Il nuovo Cpr in Albania

Edi Rama, un dandy (come quello della banda della Magliana…) che giocava a fare il rivoluzionario

Piantedosi definisce la galera albanese un “hotel a 5 stelle”, ma è un lager. Come nei lager nazisti la gente ci finisce imprigionata e senza aver commesso crimini

Esteri - di Luca Casarini

18 Ottobre 2024 alle 15:30

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Foto: Boglarka Bodnar/MTI via AP – Associated Press / LaPresse
Foto: Boglarka Bodnar/MTI via AP – Associated Press / LaPresse

I giudici della sezione speciale del Tribunale di Roma oggi devono convalidare o meno i fermi per i 14 deportati in Albania. La speranza è che rigettino il provvedimento facendo fede ad un obbligo, quello definito da un recente pronunciamento della Corte di Giustizia Europea, che ha già stabilito che per la normativa europea, non esiste la possibilità di trattenere per rimpatrio una persona se il suo paese d’origine non è “sicuro”. E né l’Egitto, né il Bangladesh, paesi da cui provengono questi primi deportati, possono essere considerati tali.

La strategia del Viminale per la deportazione dei migranti

È un test importante per saggiare la solidità della strategia messa a punto dai tecnici del Viminale che hanno lavorato alacremente in questi mesi per fornire alla premier il suo trofeo: la deportazione, finalmente, dei migranti che arrivano via mare, in un campo di concentramento esterno ai confini. Certo, si tratta di “deportazione legale”, e anche il campo di concentramento “non è con il filo spinato”, come ha ironizzato Piantedosi. No, è un campo moderno, con i muri di recinzione alti sei metri, con i check point, le celle organizzate con moduli prefabbricati, e – pensate – all’ingresso a questi primi sfortunati reclusi, che sono passati dai lager libici a questo “hotel a cinque stelle”, “vengono forniti vestiti nuovi”.  L’essenziale, di un campo di concentramento di vecchia concezione o moderno che sia, è che chi vi è internato non possa uscirne, perché impedito da sbarre, muri, militari armati, telecamere, luci fotoelettriche issate sulle torrette di guardia.

Altro fondamentale aspetto, che sia vecchio o nuovo? Che ti ci portano con la forza, che tu sia disponibile o no. Se non ti arrendi, come hanno dovuto fare questi ragazzi che l’altro ieri si vedevano entrare a testa bassa, scortati da celerini con il classico guanto di pelle nera e il manganello pronto, ti ci portano di peso. O a forza di botte, facendo attenzione a colpirti all’addome, sui fianchi, in modo che non si producano ferite visibili. Tu, deportato, non decidi più niente di quello che farai. Il tuo corpo deve rimanere docilmente disponibile alle decisioni che altri stanno prendendo su di te, come capitava in quella Libia, quell’inferno, dal quale avevi pensato di esserti liberato per sempre. E invece no, in modo sempre moderno e pulito come il cesso in alluminio sul quale potrai pisciare nella tua cella, tutto attorno è un contenitore di corpi che non possono decidere nulla sul che fare, di “nuda vita”, spogliata del diritto primario, la libertà.

Le condizioni nei centri per il rimpatrio

Il campo di concentramento, anche se il suo nome è anch’esso nuovo – ora si chiamaCpr”, “Centro per il Rimpatrio – ha un altro tratto fondamentale che lo caratterizza nel mutare delle epoche: chi vi finisce dentro, non ha commesso alcun reato. Da tempo immemore vi vengono internate persone di etnie diverse da quella del paese che lo istituisce, e questo è l’unico criterio non modificabile, in mezzo a variabili di volta in volta scelte a seconda del momento. “Maschio adulto non vulnerabile” è la variabile: che sei un bengalese, un egiziano, un tunisino, un nigeriano o qualcuno che è nato in uno dei 22 paesi della lista degli internabili compilata dal Viminale, è invece il fondamento. Devi essere “non vulnerabile” prima dell’ingresso. Poi se lo diventi, e lo diventi di sicuro un minuto dopo, anche solo quando getti il primo sguardo su quel “non – luogo”, sono affari tuoi. La tua vulnerabilità, la tua fragilità, quella che hai percepito dentro di te mentre attraversavi il deserto mollato a metà dai trafficanti, quel terrore che ti assaliva quando le guardie libiche ti prendevano e ti sbattevano a terra a calci prima di massacrarti con i tubi di ferro, beh, non conta niente per chi decide che “non sei vulnerabile”. È questo il bello del campo di concentramento: vi lavorano persone che possono decidere non solo cosa far fare al tuo corpo, ma anche cosa ti rende vulnerabile o meno. Decidono loro, e non sono come quei puzzolenti avanzi di galera dei libici: profumano di doccia appena fatta, di dopobarba, e ti trattano con i guanti, quelli in lattice.

Il ruolo dell’Albania nella gestione dei migranti

La “campagna d’Albania” è una cosa seria per la Meloni. L’unica che le dà soddisfazioni in fondo. Quel timido sapore coloniale, come fosse il riscatto del fallimento del 1939, a una che è cresciuta a colpi di “boia chi molla”, deve fare effetto. È da quel periodo che il nostro paese, anzi, “la nazione”, non aveva un campo di concentramento suo in un altro paese, peraltro fuori dai confini Ue. Un paese, l’Albania, che ha un premier ganzo, un vero e proprio “dandy” del socialismo: l’ho conosciuto a Parigi, quando da studente fuoricorso di architettura, giocava a fare il rivoluzionario e frequentava i seminari tenuti da Toni Negri e altri esuli di mezzo mondo. Ho capito dopo molti anni, quando è diventato sindaco di Valona, che era sì un “dandy”, ma tipo quello della banda della Magliana. Uno “zanza” si direbbe dalle mie parti, uno a cui piace tanto tirarsela, e per fare questo si getta anche in situazioni sempre al limite. In questo caso, per fare bella figura con una burocrazia europea che non sembra molto incline a chiudere gli occhi davanti a dissesto finanziario, poca trasparenza sugli appalti, frequentazioni “pericolose”, si è prestato allo show meloniano.

Ma che problema c’è – dice Rama – non li avete anche in Europa tutti questi centri? E poi, quello che succede lì dentro, sono affari degli italiani. Non mi riguarda”. Eccolo, il presidente di un paese i cui cittadini hanno inondato l’Italia trent’anni fa, da migranti “clandestini”, pronto finalmente al riscatto. Finalmente l’Albania passerà alla storia come quel luogo dove venivano deportati e incarcerati i clandestini. I più spietati con i poveri si dice, sono gli ex poveri. Troveranno in tanti il loro riscatto. I fascisti, che possono finalmente gioire di una cosa davvero fascista e del nuovo millennio, la cancellazione del diritto di asilo e la “libizzazione” del Mediterraneo tutto, gli Edi Rama, che da che non se lo cacava nessuno, ora sarà nientemeno che “uno dei partner dell’Europa più affidabili”. Von der Leyen, che se il polacco Tusk gli porta i migranti a Bruxelles come ha minacciato, può sempre dire di aver organizzato la loro accoglienza in Albania, aprendo peraltro la strada a una governance politica di tipo nuovo dopo la sua elezione.

Le implicazioni politiche e sociali della nuova legge

Gli unici che non potranno riscattare niente, sono quei sedici esseri umani che passeranno alla storia senza che nessuno conosca nemmeno i loro nomi. Loro sono l’oggetto, non il soggetto. Sono carne da cannone, come lo sono i civili e i sodati di trincea in guerra. I campi di concentramento, in effetti, ricordano la guerra. Quegli stessi campi nei quali furono internati i cittadini giapponesi che risiedevano negli Stati Uniti, dopo Pearl Harbour. Quei campi degli “italiani brava gente” in Etiopia e in Jugoslavia. L’unica storia onorevole che hanno visto quei campi, e tutti i campi di ogni epoca, è scritta con gli episodi di fuga di chi ci era costretto dentro, piccoli e grandi, organizzati da dentro o da fuori o insieme. La pagina più onorevole, e della quale andare orgogliosi in ogni epoca, è quando queste prigioni vengono abbattute, distrutte. Per fare spazio a un mondo nuovo. Dobbiamo ancora scriverla in questo nostro tempo.

18 Ottobre 2024

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