Il leader dell’area liberal del Pd
“Meloni rende la ‘nazione’ ininfluente: riforme inesistenti e Pnrr in ritardo”, parla Enrico Morando
“Diritti ai migranti e riforme sul lavoro: finalmente il Paese è pronto per questa scelta di civiltà. Sosteniamo il referendum contro l’autonomia differenziata ma non per colpire la Costituzione. Le alleanze politiche sono fondamentali e per il centro-sinistra il Pd può essere il partito-perno”
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Enrico Morando, leader dell’area liberal del Partito democratico, tra i fondatori dell’associazione di cultura politica Libertà eguale, già viceministro dell’Economia e delle Finanze nei governi Renzi e Gentiloni: autonomia differenziata, Ius scholae, lavoro, pace… Quali le sfide più “roventi” per un autunno che si prospetta politicamente molto caldo?
Rispondo mentre il piano Blinken per la tregua a Gaza è stato accettato dal governo israeliano e mentre l’offensiva dell’esercito ucraino nella regione di Kursk, riequilibrando i rapporti di forza sul terreno, sembra aprire un piccolo spiraglio per l’avvio di effettivi negoziati tra l’aggressore e l’aggredito. La pace resta lontanissima, ma si può sperare che i prossimi mesi vedano questi spiragli trasformarsi in una solida prospettiva di tregua, con la diplomazia che prende progressivamente il posto dello scontro aperto. Resta, priorità delle priorità, l’esigenza di lavorare alla costruzione di una nuova architettura di sicurezza globale, dopo che l’offensiva di Putin e il cementarsi di una alleanza delle autocrazie ha posto definitivamente in crisi quella post-guerra fredda. Sono cadute vecchie certezze (la guerra in Europa? Impossibile) e sono venute meno “comodità” in cui ci siamo adagiati (la sicurezza? Ci pensano gli Usa; l’energia? Il gas russo è tanto e costa poco; la crescita economica? Facciamola trainare dalle esportazioni). Si impone un mutamento radicale di paradigma. E le democrazie dell’Unione europea non hanno molto tempo per metterlo in atto.
Su tutto questo incombe il voto americano di novembre…
Esatto. La scelta generosa di Biden – che è stato a mio giudizio un grande presidente – ha riaperto una partita che sembrava avere un esito scontato… La sinistra di governo europea ha ora un compito molto importante: rendere evidente a tutti i cittadini europei che la vittoria di Harris crea le condizioni perché si consolidi il rapporto euro-atlantico, nella costruzione di quella nuova architettura di sicurezza di cui c’è bisogno. Anche gli europei che votano a destra possono convincersi che la vittoria di Harris “conviene” – perché mantiene gli Usa sulla posizione che Biden ha scelto con l’alleanza delle democrazie -, mentre quella di Trump, per esplicita ammissione dell’ex-presidente, può provocare sconvolgimenti pericolosissimi.
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Torniamo all’autunno italiano… È in corso la raccolta di firme per il referendum sulla legge Calderoli in tema di autonomia differenziata.
Con Giorgio Tonini, qualche giorno fa, abbiamo reagito all’affermazione del presidente del comitato promotore, secondo il quale l’obiettivo politico del referendum non è solo – e non è tanto – la legge Calderoli, ma l’articolo 116 della Costituzione, se non l’intero Titolo quinto della stessa: “nel 2000 si è cercato di introdurre una riforma concettualmente sbagliata che adesso viene utilizzata…”. Una riforma, conclude il presidente Flick, “che è stata un disastro”. Con Tonini, abbiamo messo in evidenza che, spiegata così chiaramente e così autorevolmente, l’iniziativa referendaria non è condivisibile da chi non auspichi una stretta centralistica. La nostra presa di posizione ha avuto qualche effetto, perché in molti, nel Pd, hanno difeso la scelta del sostegno al referendum come iniziativa volta a colpire la legge Calderoli, non la Costituzione. Hanno utilizzato noi come donna dello schermo al posto del Presidente del comitato…, ma questo si può comprendere.
Le chiedevo anche dello Ius scholae e del lavoro…
Qui, alla riapertura del Parlamento, si potranno ottenere risultati importanti. A qualcuno sembrerà improprio questo accostamento, ma credo che i grandi risultati ottenuti dai nostri atleti alle olimpiadi di Parigi abbiano creato nel Paese il clima giusto per una scelta di civiltà che in passato – anche per un eccesso di timidezza del centrosinistra – , non siamo stati capaci di compiere. Questi ragazzi sono italiani, sono gli amici dei nostri figli e dei nostri nipoti, cantano con orgoglio il nostro inno… Cosa si deve ancora aspettare? Sul lavoro, continuo a pensare che la giusta battaglia per il salario minimo per legge debba essere inserita nel contesto di una più generale iniziativa per il riequilibrio del rapporto tra profitti e salari, a vantaggio di questi ultimi. Non è solo materia del sindacato: c’è il ruolo che può svolgere la politica fiscale e, soprattutto, c’è l’urgenza di aprire nuovi spazi di democrazia economica. Dalla partecipazione dei lavoratori agli utili di impresa, a forme avanzate di welfare aziendale, fino alla presenza dei lavoratori nei consigli di sorveglianza. È un terreno su cui dobbiamo camminare speditamente, anche grazie a nuove norme sulla rappresentanza. Di tempo ne abbiamo perso anche troppo.
L’Europa si appresta a presentarci i conti, sul Pnrr e su altro. Romano Prodi ha sconsolatamente rilevato che l’Italia nel consesso internazionale è ininfluente. Un destino cinico e baro?
Veramente, siamo noi che dobbiamo presentare i conti in Europa. In primo luogo, lo stato di attuazione del Pnrr. Il tempo stringe (tutto finito nel 2026) e non è stata una buona idea impiegare un anno e mezzo per cambiare il Pnrr, togliendo i progetti dei Comuni, che ora scopriamo essere tra quelli che camminavano più speditamente. Né è stata una buona idea ridurre drasticamente la trasparenza sullo stato di attuazione. Non dobbiamo dimenticarci che proprio il Pnrr è quello che ha dato all’Italia, per tutta la legislatura di Meloni, quella politica fiscale ultra espansiva che non ci siamo potuti permettere nel recente passato. Speriamo che non sprechino questa occasione d’oro. Ne va della possibilità di continuare, fino al 2026, quel ciclo degli investimenti che Industria 4.0 ha aperto. Il secondo “conto” da presentare in Europa è il programma settennale di riforme e finanza pubblica che impegna il Paese ben oltre la fine della legislatura corrente. Qui, come recita un antico detto popolare, il governo ha sbagliato il primo bottone della bottoniera: non ha presentato il Def nella primavera scorsa. Col risultato che ora, senza alcun confronto pubblico, col Parlamento chiuso, il governo deve preparare per settembre un piano settennale di riforme e di finanza pubblica che obbedisca alle nuove regole del Patto di stabilità, note dai primi giorni della primavera scorsa e approvate poco dopo dal Parlamento europeo. Immagino che il Parlamento, nei giorni immediatamente precedenti la scadenza per l’invio alla Commissione, sarà graziosamente “informato” sulle scelte di politica economica, sociale e di finanza pubblica che impegneranno – in modo vincolante – , il Paese per l’intero arco degli anni venti e oltre. Un modo di procedere che – oltre a ledere davvero le prerogative del Parlamento – rischia di compromettere la credibilità del Paese agli occhi dei partners dell’Unione, dando ulteriore alimento al processo di progressiva ininfluenza di cui ha parlato il Presidente Prodi.
Contenuti e alleanze non sono ossimori. Da soli non si vince, ma le ammucchiate indistinte non sono il rimedio. Di nuovo il tema del “campo largo” riproposto con una pioggia di interviste estive da Matteo Renzi. Lei come la vede?
Le alleanze politiche sono necessarie. Ma le coalizioni di più partiti, se non possono contare su di un partito-perno dello schieramento, che assicura alla coalizione stessa, oltre alla leadership, la sostanza del programma e della visione sul futuro del Paese e sulla sua collocazione internazionale, possono (forse) vincere le elezioni, ma perdono (sicuramente) la prova del governo. Prima delle elezioni europee si poteva sostenere che questo partito-perno ci fosse nel centro- destra, ma non ci fosse nel centro-sinistra. Ora, questa questione è risolta: gli elettori sono nuovamente orientati al bipolarismo e, nei poli, hanno scelto i partiti maggiori. La questione che resta aperta è se il Pd abbia ora un profilo di forza di governo adeguato al compito che gli elettori gli hanno assegnato. Qui c’è molto lavoro da fare, specialmente per i riformisti del Pd: questo della proposta di governo, realistica e al tempo stesso visionaria, è il loro terreno di elezione.
A proposito di Renzi. La spaccatura di Itala viva, le liti con Azione di Calenda: il centro è defunto?
Anche su questo, hanno parlato gli elettori: il centro come soggetto davvero autonomo dal centro-destra e dal centro-sinistra non è un disegno praticabile. Per i riformisti liberal-democratici che hanno investito su questo progetto, resta da scegliere tra due strade, diverse ma non del tutto alternative: una forza liberal-democratica, stabile junior partner del Pd, nata per unificazione di Italia viva e Azione; oppure un impegno diretto nel partito a vocazione maggioritaria (il Pd), puntando a riequilibrare al suo interno il rapporto tra riformisti e nuovi massimalisti. Quale strada preferirei io, da riformista del Pd, è ovvio. Ma anche la prima, se imboccata con determinazione e percorsa con coerenza, può accrescere la credibilità di governo del centro-sinistra. Anche se, rispetto alla seconda, rende più flebile il peso dei riformisti nel determinare l’agenda dell’intera coalizione.
Due anni di governo delle destre. Quale bilancio?
Sul governo ho già detto molto. Qui aggiungerei solo che, fino a pochi giorni fa, consideravo Meloni meritevole di sufficienza piena solo sulla guerra di aggressione di Putin all’Ucraina. Ora, devo purtroppo prendere atto della crescente ambiguità del governo sull’impiego delle armi fornite all’Ucraina per difendersi. Che, a fronte di questa ambiguità, non si registri una forte reazione dell’opposizione farà certo piacere al governo, ma danneggia la causa della pace giusta e, una volta di più, mina la credibilità dell’intero Paese.