, che pure ha su quasi tutto una visione opposta alla sua. La vittoria di Trump sottrarrebbe a Meloni la carta magica che le ha aperto tutte le porte, le ha garantito lo sdoganamento internazionale in tempi record, la protegge ancora, in Europa, da ogni assalto troppo pernicioso: lo schieramento senza esitazioni o distinguo a fianco dell’Ucraina, l’estremismo atlantista che ha subito abbracciato quando era all’opposizione e ha poi mantenuto anche dopo aver vinto le elezioni.
Meloni sa che i leader di riferimento del presidente americano, se questi si chiamasse Donald, sarebbero Orbàn in Europa e Salvini in Italia. Nessuna delle due cose le fa alcun piacere e la seconda meno della prima. Certo, la postazione di capo del governo italiano da un lato e la tela che ha già cominciato a tessere con Elon Musk dall’altro la aiuteranno a reagire e non è affatto escluso che riesca a rovesciare un quadro in partenza sfavorevole. Ma sarà nella migliore delle ipotesi un lavoraccio dall’esito incerto. Il presidente degli Stati Uniti sovranista, anti-immigrati, tradizionalista e anzi reazionario non può figurare però in ogni caso nella lista dei nemici. L’unica è tenere le dita segretamente incrociate e fare gli scongiuri.