Cambiato il corso della storia
Non solo Donald Trump: da Lincoln ai fratelli Kennedy la storia degli attentati ai presidenti USA
Dall'omicidio di Lincoln all'attentato fallito a Reagan, passando per l'uccisione dei fratelli Kennedy, fino a Trump: quali omicidi o tentati omicidi hanno cambiato il corso degli eventi
Esteri - di David Romoli

Non è che tutti quelli che hanno aperto il fuoco contro un presidente degli Usa o aspirante tale volessero cambiare la storia. John Hickley jr., per esempio, il ventiseienne che il 30 marzo 1981 sparò sette colpi di calibro 22 contro Ronald Reagan, insediatosi alla Casa Bianca da appena due mesi, voleva solo attirare l’attenzione di Jodie Foster per la quale nutriva una decisamente insana ossessione da quando l’aveva vista in Taxi driver. L’ex attore andò a un pelo dal rimetterci la pelle: un proiettile di rimbalzo gli perforò il polmone. Al portavoce della Casa Bianca, James Brady, andò peggio: fu costretto su una sedia a rotelle per il resto della vita. Della storia a Hickley, uscito di prigione nel 2016, importava pochissimo. Ma probabilmente la modificò lo stesso, o almeno ne accelerò il corso. Quando fu colpito Ronnie Reagan era un presidente già popolare ma non troppo. Dopo l’attentato l’indice di gradimento si impennò e lo stesso presidente, la cui rapidità nella ripresa impressionò gli stessi medici, si convinse di essere stato risparmiato per grazia divina e per assolvere a una più alta missione, anche se lo confessò solo ai familiari. O forse, dopo il rischio corso, si convinse semplicemente di dover correre. Nella sua prima apparizione in pubblico dopo la convalescenza, il 28 aprile, annunciò il gigantesco piano di tagli alla spesa pubblica destinato a segnare il trionfo della controrivoluzione neoliberista già avviata nel Regno Unito da Margaret Thatcher. Quella destinata a rimodellare dalle fondamenta il mondo occidentale.
L’OMICIDIO DI ABRAHAM LINCOLN
Nessun dubbio invece sulle motivazioni politiche di John Wilkes Booth, l’attore ammirato dalla sua futura vittima che il 14 aprile 1865 uccise all’interno del Ford’s theatre di Washington Abraham Lincoln. La guerra di secessione era finita da appena cinque giorni. Il secondo mandato di Lincoln, rieletto presidente l’anno precedente, era iniziato da poche settimane. Il progetto di Booth e dei congiurati sudisti che aveva riunito era rapire il presidente per costringerlo a uno scambio di prigionieri con la confederazione. La fine della guerra rese quell’obiettivo inutile. Booth decise di procedere lo stesso, ma il piano era adesso quello di decapitare le istituzioni uccidendo il presidente, il suo vice, Andrew Johnson, e il segretario di stato, William H. Seward. Se il complotto mirasse a un colpo di stato o solo a vendicare il sud sconfitto è incerto: di fatto solo il presidente fu ucciso. Seward fu accoltellato nel suo letto ma sopravvisse. L’uomo incaricato di uccidere Johnson preferì rinunicare all’ultimo momento. La morte di Lincoln rese presidente l’unico esponente del Congresso proveniente dagli stati ribelli del sud che non si era dimesso allo scoppio della guerra e che proprio per questo era stato scelto da Lincoln in vista della riappacificazione con gli stati sconfitti. Johnson, però, frenò tutti i progetti del suo predecessore a favore della fine sostanziale dello schiavismo. Dimenticò la promessa di assegnare a tutti gli ex schiavi “40 acri di terra e un mulo”. Permise ai governatori degli stati del sud di varare i Black codes che ripristinavano qualcosa di molto vicino allo schiavismo e alla segregazione, sostenendo che la materia era di pertinenza dei singoli stati e non federale. Per lo stesso motivo si disinteressò completamente alla difesa del diritto al voto dei neri. Tentò di frenare col veto il Civil rights Act del 1866, la prima legge che assicurava ai neri piena cittadinanza. Lo scontro con i repubblicani abolizionisti fu continuo. Johnson mise il veto a innumerevoli leggi a favore degli ex schiavi, molte delle quali tuttavia passarono lo stesso con la maggioranza qualificata dei due terzi del Congresso. Fu il primo presidente per il quale fu proposto l’impeachment e riuscì a restare alla Casa Bianca per un solo voto che impedì di raggiungere i due terzi necessari per cacciarlo. Ancora oggi è considerato, forse non del tutto a ragione ma certo neppure a torto, come uno dei principali responsabili della condizione nella quale i neri sarebbero rimasti per un altro secolo, e delle profondissime divisioni e disparità sociali mai più scalfite.
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L’ASSASSINIO DI JOHN FITZGERAL KENNEDY
Per quanto strano possa sembrare, l’attentato più deflagrante insieme a quello contro Lincoln cambiò di poco, e per certi versi in meglio, la politica degli Usa. Lyndon Johnson, il presidente texano e sudista che rimpiazzò John Fitzgerald Kennedy, ucciso con un colpo di fucile sparato da un tetto da Lee Harvey Oswald il 22 novembre 1963, proseguì nel bene e nel male il percorso aperto dal predecessore. Del resto, le motivazioni di Oswald restano oscure. L’eventualità che fosse solo una pedina manovrata da oscuri pupari era tanto diffusa da essere data, forse incautamente, per certa ovunque. Ma se anche l’assassinio di Dallas fu il frutto di un complotto, ciò non significherebbe che i registi avessero in mente sconvolgimenti politici. L’ipotesi più accreditata punta su Cosa Nostra, i cui voti erano stati determinanti per la vittoria di Kennedy contro Nixon nel 1960 e che si sentiva tradita dal presidente che aveva rinunciato a “liberare” Cuba, rovinando così uno dei più ambiziosi progetti dei padrini americani e del loro alleato Meyer Lansky: uno stato gestito direttamente da loro, una Las Vegas all’ennesima potenza. In ogni caso, se anche ad armare Oswald fosse stato qualche nemico della politica di Kennedy, avrebbe mancato il colpo. Lyndon Johnson è stato probabilmente il presidente più “di sinistra” della storia americana e la sua politica sociale, la “great society”, oggi passerebbe per bolscevica. Pur provenendo dal sud ed essendo stato nominato vicepresidente proprio per ingraziarsi il voto meridionale, sfidò la segregazione più di quanto non avesse fatto lo stesso Kennedy e fu lui a vincere la battaglia. La fine delle Jim Crow laws, quelle che imponevano di fatto il regime della segregazione nel sud, coincise con i suoi cinque anni di presidenza. Johnson proseguì la politica kennediana anche negli errori: a imboccare la china che avrebbe portato alla più disastrosa guerra nella storia degli Usa, quella del Vietnam era stato il presidente della “nuova frontiera”.
L’OMICIDIO DI ROBERT KENNEDY
Probabilmente gli spari che più a fondo hanno inciso sull’orizzonte d’America sono stati quelli contro un leader che non era presidente ma lo sarebbe certamente diventato: Robert Kennedy, fratello minore di John, ministro della Giustizia negli anni della sua presidenza. Sihran Sihran, il palestinese nato a Gerusalemme che lo uccise nella notte tra il 5 e 6 giugno 1968 e che è ancora in carcere, disse di averlo voluto punire per l’appoggio a Israele. I diari rintracciati nel suo appartamento confermarono. Bob Kennedy stava festeggiando all’ hotel Ambassador di Los Angeles la vittoria nelle primarie del Partito democratico della California. Johnson aveva rinunciato a correre per la rielezione nel marzo precedente. Avrebbe certamente ottenuto la candidatura e probabilmente sconfitto Richard Nixon. Negli ultimi anni si era molto radicalizzato. La piattaforma elettorale era tra le più avanzate, fondata su tre pilastri: uguaglianza razziale, giustizia sociale, fine della politica estera aggressiva. In un discorso rimasto celebre si scagliò contro la valutazione dello sviluppo del paese sull’unità di misura del Pil. Come sarebbe stata una presidenza di Robert Kennedy è impossibile indovinarlo. Di certo la sua America sarebbe stata un’altra cosa rispetto a quella di Richard Nixon: in un momento cruciale della storia, gli Usa avrebbero comunque imboccato una strada molto diversa.