La scomparsa del campione

Chi era Totò Schillaci per gli italiani: addio al Re delle Notti Magiche, quando eravamo un popolo di sognatori

Gli saremo sempre grati perché incarnò il miraggio fugace del ‘90, l’ultimo scampolo di ottimismo di un Paese poi piombato nella crisi. Nel lampo dei suoi occhi azzurri c’eravamo tutti noi

Sport - di Filippo La Porta

19 Settembre 2024 alle 11:00

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Chi era Totò Schillaci per gli italiani: addio al Re delle Notti Magiche, quando eravamo un popolo di sognatori

Salvatore – Totò – Schillaci possedeva come giocatore un talento superbo, insuperabile? Forse no, pur avendo ovviamente qualità calcistiche (oltre che umane) innegabili. Ma ciò che conta è che ha segnato una pagina decisiva dell’immaginario nazionale. La storia dell’immaginario segue da sempre vie proprie, per noi imperscrutabili. Questa almeno la lezione del vecchio James Stewart, che impersona un senatore, nel finale del grande western L’uomo che uccise Liberty Valance (1962) di John Ford. Ma, nel nostro caso, vediamo come.

Nel 1990, dopo la esaltante caduta del Muro di Berlino e con la percezione della fine imminente della Prima Repubblica, aveva preso di nuovo corpo in Italia un sogno comune, espressione di un’energia collettiva e di un momento di prosperità economica. Forse era l’ultima manifestazione di un ottimismo “civile”, di una ingenua fede nel progresso che veniva da lontano, che pure non era venuta meno neanche negli anni 80 degli iperconsumi e della seconda, convulsa modernizzazione del paese. Bene, quel sogno si è riflesso, per un attimo, anche negli occhi azzurri sbarrati di Salvatore – Totò – Schillaci quando segnò il primo gol di quei Mondiali di Calcio, nei quali ci fermammo in semifinale dopo gli sfortunati rigori con l’Argentina di Maradona e dei quali diventò capocannoniere con 6 reti. Ragazzo povero di Sicilia, era nato a Palermo nel 1964, se l’è portato via un tumore al colon che aveva solo 59 anni.

Centravanti svelto, efficace, scaltro, senza un grande talento, ma non importa. I suoi occhi blu – spalancati e smarriti – analoghi a quelli di Paul Newman o di Sinatra (“ol’ blue eyes”), hanno illuminato per un istante il mondo nuovo. Attraverso di lui, attraverso la sua felicità selvaggia e la sua vitalità meridiana, abbiamo tutti sognato perfino un paese più bello e più abitabile. Poi – ma non vorrei immalinconire troppo i lettori – quello che è venuto dopo è stato perfino peggio di quanto c’era prima. Il sogno andò subito a male: oltre una patina ingannevole di rinnovamento, di quel passato furono spesso trattenuti i vizi peggiori, soprattutto rimuovendo una promessa che, benché disattesa, era pur in esso contenuta (una promessa di giustizia, di legalità…).

Quando segnò il primo gol di quelle Notti Magiche Schillaci sembrava “posseduto” – con lo sguardo spiritato – invaso da una divinità primordiale e capricciosa, in preda a un furore bacchico (“mania” la chiamava Platone) insieme poetico, orgiastico, profetico, erotico. Un invasamento che subito si trasmetteva contagiosamente a chiunque lo vedesse, e che segna una pagina del nostro immaginario collettivo. Successivamente il giocatore partecipò a vari reality e interpretò una parte in una fiction sulla mafia. Nella sua maglia n.9 di titolare della Nazionale Azzurra l’oscurità del caso, come nella tragedia greca, gioca un ruolo decisivo. Parte come riserva, perlopiù inviso all’allenatore Vicini. Poi dopo gli infortuni di Vialli e uno scontro imprevisto tra l’allenatore e il centravanti titolare, Carnevale, tocca a lui – inopinatamente – indossare quella maglia così ambita.

Ma chi scoprì Schillaci? Naturalmente Zdenek Zeman, l’immenso coach boemo che ha rivoluzionato il calcio, l’allenatore che ha la saggezza autorevole di un filosofo stoico-epicureo, capace di trapiantare il sognante Danubio nella razionalità anarcoide dell’Olanda di Michels, e che rivolse coraggiosamente il suo “j’accuse “ contro i poteri forti. Zeman lo allena prima nel Licata e poi nel Messina, dove venne scoperto dalla Juventus. Boniperti lo considerava l’erede naturale di Anastasi. In seguito giocò nell’Inter per emigrare in Giappone consolidando la sua pensione dorata, infine tornando a Palermo aprì un centro sportivo per ragazzi.

Ciò che colpisce della sua carriera calcistica è che dopo aver raggiunto i vertici – nel 1990 giunse secondo nella classifica del Pallone d’oro, dopo Matthäus – , comincia quasi subito la sua parabola discendente! Già nella seconda stagione alla Juve diventa un attaccante sterile, segnando pochissimi gol. Chiamato “terrone” dalle tifoserie avversarie, insultato e schernito in tutti i modi (“Ruba le gomme, Schillaci ruba le gomme…”), cantavano le curve tirando in ballo una storia riguardante suo fratello). Del breve periodo alla Juve restò famoso l’incidente con Baggio, che una volta, vedendolo leggere il giornale, gli chiese beffardo: “Sai anche leggere, Totò, o guardi soltanto le figure?”(almeno questa è la ricostruzione dell’episodio che ho trovato in Rete). A quel punto Schillaci sferrò un pugno al suo compagno di squadra, peraltro un giocatore di calcio insolitamente colto, particolarmente “evoluto” e di solito civilissimo. Amaro apologo: il buddhismo, di cui Baggio professa convinta appartenenza, certamente ci educa e ci migliora, ma sembra generare scarsi anticorpi nei confronti del gusto della derisione, specie quando c’è di mezzo un “terrone”. Anche se, come apprendiamo, Baggio se ne è pentito molto e oggi rivendica la sua amicizia fraterna con Totò.

Accennavo prima ai suoi (relativi) limiti tecnici, alla sua scarsa sapienza tattica, etc. Si potrebbe azzardare un parallelo con la letteratura. Agli scrittori non occorre tanto una “tecnica” – certo devono saper mettere le parole in un qualche ordine – quanto una ferma consapevolezza di ciò che vogliono fare. Come ammoniva Kurt Vonnegut se hai qualcosa da dire che ti sta a cuore, se hai ben chiaro lo scopo della tua scrittura, alla fine uno “stile” lo trovi, anche se non hai frequentato nessuna scuola di creative writing. E Totò voleva anzitutto andare in rete, con una determinazione che somigliava a una ferocia predatoria.

Saremo sempre grati a Totò Schillaci per aver incarnato – anche accidentalmente e a sua insaputa – quel sogno fugace ma non del tutto infondato, del 1990. Sì, beato il paese che non ha bisogno di eroi, come ci ricorda Galileo nel dramma brechtiano: nessuno è tenuto a essere un eroe. Però qualsiasi paese, felice e o meno, avrà sempre bisogno di eroi iconici che ne sappiano interpretare emozioni e sentimenti collettivi. E anzi, proprio la vicenda così effimera di Totò Schillaci, la sua meteora fulminante, rende ancora più mitica quella abbagliante incarnazione. Come sanno i classici, è eterno solo ciò che non lascia traccia.

19 Settembre 2024

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