L'intervista

Cosa sta succedendo negli USA secondo Angelo Bolaffi: “Scontro identitario tra nemici”

Il disordine globale unisce l’America all’Europa. Attentati e guerre. L’Unità ne discute con Angelo Bolaffi. Filosofo della politica e germanista, dal 2007 al 2011 è stato direttore dell’Istituto di cultura italiana a Berlino. È membro della Grüne Akademie della Böll Stiftung di Berlino e del direttivo di Villa Vigoni “Centro italo-tedesco per l’eccellenza europea”.

Esteri - di Umberto De Giovannangeli

16 Luglio 2024 alle 12:30 - Ultimo agg. 16 Luglio 2024 alle 12:34

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COLLAGE DI FOTO DA LAPRESSE
COLLAGE DI FOTO DA LAPRESSE

Il disordine globale unisce l’America all’Europa. Attentati e guerre. L’Unità ne discute con Angelo Bolaffi. Filosofo della politica e germanista, dal 2007 al 2011 è stato direttore dell’Istituto di cultura italiana a Berlino. È membro della Grüne Akademie della Böll Stiftung di Berlino e del direttivo di Villa VigoniCentro italo-tedesco per l’eccellenza europea”.

Professor Bolaffi, partiamo dall’America. Un Paese che si scopre sempre più lacerato al proprio interno e incattivito. Il fallito attentato a Donald Trump ne è la drammatica riprova.
Gli Stati Uniti hanno una lunga storia di omicidi politici dei presidenti, da Lincoln a JfK. Dei 46 presidenti americani, quattro sono stati uccisi. Robert Kennedy, allora senatore, fu ucciso nel mezzo di una campagna presidenziale che, secondo tutti i sondaggi, lo avrebbe portato alla Casa Bianca. Ci sono stati attentati, a Reagan e ora all’ex presidente Trump. C’è una componente della storia americana, del “Far West” americano, marchiata dall’omicidio politico. Queste cose avvengono quando l’ambiente, il clima politico è molto contrastato. L’assassinio di Lincoln avvenne come vendetta per la guerra civile. L’attentato contro Trump è la spia di un momento molto difficile della vita americana, in cui la polarizzazione esasperata non promette niente di buono.

È solo un problema di leadership?
Il fatto che a competere per la presidenza siano due persone molto anziane, di cui di una vengono messe in discussione anche le capacità mentali, Biden, e l’altro, Trump, che non se ne discosta molto, vuol dire che il Paese non ha prodotto una leadership funzionale al cambiamento. In questo, l’America oggi assomiglia all’Urss dei primi anni ’80, con una leadership che sembra imbalsamata. L’America è chiamata, come tutti quanti, a ricercare un nuovo ruolo nel mondo, un mondo che non è più quello in cui gli Usa erano egemoni. Per ritrovare, semmai lo ritroverà il che non è detto, un ruolo egemone in questo mondo, si tratterà di ridiscutere dalle fondamenta tutta la propria storia. La crisi è lì. Non è una crisi soltanto di leadership.

Che crisi è, professor Bolaffi?
La crisi della leadership è la crisi dell’identità americana in un mondo che era nato, agli inizi del 2000, unipolare, per poi diventare multipolare e adesso è un mondo che contesta apertamente il ruolo degli Stati Uniti come “gendarme”, per alcuni, o egemone, per altri, nel mondo. Cercano di capire chi sono loro; una ricerca che non può non essere dolorosa in quanto, per dare i suoi frutti, deve esercitare una forte capacità autocritica, niente affatto scontata. E proprio perché la crisi ha questo spessore trovo illusorio il dibattito apertosi tra i Democratici sulla sostituzione di Biden. La crisi di senso non si risolve ringiovanendo la carta d’identità dell’ipotetico successore di Biden nella corsa alla Casa Bianca. Quando la polarizzazione non è nei programmi, nelle proposte politiche ma è nella radicalizzazione dell’identità, del sentirsi “americano”, allora una riconciliazione è molto problematica. L’altro non è più un avversario, è un nemico, una minaccia esistenziale. E come tale va combattuto.

Il Partito repubblicano “trumpizzato” si discosta fortemente dal vecchio conservatorismo americano.
Quello della Guerra fredda. Quello vero: il partito di Reagan, Bush padre e Bush figlio, che volevano portare la democrazia nel mondo. Loro sì che avevano una visione imperiale del ruolo americano. Quel partito non c’è più. Il nuovo, quello egemonizzato da Trump e dal trumpismo, è impregnato di un neo-populismo a cui corrisponde specularmente, nei Democratici, una forte torsione identitaria, che in alcuni casi sfocia in odio verso se stessi e l’Occidente.
Un grande caos, dimostrato anche dal fatto che il Sud globale ha capito che c’è questa situazione e solleva la testa. L’egemonia è come i gas. Si allarga dove c’è il vuoto.
Questa America così lacerata e divisa non pone un problema impellente all’Europa di ridefinire se stessa?
L’idea dell’Europa era nata alla fine della Seconda guerra mondiale, in America, con un progetto per un mondo che è finito. Un mondo multilaterale, di cui l’America era la cittadella sulla collina illuminata: allora l’Onu, l’interdipendenza. Ha ragione Mario Draghi quando afferma che l’Europa è stata pensata in un mondo che non c’è più. O si ripensa, altrimenti va avanti a tentoni, ma a quel punto escono fuori i nazionalismi sovranisti e per l’Europa tutto diventa più difficile.

A proposito di Europa, qual è la sua lettura politica del voto in Gran Bretagna e quello in Francia?
Sono voti difficilmente omologabili. Nel senso che in Gran Bretagna c’è un doppio elemento: da una parte, il fatto che, come avviene in tutti i Paesi d’Europa, a un certo punto l’elettorato si scoccia dei governi in funzione, e in questo caso era un governo Tory particolarmente inetto. I britannici hanno votato per l’opposizione, rappresentata da un Partito laburista particolarmente intelligente. Va però subito aggiunto che il Labour Party di Keir Starmer si è meritato al 50% la vittoria elettorale. L’altro 50 è dovuto al fatto che come abbiamo visto dappertutto, l’elettorato cerca qualcosa di nuovo nella speranza di trovare soluzioni a problemi irrisolti.
Detto questo, il fatto che ci sia un premier e una proposta politica laburista ragionevole e praticabile, ha indubbiamente aiutato l’elettorato a superare eventuali timori o idiosincrasie. A ciò va aggiunto che quella laburista è una sinistra che non ha nulla a che fare con gran parte del Nuovo Fronte Popolare francese. Basta vedere e mettere a confronto le rispettive tesi sull’economia e l’immigrazione per averne contezza. Conta poi molto la legge elettorale. Ecco, l’unico elemento comune che hanno questi due voti, sia pure così diversi, è che ambedue sono stati favoriti da leggi elettorali che pur nella loro diversità – uninominale secca quella britannica, a doppio turno quella francese – spingono ad unirsi prima anziché dopo il voto, come avviene in Italia.

Vediamo più da vicino il voto francese.
Ero uno di quelli che non si è scandalizzato per la decisione di Macron di sciogliere l’Assemblea Nazionale, prerogativa presidenziale, e indire elezioni anticipate a tambur battente. Tutti o quasi hanno gridato all’azzardo, a un suicidio politico etc. Prendo a prestito quanto mi ha detto un amico tedesco: forse è una decisione sbagliata che però ha avuto un effetto positivo. Adesso per la Francia si apre l’Hic Rhodus, hic salta, nel senso che col voto sono riusciti a bloccare quello che per l’Europa sarebbe stato un colpo forse mortale, cioè l’arrivo al potere del Rassemblement National di Marine Le Pen, adesso però si tratta di vedere se saranno abbastanza intelligenti nel trovare soluzione a problemi difficili che comportano una risposta politica complicata.
Sento e leggo da più parti che a Parigi dovrebbero prendere in considerazione il “modello italiano”. All’improvviso, l’Italia è diventata un modello, dopo che è stata reietta da sempre. Tutti dicevano facciamo come la Spagna, o come la Francia, o come l’Inghilterra e adesso si rivolta la frittata. C’è da dire che certamente l’Italia è un Paese molto debole che si adatta meglio alle difficoltà.

Guardando al voto francese e britannico, pur nelle loro differenze, e calandoli nella realtà tedesca, cosa si può dire?
Che il nuovo governo inglese guidato da Starmer, anche senza cancellare la Brexit, sia disposto a riaprire un dialogo con l’Europa su temi fondamentali come la sicurezza e l’immigrazione, è un fatto estremamente positivo per la Germania.

Perché?
È vero che l’asse franco-tedesco è decisivo, ma la presenza della Gran Bretagna aiutava i tedeschi a frenare lo statalismo strutturale della Francia. In secondo luogo, il possibile, oltreché auspicabile, riavvicinamento di Londra all’Europa in tema di sicurezza, essendo il Regno Unito l’altra potenza nucleare europea, e come la Francia membro permanente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, tutto questo aiuta la Germania e la Spd a prendere decisioni che da sola difficilmente riuscirebbe a prendere, anche se con esitazioni che si legano alla contingenza politica-elettorale. Lo schieramento di missili statunitensi a lungo raggio in Germania, concordato da Washington e Berlino a margine del recente vertice della Nato, sembra riportare la discussione indietro nel tempo, agli inizi degli anni’80 con i PershingII. Solo che oggi siamo al 2024. L’installazione inizierà soltanto nel 2026, dopo il 2026, dopo le elezioni federali tedesche, perché la Spd non è in grado di supportare una campagna elettorale vincente col fardello della guerra. Non mi pare che su questo come su altri temi cruciali, vi sia nella Spd un accenno di ravvedimento. Di certo, non sarà Scholz a risolvere i problemi che segnano la socialdemocrazia tedesca. Non è lui il leader capace di far questo in un partito spaccato su due posizioni contrapposte.

Si dice che senza memoria non c’è futuro. In Francia, la memoria antifascista è stata importante, ha pesato, sui risultati del secondo turno. Quanto questa memoria potrebbe incidere in Germania di fronte al pericolo di una avanzata elettorale di Alternative für Deutschland?
Non funziona così in Germania. Quello che doveva fare, i conti col passato, l’ha già fatto. Lì si tratta di una espressione politica, quella dell’AfD, di una identità regionale radicata contro l’ovest della Germania.
La Germania deve attrezzarsi, culturalmente oltreché politicamente, a respingere la minaccia che per le sue istituzioni democratiche rappresentano le forze dell’estremismo di destra. E di un populismo dalle caratteristiche “weimariane”, in cui si mescolano rivendicazioni radicali di sinistra con posizioni ideologiche illiberali, antioccidentali e filorusse. Che questo populismo “rosso-nero” sia più attivo nelle regioni dell’Est della Germania – dove non a caso l’AfD è più forte, che in quelle dell’Ovest si può spiegare con il fatto che dopo il 1945 le culture politiche all’Ovest e all’Est si sono sviluppate in modo differente. E questa profonda divisione continua ancora oggi a pesare. Quello per l’AfD è un voto per metà ideologico, e per metà di protesta identitaria. Dentro c’è un elemento del populismo classico europeo e anche la memoria di cinquant’anni di antifascismo di Stato nelle regioni della ex DDR, che non ha riportato a quella lettura critica della storia come è invece avvenuto nelle regioni dell’Ovest. E questo ritardo non verrà superato con importanti manifestazioni, che pure vanno fatte. Bisognerà riavvicinarsi all’elettorato di quelle regioni dell’Est che appare ancora molto lontano.

16 Luglio 2024

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