Zio Joe l’ha fatta giusta
Elezioni presidenziali USA, cosa cambia con il ritiro di Biden: fermati i piani eversivi di Trump?
Ritirandosi dalla corsa Biden ha difeso i pilastri del costituzionalismo sfregiato dall’assalto fascista di Trump alle istituzioni, condannato apertis verbis anche dai politologi americani di destra
Esteri - di Michele Prospero
Gettando la spugna Biden ha impedito che a novembre la scelta diventasse quella tra un redivivo condottiero iperattivo, con dei pruriti illiberali insistenti che lo mandano spesso fuori di testa, e un comandante fragile che, proprio nel duello cruciale con l’avversario davanti alle telecamere, perde il controllo delle parole. Qualsiasi dei due fosse risultato il trionfatore delle future urne, nello Studio Ovale avrebbe palesato una carenza di autorità, rivelando un vertice perfettamente acefalo. Con le chiavi della Casa Bianca nuovamente afferrate dalla mano dell’antieroe che ha violato la sacralità laica del Campidoglio per spezzare equilibri inveterati, procedure radicate, etichette inscalfibili, l’affidabilità costituzionale del Presidente sarebbe precipitata nel fango. Anche se l’elettorato, animato da un miracoloso spirito di resistenza, si fosse rimesso per un ulteriore mandato alle cure del lento Biden, la stanza dei bottoni sarebbe piombata nella incertezza totale circa la titolarità effettiva della decisione in ultima istanza. In ogni caso, a chiunque fosse stato consegnato lo scettro, la bilancia dei poteri avrebbe oscillato in maniera imprevedibile.
Del resto, già quando Trump era asceso alla White House, col suo contegno sprezzante alimentava ombre su chi davvero, al di là degli organigrammi ufficiali, esercitasse il governo. La giornata del primo cittadino, che iniziava dopo le 11, era scandita dalla lettura della stampa, da lunghe telefonate, e da tantissima Tv, non meno di 6-8 ore al dì. Il tempo rimanente era diviso tra il golf e la invenzione quotidiana di dozzine di messaggi infuocati sui social che hanno fatto del magnate newyorkese, prima del rumoroso allontanamento, il “presidente di Twitter”. Le risoluzioni maggiormente scottanti maturavano nella cerchia delle amicizie riservate, e quindi in canali che guardavano oltre il partito, al di fuori degli organi statali e delle competenze dell’amministrazione.
La mossa di Biden priva Trump della pretesa che un colpo di fucile, che lo ha sfiorato facendolo sanguinare da un orecchio, cancelli d’un tratto il fresco ricordo del 6 gennaio con l’assalto di piazza al cuore della Repubblica. Attraverso una drammatizzazione dello scontro è ancora possibile che si produca un rischiaramento tale da scuotere in profondità il pubblico, finora sedotto da un discorso politico avvelenato per le infinite bugie e la pioggia di insulti riversati. In autunno la posta in gioco sarà fin troppo elevata: da un lato, il mantenimento della separazione dei poteri e dei crismi di un’autorità razionale-legale, dall’altro l’imponderabile dominio della personalità carismatica che rigetta il principio di legalità.
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Uno studioso autorevole di cose politiche come Robert Kagan – non certo un pensatore di sinistra – si spinge persino avanti in una simile polarizzazione del confronto. Descrivendo il trumpismo come un movimento che sopprime il partito, e innalza la fedeltà messianica verso il capo ad ideologia fondativa di un esercito di esagitati, egli evoca esplicitamente momenti del secolo breve. Riuscendo ad esortare i seguaci a “calpestare anche le istituzioni create per preservare la loro libertà”, Trump, a detta di Kagan, pone infatti le basi di una deriva dalle indiscutibili tinte brune: “È così che il fascismo arriva in America, non con stivali e saluti romani, ma con un imbonitore televisivo, un miliardario fasullo, un egomaniaco da manuale che sfrutta il risentimento e le insicurezze popolari, con un intero partito che – per ambizione o semplicemente per paura – si allinea tutto dietro di lui”. Lo storico britannico Richard J. Evans, autore di un’opera in tre volumi sulla nascita e la caduta del Terzo Reich, pur disapprovando l’uso attualizzante delle categorie di nazismo e fascismo, ritrova inquietanti analogie con le vicende di ieri nella “stigmatizzazione delle minoranze”, nel “linguaggio iperbolico ed esagerato” scagliato addosso a nemici reali o immaginari, nelle “aggressioni alla magistratura”. Con il “lessico incendiario, del capro espiatorio, dell’attacco all’establishment e altre varianti tossiche di strategia comunicativa”, la politica americana vede germogliare l’albero dell’autocrazia nella terra che diede i natali alla Carta dei diritti.
Forse però, senza la necessità di impiegare gli specchietti retrovisori per gridare allarmi, l’essenziale è scorgere i rischi odierni di un ritorno di The Donald. In fondo, “the largest deportation operation in our history” promessa da Trump non è l’Olocausto e il mostro da abbattere, più che il bolscevismo della guerra civile europea, è quello fabbricato negli spettacoli della rabbia dove il candidato alla presidenza bolla gli immigrati come “criminali”, “assassini”. La convention dei Repubblicani non ricicla scarpe chiodate démodé, ma riproduce la sceneggiatura trash di un attempato wrestler con tanto di crocifisso al collo che si strappa i vestiti mentre urla il suo amore per il semidio del “Make America great again”. L’esaltato tycoon, che ferito di striscio incita la folla a combattere agitando in alto il pugno, rappresenta insomma un pericolo per quello che è, non per i cascami novecenteschi che alla bisogna ripesca. La sua miscela di etno-populismo e antiliberalismo è oggi una ricetta di successo nel centro dell’occidente, nonché un modello d’esportazione vincente pure nella vecchia Europa, ma può essere sconfitta col voto.
Contro un capitano irregolare, che disegna una integrale supremazia dell’arbitrio personale in grado di infrangere le stesse forme legali, Biden ha difeso i pilastri del costituzionalismo sfregiato. Nel giustificare il sofferto passo indietro, ha richiamato non a caso quali valori indisponibili il vincolo del partito e il sentimento delle istituzioni. Se il timore che circondava la figura del Biden crepuscolare era quello di un leader afflosciato che non garantiva più la piena sovranità sul proprio cervello, con la rinuncia alla corsa egli ha dimostrato invece una indubbia capacità di calcolo.
Il guizzo di un politico in carriera da oltre cinquant’anni ha tenuto acceso quel residuo senso di responsabilità che permette al mondo democratico di non aspettare l’Election Day come una ineluttabile condanna. Va per questo reso onore a un uomo di Stato che si smarrisce nelle pieghe di una memoria divenuta fallace ma che non abbandona il filo della lealtà costituzionale e la esibisce con fierezza dinanzi alla protervia di un golpista mancato.