La sentenza sul caso Asso29

Zona Sar, Libia e Tunisia a caccia di migranti col supporto dell’Italia: cosa racconta la sentenza sul caso Asso29

Il tribunale di Roma ha condannato il comandante della nave Asso29 e il governo italiano per il respingimento in Libia di un gruppo di naufraghi nel 2018. Un verdetto importante perché spiega che nell’area di ricerca e soccorso (Sar) gli Stati non hanno diritti, ma solo obblighi e responsabilità

Editoriali - di Gianfranco Schiavone

3 Luglio 2024 alle 15:30 - Ultimo agg. 3 Luglio 2024 alle 17:27

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Zona Sar, Libia e Tunisia a caccia di migranti col supporto dell’Italia: cosa racconta la sentenza sul caso Asso29

La diciottesima sezione civile del Tribunale di Roma con sentenza del 26 giugno 2024 (causa condotta dagli avvocati Fachile, Saltalamacchia, Leo, Crescini, Cecchini, Guariso) ha condannato il comandante della nave Asso29, nonché il Governo italiano, per il respingimento verso la Libia di un gruppo di naufraghi avvenuto a inizio luglio 2018. Si tratta di una sentenza di particolare importanza per la chiarezza e precisione con cui il giudice Corrado Bile ricostruisce e interpreta il quadro del diritto internazionale pertinente. I naufraghi erano stati inizialmente soccorsi dalla motovedetta libica “Zwara”, in un’operazione di salvataggio attivata dalla nave della Marina Militare Italiana “Duilio” la quale aveva effettuato l’iniziale avvistamento del gommone in difficoltà, segnalando l’evento alle autorità libiche competenti in relazione all’area SAR (ricerca e soccorso) nel quale era avvenuto il naufragio.

Successivamente al recupero dei migranti, anche la nave libica “Zwara” era però rimasta in avaria ed era stata soccorsa dalla nave “Asso29”, battente bandiera italiana la quale era stata a tal fine contattata dalla base di Tripoli della Marina Militare italiana. La Asso29 provvedeva ad effettuare l’operazione di recupero dei passeggeri a bordo della motovedetta libica nonché di traino della “Zwara” verso Tripoli dove giungeva il 2 luglio 2018. Un quadro fattuale dunque complesso dal quale emerge con evidenza il ruolo predominante delle autorità italiane nel coordinare le operazioni e nel determinare nella Libia e non nell’Italia il POS (place of safety – luogo sicuro) dove effettuare lo sbarco. In Libia i ricorrenti furono subito arrestati e condotti nei centri di detenzione libici dove furono sottoposti a inaudite violenze e trattamenti inumani e degradanti accertati in giudizio. E’ opinione tanto diffusa quanto infondata che nella propria area SAR lo Stato coinvolto eserciti una sorta di incondizionato diritto a decidere della sorte dei naufraghi.

Come osserva invece con chiarezza il Tribunale civile di Roma la specificità dell’ambiente marittimo non può precludere il rispetto dei diritti umani. Infatti, a differenza delle acque interne, del mare territoriale, della zona contigua, della zona economica esclusiva e della piattaforma continentale, la zona SAR non è una zona marina all’interno della quale lo Stato costiero di riferimento esercita la propria sovranità o la propria giurisdizione esclusiva. Dall’individuazione di tale area discendono per lo Stato solo obblighi e responsabilità e non anche l’esercizio di diritti”. Va richiamato in particolare quanto disposto nell’allegato alla Convenzione SAR del 27 aprile 1979 laddove prevede che “le Parti provvedono affinché vengano prese le disposizioni necessarie al fine di fornire alle persone in pericolo in mare al largo delle loro coste i servizi di ricerca e di salvataggio richiesti.” (2.1.1) e che “qualora esse vengano informate che una persona è in pericolo in mare, in una zona in cui una Parte assicura il coordinamento generale delle operazioni di ricerca e di salvataggio, le autorità responsabili di detta Parte adottano immediatamente le misure necessarie per fornire tutta l’assistenza possibile.” (2.1.9) Dove dunque deve concludersi il soccorso? Le “Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare” adottate dal’IMO (International Maritime Organization) nel maggio 2004 hanno chiarito che per “luogo sicuro” in cui le operazioni di salvataggio possono dirsi concluse deve intendersi il luogo in cui la sicurezza dei sopravvissuti, ovvero la loro vita, non è più minacciata e i diritti fondamentali, tra cui quello di chiedere asilo, possono essere garantiti.

Nell’esercizio del coordinamento delle attività di soccorso le autorità italiane erano vincolate tanto al rispetto del diritto internazionale in materia di ricerca e soccorso in mare quanto al pieno rispetto delle normative internazionali e dell’Unione Europea in materia di asilo, e pertanto al divieto assoluto di respingimento sancito sia dalla Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati (art. 33) che dalla Convenzione Europea per i diritti dell’Uomo. Diritto applicabile anche in caso di azioni condotte in alto mare, cioè al di fuori dunque del territorio nel quale lo Stato esercita la propria sovranità in quanto, come sancito dalla Sentenza Hirsi Jamaa e altri c. Italia del 23 febbraio 2012 della CEDU (Corte Europea per i Diritti dell’Uomo) le azioni degli Stati contraenti “compiute o produttive di effetti fuori del territorio di questi possono costituire esercizio da parte degli stessi della loro giurisdizione ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione”. Né dunque la nave commerciale della S.p.A. Augusta Offshore, né le diverse amministrazioni centrali dello Stato coinvolte (la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero della difesa, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti) avrebbero potuto, ognuno in relazione alle proprie responsabilità, porre in essere azioni di respingimento dei naufraghi verso la Libia e sono state dunque condannate in solido dal Tribunale civile di Roma al risarcimento dei danni non patrimoniali in favore dei cittadini stranieri ingiustamente respinti in Libia.

L’interpretazione ermeneutica fornita dal Tribunale di Roma relativamente all’interpretazione delle normative internazionali sul soccorso in mare e alla loro connessione con le fonti di diritto internazionale e di diritto dell’Unione Europea poste a protezione dei diritti fondamentali assume valore, e dunque applicazione, oltre al caso della Libia anche in tutte le situazioni nelle quali vi sono fondati motivi di ritenere che dei naufraghi siano condotti in un posto non sicuro dove sono esposti a violazioni gravissime dei loro diritti fondamentali. Se sulla situazione della Libia sono unanimi le valutazioni da parte di tutti gli studiosi, delle associazioni e delle agenzie internazionali, la situazione nella quale è rapidamente sprofondato un altro Paese dell’area, ovvero la Tunisia, risulta estremamente preoccupante. Già nell’importante Rapporto di Human Rights Watch (HRW) del luglio 2023 si evidenziava come “la polizia, l’esercito e la guardia nazionale tunisina, compresa la guardia costiera, hanno commesso gravi abusi contro i migranti dell’Africa nera, i rifugiati e i richiedenti asilo. Gli abusi documentati includono percosse, uso eccessivo della forza, alcuni casi di tortura, arresti e detenzioni arbitrarie, espulsioni collettive, azioni pericolose in mare, sgomberi forzati e furti di denaro e beni”. Pertanto, osservava l’organizzazione, “la Tunisia non è né un luogo sicuro per lo sbarco di cittadini di Paesi terzi intercettati o salvati in mare, né un Paese terzo sicuro per il trasferimento dei richiedenti asilo. (…) L’UE dovrebbe sospendere i finanziamenti per il controllo della migrazione alle forze di sicurezza e fissare dei parametri di riferimento sui diritti umani per un ulteriore sostegno”.

Nel corso dell’ultimo anno la situazione è progressivamente peggiorata in Tunisia in conseguenza dello sfaldamento complessivo dello stato di diritto, e la violenza verso gli stranieri, specie se subsahariani, si è fatta sistematica. Tra i fatti più drammatici vanno segnalati quelli accaduti in seguito allo sgombero, avvenuto il 3 maggio 2024, di circa 500 migranti accampati davanti alle sedi di UNHCR e OIM a Tunisi; molti di essi sono stati condotti forzatamente in Algeria, mentre altri sono stati abbandonati vicino al confine con l’Algeria senza cibo né acqua, lontano da luoghi abitati. Alcuni rifugiati, con l’appoggio di ASGI hanno presentato un ricorso di urgenza al Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite; il Comitato è intervenuto chiedendo alla Tunisia di fornire loro l’assistenza necessaria, compresa quella medica e di non procedere ad espulsioni finché il caso è all’esame del Comitato, nonché di prevenire qualsiasi minaccia, atto di violenza o rappresaglia a cui potrebbero essere esposti in seguito alla presentazione della richiesta al Comitato.

Incurante della decisione del Comitato, i ricorrenti, compresi i minori, sono stati arrestati e detenuti per circa una settimana e processati per ingresso irregolare nel paese. Secondo ASGI alcuni di loro, al termine del processo, sono stati deportati in Algeria. Appena pochi giorni fa, il 19 giugno scorso, con una comunicazione inviata all’IMO la Tunisia ha ufficializzato la propria area SAR, altresì dai confini estremamente estesi. La strategia posta in essere dalla Tunisia con il supporto del Governo italiano in carica mi sembra quella di voler imporre nella realtà un significato della nozione di area SAR che nulla ha a che fare con il diritto internazionale: da obbligo dello Stato di creare un sistema efficiente di ricerca e soccorso, a rivendicazione dell’esistenza di una sorta di “diritto di cattura” dei naufraghi. Ogni intervento di soccorso diretto posto in essere da navi private, nonché ogni azione di coordinamento dei soccorsi attuato da parte delle autorità statali italiane (o maltesi) per essere conforme al diritto internazionale e dell’Unione Europea sulla tutela dei diritti fondamentali al cui rispetto gli Stati europei sono vincolati deve tenere conto della reale situazione di grave insicurezza e violenza verso gli stranieri in atto in Tunisia e che ne fa un luogo non sicuro per i naufraghi.

3 Luglio 2024

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