La premier ritorna a Palazzo Chigi
Meloni, i guai di premier e governo dopo le “ferie estive”: la manovra è un rebus, mancano 25 miliardi
Prima il Consiglio dei ministri, poi il vertice di maggioranza. Una volta designato Fitto in Europa, la premier dovrà fare i conti con una finanziaria da tregenda: mancano 25 miliardi
Politica - di David Romoli
Giorgia Meloni rientra a palazzo Chigi e lo fa sapere con un breve video nel quale ironizza, non a torto, su quanti avevano reso una specie di scandalo politico il suo non aver comunicato l’indirizzo ai giornalisti: “Eccomi qua! Sono ricomparsa. Richiamate tutte le unità. Sono a palazzo Chigi”. Non dice molto di più la premier nel video del ritorno. Promette solo di adoperarsi con rinnovata energia, avendo “ricaricato le batterie”. Il suo rientro alla presidenza del Consiglio, del resto, non segna l’avvio della stagione politica. Quello arriverà venerdì, con la doppietta consiglio dei ministri-vertice di maggioranza. In quest’ordine per ora ma, dati i malumori della stampa, l’agenda potrebbe essere invertita.
Sedi diverse ma in entrambe, almeno ufficialmente lo stesso ordine del giorno. Il cdm ufficializzerà la designazione di Raffaele Fitto a nuovo commissario europeo poi inizierà a misurarsi con i macigni veri, cioè con la manovra. Il vertice di maggioranza probabilmente dovrà fare i conti con una lista della spesa piuttosto lungo ma in testa, assicurano tutti, ci sarà sempre la manovra. Solo che di manovra si potrà parlare solo in linea generale e in via teorica. Non è previsto infatti che siano fornite cifre di sorta e senza avere sotto mano quelle più in là delle impostazioni di fondo, insomma della cornice, non si potrà andare. Quella cornice, peraltro, è già essenzialmente nota. Per la premier i capitoli irrinunciabili sono due: il taglio del cuneo fiscale confermato anche per l’anno prossimo, senza il quale i lavoratori dipendenti si troverebbero con 100 euro in meno circa in busta paga e la prenderebbero malissimo, e gli aiuti alle famiglie, in particolare il bonus mamme, perché quella è la bandiera politica e non la si può ammainare.
Le certezze assolute sono queste ma la conferma della riduzione delle aliquote Irpef a tre è quasi altrettanto garantita. Una volta sommate le varie spese inevitabili nelle leggi di bilancio si arriva intorno ai 25 miliardi e come trovarli è ancora misterioso. Per il momento stiamo ai balbettamenti, “spending review”, “maggiori introiti dal gettito”, “tesoretti”, fantasmagorici “tagli sugli sconti fiscali”. Insomma, Giorgetti sta raschiando il fondo del barile e del resto quasi non lo nasconde. Alla fine le coperture, in un modo o nell’altro, salteranno fuori ma in questa situazione da chiari di luna le richieste di Lega e Fi hanno ben poche possibilità di essere anche parzialmente accolte. Il Carroccio insiste su quota 41, pensione dopo 41 anni di contributi ma ben sforbiciata, Fi sull’aumento delle pensioni minime.
Entrambi gli alleati vorrebbero ampliare la platea della Flat Tax al 15% portando il tetto dagli 85mila ai 100mila euro. Anche sull’Irpef i due partiti vorrebbero arrivare a coinvolgere i redditi sino a 50mila euro rispetto ai 35mila attuali. Di tutte queste richieste l’unica che Meloni e Giorgetti starebbero prendendo in considerazione è l’aumento delle pensioni minime mentre è probabile che verranno cassate alcune scelte rivelatesi poco funzionali, come l’assegno unico. Sin qui però stiamo alla norma di una classica manovra di quelle con la coperta corta e il conseguente obbligo d’austerità, come del resto nelle due precedenti varate da questo governo. Solo che stavolta le manovre sono due, pur se certamente intrecciate, e la seconda è più importante, incisiva e di lungo corso della prima.
Si tratta del Piano a medio termine che dovrà essere presentato alla Ue entro il 20 settembre per illustrare la strategia con la quale l’Italia intende rientrare nei parametri del deficit e garantire il rispetto del Patto di stabilità e che potrebbe essere presentato, in prima bozza, già nel cdm di venerdì. La procedura d’infrazione impone il rientro di almeno lo 0,5% del Pil all’anno a partire dal 2025: una dozzina di mld che peseranno eccome sulle possibilità di spesa dei prossimi anni. L’Italia però chiederà certamente di poter rientrare nei parametri in 7 anni e non i 4, essendo queste le due alternative che la Ue permette. La presentazione del Piano serve proprio ad aprire la trattativa sul quel rientro dilazionato ma è già codificato l’obbligo, per ottenere i 7 anni, di impegnarsi a varare riforme strutturali concordate, ma in buona misura dettate, dalla Ue. Insomma, ancora per quest’anno si può restare nell’austerità. Poi arriveranno le lacrime e il sangue.