L'addio a 90 anni

Chi era Toni Negri, intellettuale visionario e rivoluzionario: “cattivo maestro” per i paladini dell’ordine costituito

Intellettuale di livello altissimo, rivoluzionario vero, sempre coerente, sempre sovversivo, sempre perseguitato e vittima di un processo ingiusto e di una lunga carcerazione. Operaista, comunista, visionario

Editoriali - di David Romoli

17 Dicembre 2023 alle 15:51

Condividi l'articolo

Chi era Toni Negri, intellettuale visionario e rivoluzionario: “cattivo maestro” per i paladini dell’ordine costituito

Intellettuale, e di quelli che lasciano un segno profondo. Docente universitario, il più giovane d’Italia quando nel 1967 ottenne la cattedra di filosofia politica nella facoltà di Scienze politiche a Padova.

Militante, e non da salotto, di quelli che andavano di fronte alle fabbriche del Veneto, a Porto Marghera, negli anni ‘60, per innescare incendi ma anche per imparare perché il conflitto di classe, pensava e praticava, non è materia che si possa studiare a tavolino.

Leader politico, teorico marxista che sfidava i canoni scolastici del marxismo forzandoli fino all’estremo, detenuto politico, parlamentare eletto grazie a uno di quei colpi di genio in cui eccelleva Marco Pannella, poi esule, autore di best sellers, il suo Impero è diventato un classico su entrambe le sponde dell’Atlantico.

Ma anche uomo di mondo, gran conversatore, amante del convivio e della compagnia. Una sola vita sarebbe andata stretta ad Antonio Negri: ma chi mai lo ha chiamato così, per tutti è sempre stato Toni. E’ morto ieri, a Parigi, all’età di 90 anni. Ne ha vissute tante di vite e allo stesso tempo sempre la stessa: la vita di un rivoluzionario che non faceva distinzioni tra pensiero e azione, perché l’obiettivo era sempre lo stesso: rovesciare e cambiare radicalmente “lo stato presente delle cose”.

Dunque un comunista fino all’ultimo giorno. Ma di quelli eretici, quanto di più distante dalla galleria museale che ci viene in mente quando parliamo di comunismo. Toni Negri è stato un maestro, su questo almeno il verdetto è unanime.

Molti lo consideravano e lo considerano il “cattivo maestro”, ultimo, proprio ieri, il ministro della Cultura Sangiuliano, e fa un po’ impressione sentire un ministro mediamente colto vergare giudizi su un uomo dalla cultura onnivora ed enciclopedica come Negri, il cui libro su Leopardi, Lenta Ginestra, o quello su Spinoza, L’anomalia selvaggia, basterebbero a garantirgli un posto di primo piano nella storia della cultura italiana anche senza il resto della sua foltissima produzione.

Ma il ministro, e con tutto il coro che da decenni definisce così Negri, ha ragione. Per chiunque identifichi il bene con l’ordine e la stabilità, Toni Negri è stato davvero un cattivissimo maestro, il peggiore di tutti, dunque il migliore per chi, al contrario, credeva o crede nella forza dinamica del conflitto e del disordine.

Toni Negri era un sovversivo e non lo nascondeva. Come poteva non essere detestato dai paladini dell’ordine costituito, a destra ma anche a sinistra e in alcune fasi più a sinistra che a destra.

Fu la sinistra, fu il Pci a fornire gli elementi, peraltro falsi, che il 7 aprile 1979 portarono al suo arresto con capi d’accusa da brivido: Negri come capo di tutta la sovversione italiana, dell’Autonomia, delle Brigate Rosse, degli altri gruppi armati che proliferavano in quel momento in Italia.

Quel processo ha fatto, in negativo, la storia della giustizia italiana, ha segnato un punto di non ritorno. Le imputazioni ridicole cadevano una dopo l’altra solo per essere sostituite con nuove accuse, senza mai revocare la carcerazione preventiva. Ma Negri di prigione ne ha fatta tanta.

Nel 1983 i radicali lo candidarono e fu eletto. La Camera, pochi mesi dopo, votò l’autorizzazione all’arresto, e in quell’occasione il Pci votò invece per una sospensiva fino alla sentenza di primo grado. Non passò la mozione del Pci perché i radicali si astennero.

A Pannella interessava montare il caso non vedere Negri libero, bisognava farne un simbolo. Lui invece fuggì in barca, nella stessa notte del voto, grazie all’aiuto dello scrittore rivoluzionario Nanni Balestrini. In quell’occasione Giancarlo Pajetta sputò in faccia al leader radicale. “Fece bene”, commentò anni dopo il diretto interessato.

Capo delle Br, eminenza grigia della lotta armata, puparo del terrorismo rosso Negri non lo era né lo era mai stato. Non significa che fosse estraneo a quegli ambienti. Aveva incontrato più volte i capi delle Br. L’Autonomia che a lui faceva capo accettava la violenza e spesso la prarticava.

Quel che a Negri non sarebbe però mai passato per la mente era una lotta rivoluzionaria confinata nelle gabbie della clandestinità, ridotta a una serie sterile di attentati quotidiani, staccata dalle lotte concrete e reali della classe operaia. La sua dissociazione dalla lotta armata, per la quale è stato messo in croce dall’ala più rigida della sinistra radicale, era in realtà nell’ordine delle cose e neppure non somigliava neppure a una resa.

Negri è stato, con Raniero Panzieri e con Mario Tronti, uno dei padri di quella originale e fertice corrente di pensiero che si definisce “operaismo”. Prima cattolico, poi socialista, mai iscritto al Pci, aveva studiato nei Quaderni Rossi di Panzieri la nuova composizione della classe operaia, quella che vedeva l’antica centralità degli operai ad alta professionalità sostituita dalla massa dequalificata degli operai di linea, spesso immigrati provenienti dal sud, l’Africa d’Italia.

Dopo la rottura con Panzieri aveva dato vita a un periodico altrettanto influente, Classe Operaia, e poi, con Cacciari e Asor Rosa, a Contropiano. Ma per Negri non era neppure immaginabile intervenire sulla realtà con la penna e non anche con la pratica quotidiana del conflitto: il periodico Potere operaio veneto-emiliano, a cui aveva dato vita con altri intellettuali militanti come Luciano Ferrari Bravo e con militanti operai di Marghera non era un foglio teorico.

Voleva organizzare le lotte e fu negli anni ‘60 una delle fucine della rivolta del ‘68 e soprattutto di quella operaia del ‘69. Negri fu uno dei leader di Potere Operaio e proprio il conflitto tra la sua visione, che vedeva le assemblee autonome operaie centrali, e quella più leninista e gerarchica di Franco Piperno fu all’origine dello sfaldamento di quel gruppo, nel 1973.

Negli anni successivi, quelli dell’Autonomia, Negri ha prodotto alcune delle sue cose meno brillanti, non a caso forse quelle più note e citate, con quel notissimo passaggio tratto dal pamphlet Il dominio e il sabotaggio: “Tutte le volte che mi calo il passamontagna sento il calore della comunità operaia”.

Ma gli stessi anni registrano anche alcune delle sue intuizioni più lucide, come l’emergere di una nuova figura, che chiamò l’operaio sociale, destinata a sostituire l’operaio di linea, l’operaio-massa come lo si chiamava con orrida terminologia, che era stato protagonista assoluto degli anni ‘70.

Decenni di successivi dibattiti sul capitalismo postindustriale, sulla fine della centralità della fabbrica, sull’abbattimento della distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro, erano già tutti presenti, in nuce, in quelle riflessioni interrotte dalla montatura giudiziaria del 7 aprile.

Le avrebbe riprese anni dopo, dalla Francia, con la rivista Futur Antérieur, con i libri di enorme successo scritti con Mickey Hardt, Impero e Moltitudine. In Francia era diventato amico degli intellettuali rivoluzionari d’oltralpe Deleuze e Guattari, aveva approfondito e assimilato alla sua visione di marxista eretico Foucault e la biopolitica.

Sembrava che per Negri gli anni non passassero, invecchiava senza perdere lucidità né energia. E’ morto a 90 anni senza aver mai perso un colpo, dopo aver vissuto la vita che voleva avere: quella di un grande intellettuale e di un instancabile militante rivoluzionario comunista.

17 Dicembre 2023

Condividi l'articolo