Nervi tesi in cdm
Scontro tra Tajani e Salvini, Meloni minaccia la crisi di governo: la rissa indebolisce Giorgia
Il leghista esulta per l’uscita di scena di Biden, quello forzista lo corregge. Meloni, indebolita e stufa della rissa tra alleati, minaccia la verifica di governo
Politica - di David Romoli
Irritata con Tajani, furiosa con Salvini. I litigi tra i due colonnelli hanno esasperato una Meloni già molto innevosita da una serie nera che non accenna a finire. Dopo la sconfitta europea quel che si richiedeva alla maggioranza era di mostrarsi più compatta che mai e Giorgia lo aveva chiesto di persona ai suoi due vicepremier. Non la hanno ascoltata per niente e anzi hanno gareggiato a chi alzava più i toni. La presidente ha affidato al numero due del gruppo al Senato Speranzon il compito di lanciare un monito preciso e severo per rimettere in riga i rumorosi litiganti. Niente da fare: entrambi ieri hanno ricominciato a intonare musiche opposte sull’argomento del giorno, le presidenziali a stelle e strisce. Il leghista si schiera senza un briciolo di diplomazia con il tycoon, e lo si può capire trattandosi ormai di un leader a cui guarda non solo la destra americana ma anche quella europea raccolta nell’eurogruppo di Orbàn i Patrioti, di cui la Lega è parte integrante. Tajani, anche nelle vesti direttamente interessate di ministro degli Esteri lo corregge e non potrebbe del resto fare altro: “Lavoreremo bene con qualsiasi presidente”. Non c’è bisogno di specificare che bene come con Joe Biden Giorgia probabilmente non lavorerà con nessuno. La sua uscita di scena è di per sé una mazzata dura.
In questa situazione, ieri, la premier è arrivata alla riunione del cdm con l’umore di chi non vede l’ora di dare una ripassata coi fiocchi ai suoi vice. È probabile che lo abbia fatto e anche in caso contrario è solo questione di giorni e di aspettare l’occasione adatta. Circola nella maggioranza la parola più maledetta che ci sia in politica, “verifica”, ma stavolta ad agitarla minacciosamente non sono i partiti alleati contro Chigi, come quasi sempre capita: è la premier che la brandisce per spaventare e richiamare all’ordine i soci. Solo che stavolta non c’è monito o minaccia che tenga. Giorgia potrà ottenere un bavaglio momentaneo, un temporaneo abbassamento dei decibel ma non ci vorrà molto perché la rissosità torni a prevalere. Il caos nella maggioranza, infatti, non è frutto delle intemperanze dell’uno o l’altro leader: deriva invece direttamente dagli esiti di quella partita europea che per la premier e leader dei Conservatori è stata una specie di Caporetto.
Il disegno che avevano in mente lei, Tajani e in fondo anche Salvini era l’esportazione in Europa del modello italiano: una commissione spostata a destra, magari sempre basata sulla maggioranza Ursula ma con il supporto esterno e dialogante della stessa Meloni, che si sarebbe incaricata sia di far da perno dei nuovi equilibri europei sia di diventare il canale di comunicazione tra i Popolari e almeno alcune parti della destra più radicale.
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Non è andata così. Il quadro europeo registra invece uno scontro frontale tra quella destra e i Popolari. Giorgia starà pure in mezzo ma è il vaso di coccio, non la preziosa cerniera che immaginava di poter diventare. In politica, poi, quando si è sconfitti in una partita strategica, quando cioè un progetto a lungo termine perseguito per mesi frana, le conseguenze in termini di indebolimento sono inevitabili. Meloni, oggi, è molto più debole di quanto non fosse l’8 giugno, gli alleati sono quasi costretti a farla fibrillare: non possono e non vogliono evitare lo scontro fra loro e Salvini, galvanizzato dalla nascita dei Patrioti e dalla prospettiva di Trump alla Casa Bianca deve insistere molto più decisamente di prima nella sua guerriglia. La riforma leghista del codice della strada, che FI vuole assolutamente modificare, potrebbe essere l’occasione per uno scontro aperto ma se Giorgia riuscirà a evitarlo altre occasioni, prima o poi, si creeranno.
Come se non bastasse anche la famiglia di Silvio la buonanima si è messa a tirare ordigni esplosivi. Cosa vuole Mediaset? Difficile dirlo con precisione. Di certo, abituata ad avere la politica agli ordini, mal sopporta il rovesciamento imposto dalla premier, con le redini di nuovo in mano alla politica. Piersilvio pare sia furioso con Tajani, accusato di non fare abbastanza per restituire centralità assoluta agli interessi Mediaset. Ma c’è di più, perché le voci da Arcore confermano che l’erede è davvero tentato dal provare a emulare l’inarrivabile papà “scendendo in campo” come leader centrista. Il peggio, per Meloni, è che di strumenti contundenti per imporsi non ne ha. Può minacciare la crisi, ma a farne le spese sarebbe lei per prima e se anche riuscisse a rivincere le elezioni si ritroverebbe in situazione quasi identica a quella di oggi. Deve aspettare che il suo premierato divenga realtà per poter dettare legge all’interno della sua maggioranza e si spiega così il monito di Speranzon, “FdI farà il possibile perché ci sia la piena disponibilità degli alleati a realizzare il programma elettorale”: con l’incubo che al momento giusto quella disponibilità non ci sia o non sia affatto davvero “piena”.