La procedura di infrazione
Cosa è il deficit, perché è troppo alto e cosa rischia l’Italia con la procedura di infrazione
Il ministro Giorgetti minimizza: “Lo sapevamo da mesi”. Ma c’è poco da minimizzare: il piano di rientro prevede di tagliare la spesa di 13 miliardi
Politica - di David Romoli
Non è una sorpresa. “Lo sapevamo da mesi”, minimizza il ministro dell’Economia Giorgetti. Ma la procedura d’infrazione chiesta ieri dalla Commissione europea contro l’Italia e altri 6 Paesi dell’Unione tra cui la Francia, è una mazzata lo stesso. Potrebbe essere anche più pesante del previsto e di quanto anticipa, pur indorando l’amarissima pillola, il commissario uscente all’Economia Gentiloni: “Qualche anno fa, con le vecchie regole, lo sforzo sarebbe stato più severo ma non è che non ci sia bisogno di un riaggiustamento, con un deficit oltre il 7% e un debito oltre il 135%. Di solito lo sforzo di aggiustamento minimo è dello 0,5% del Pil annuo”. Di solito, appunto, perché da quel che trapela da Bruxelles la richiesta della commissione sarà di ridurre il deficit di 0,6 punti percentuali ogni anno. Se fosse lo 0,5% si tratterebbe di 11,19 miliardi. Se lieviterà di un decimale, sino allo 0,6% arriverà a 13,4 miliardi. Non sono pochi.
La procedura è il frutto avvelenato del rientro in vigore del Patto di Stabilità, sospeso dal 2020 per il Covid. Il patto è stato modificato, pur se a parametri invariati: il rapporto deficit/Pil deve sempre rientrare al di sotto del 3% e quello debito/Pil del 60%. Le nuove regole, che l’Italia ha molto a malincuore dovuto ingoiare salvo poi non votarle in aula astenendosi, sulla carta sono in effetti meno severe. Solo sulla carta però, perché nel concreto con le vecchie regole venivano concessi molto più facilmente margini di flessibilità. Ora, trattandosi di regole meno severe, non ci sarà più quella scappatoia. Senza contare il fatto che anche quel tetto del 3% per il deficit è nominale. Il nuovo patto impone infatti una zona di sicurezza per allontanare il rischio di sforamento. Di fatto bisognerà restare sotto il 2%.
Le condizioni del Piano di rientro saranno note nel dettaglio solo in autunno. Il nuovo Patto prevede infatti che gli Stati colpiti dalla procedura presentino un “Piano di rientro a medio termine”, che deve arrivare nelle mani della prossima Commissione europea entro il 20 settembre. Su quella base si aprirà una trattativa tra ogni Stato colpito dalla procedura e la Commissione ma il rientro dovrà essere completato entro 4 anni. A meno che non si chieda un tempo più lungo, 7 anni invece di 4, come l’Italia probabilmente farà. In quel caso, però, la commissione può concedere la dilazione solo a patto che il Paese in questione si impegni a varare riforme strutturali concordate con Bruxelles. Se non è proprio un commissariamento ci manca poco. Anzi pochissimo.
Si sa che le brutte notizie non arrivano mai da sole. Infatti proprio ieri l’Ufficio parlamentare di bilancio ha quantificato il costo della conferma delle misure che il governo intende mantenere anche nel prossimo anno, prima fra tutte il taglio del cuneo fiscale che Giorgetti ha ripetuto anche ieri essere “irrinunciabile”. Sono 18 miliardi che, una volta aggiunte spese varie, come il rinnovo del contratto per il Pubblico impiego, supererebbero la ventina di miliardi nella prossima manovra. Da sommarsi a quegli 11-13 miliardi che se ne andranno per la procedura. Ce ne sarebbe abbastanza per concludere che la lunga luna di miele tra l’inquilina di palazzo Chigi e quelli di palazzo Berlaymont, la sede della commissione a Bruxelles, è finita. Però c’è di più e forse di peggio. L’Europa è tornata alla carica sulla ratifica della riforma del Mes, che senza la firma dell’Italia, negata sei mesi fa, non può decollare. Quella firma ora Bruxelles la vuole a ogni costo e se non la otterrà la trattativa sul Piano di rientro a medio termine, già difficile, diventerà un calvario. Per il governo e per l’intero Paese.