Linciaggio contro l'avvocato
Perché Giancarlo Pittelli è stato vittima di linciaggio: roba da far west
Il ridicolo racconto della sua vita e della sua persona dato in pasto ai calabresi e agli italiani, non ha alcun punto di contatto con tutto ciò che abbiamo visto e vissuto per decenni, alla luce del sole. Non solo io, ma centinaia o migliaia di persone che lo hanno conosciuto
Editoriali - di Enrico Seta
Io sono solo un amico di Giancarlo Pittelli, uno dei trenta compagni di liceo in una piccola città di provincia. Negli anni dell’università e della vita adulta non ci siamo frequentati assiduamente, vivendo in città diverse. La notizia del suo arresto, alle prime luci dell’alba del 19 dicembre 2019, ha disvelato una verità per me stupefacente, lontanissima dall’idea che avevo della sua vita. Il “caso” di questo noto penalista calabrese si è presentato nelle forme di un turbine mediatico devastante. Violentissimo, a senso unico. Questa azione d’urto si è ininterrottamente intrecciata con quella di una pubblica accusa che, a sua volta, ha condotto una parallela attività extra ordinem di mobilitazione dell’opinione pubblica. Mi sono confrontato più volte con il racconto di questa vita arrivato all’improvviso. L’ho fatto in modo aperto a ogni ipotesi, anche la più inquietante. Anche a costo di accogliere il dubbio radicale sulla innocenza di Giancarlo e di sentire il rimorso dell’ingratitudine verso le manifestazioni di affetto sincero ricevute da lui e dalla sua famiglia. Ho sottoposto a un vaglio severo tutto ciò che so di lui, le debolezze del suo carattere, i suoi successi politici in un ambiente strutturalmente inquinato. Ho addirittura provato a ricercare in episodi del giovanissimo compagno di scuola i primi indizi di una personalità eticamente fragile. L’ho voluto fare anche con malizia e con cinismo, fino a sentirmi in colpa per averlo fatto.
Oggi, il mio libero e più intimo convincimento è che si tratti di un linciaggio e niente altro. Un linciaggio consumato in una plaga desolata in cui non esistono più rapporti sociali, buon senso, ricordi, storie familiari. Un linciaggio da far west, condotto con la sfrontatezza di chi sa di essere coperto e incoraggiato dallo sceriffo e, quindi, sa di potersi permettere tutto perché dei suoi soprusi non sarà mai chiamato a rispondere. Il ridicolo racconto grandguignolesco della vita e della persona di Giancarlo Pittelli che è stato dato in pasto ai calabresi e agli italiani, non ha alcun punto di contatto con tutto ciò che abbiamo visto e vissuto per anni, decenni, alla luce del sole. Non solo io, ma centinaia o migliaia di persone che lo hanno conosciuto: i suoi colleghi di lavoro, i suoi amici politici, i parlamentari della Repubblica, i funzionari dei due rami del Parlamento, le persone che egli ha assistito professionalmente, aziende di grande prestigio e fatturato, migliaia di persone che hanno conosciuto suoi conoscenti, i membri della sua famiglia, la storia stessa dei suoi genitori e progenitori. Nulla di tutto ciò emerge dal grottesco racconto che è stato fatto e che costituisce oggi la nuova immagine di Giancarlo Pittelli. L’effetto è stato quello di una integrale “sostituzione di persona”.
E ciò può continuare ancora oggi, a quattro anni e mezzo di distanza da quel 19 dicembre, dopo tre anni e mezzo di privazione della libertà. Mentre questa persona vive nella sua città alla luce del sole, ha ripreso a frequentare i suoi amici, a salutare l’edicolante che gli vende il giornale la mattina, il barista che gli prepara il caffè, il medico che lo cura, l’infermiere che lo assiste in ospedale. Come gli è già accaduto più volte, egli può aspettarsi di aprire il giornale la mattina e vedersi descritto come un capomafia dalla doppia vita. In effetti, Giancarlo Pittelli vive ormai una vita sdoppiata, come il personaggio di un racconto di Pirandello: quella dominante offerta in pasto al pubblico e quella marginale in cui egli coltiva le poche relazioni con coloro che si ostinano a non veder morire il vecchio Giancarlo Pittelli. Ma queste relazioni sono costantemente minacciate dal rischio di defezioni, di atti silenziosi di resa, di cambiamenti inconfessati e coperti con vergogna. Penso che la sua sia un’esperienza unica e misteriosa, al pari di quella della chimera che condivide due nature in una. Non è il caso qui di descrivere aspetti giudiziari di questa vicenda fuori dall’ordinario. Altre sedi hanno verificato e verificheranno se siano stati rispettati principi fondamentali dello stato di diritto: il principio costituzionale del giusto processo, il principio di presunzione di innocenza, ma anche il diritto a essere giudicati dal proprio giudice naturale. E ancora: se sia stato, in questa vicenda, rispettato il giudicato della Suprema Corte di Cassazione e la garanzia della preservazione dell’integrità dei mezzi di prova, così come il principio di ragionevolezza ed economicità degli atti giudiziari. In altre sedi si verificherà se sia stato fatto buon uso della giurisprudenza e della millenaria dottrina sulla prova del reato. Queste e altre questioni di natura tecnica – ma di interesse primario per tutti i cittadini – troveranno le sedi idonee per essere chiarite.
La mia è solo una testimonianza e una confessione pubblica, per quello che può valere. Dopo quattro anni e mezzo forse non mi riconosco più nella parola “amico”: spesso con Giancarlo ci capita di rivolgerci fra di noi con la parola “fratello”. E io mi ritrovo a mio agio in questa nuova relazione. Perché la sua pesantezza del vivere non è che la mia, amplificata. Perché nel suo pessimismo mi rispecchio fedelmente. Perché la miseria della sua condizione non è che la rappresentazione più veritiera della miseria della mia condizione di uomo comune di fronte a un potere talvolta oscuro e incomprensibile, pieno e incontrollato. Spesso mi sono trovato a incoraggiare Giancarlo e i suoi familiari più stretti alla pazienza nel far trascorrere altri mesi, altri anni forse, prima di giungere a un atto di giustizia nel quale è necessario e legittimo confidare. Ma a volte avverto una nota stonata nelle mie parole. Invece, i momenti in cui forse mi avvicino di più alle loro vite sono quelli nei quali riesco a immaginare un tempo diverso da quello dell’attesa. Il loro è il tempo che viene distillato nelle sale della tortura: un tempo-minaccia, un “tempo senza tempo”.
Un solo esempio: è accaduto di recente che, al di là di ogni ragionevolezza e criterio di economicità degli atti giudiziari, sia stata formulata dalla Procura di Catanzaro una nuova richiesta di arresto dell’imputato. Ovviamente è stata respinta per la sua infondatezza, ma l’enormità del fatto resta. Perché è stata formulata dopo che tutto il tormentato procedimento cautelare era stato esaurito, dopo ben due sentenze della Cassazione, ma anche dopo sette mesi dall’emanazione della stessa sentenza di primo grado del giudice del merito. Questa enigmatica mossa scacchistica non ha apparentemente alcuna razionalità. Ma essa ha sortito l’effetto di elevare il livello di angoscia dell’imputato e dei suoi familiari e di tramortire sotto il peso di nuovi interrogativi gli amici e conoscenti che da mesi hanno riavuto la possibilità di frequentare Giancarlo Pittelli. Quali fatti nuovi sono intervenuti? Nessuno. Nella richiesta si parla di “ingenti mezzi economici”, di “pericolo di fuga”, di “importanti ed influenti relazioni” dell’imputato. Sembra una irrisione beffarda della condizione reale – nota a tutti e in primis ai suoi inquisitori – di quest’uomo e di questa famiglia. Cosa sta accadendo? Perché dagli uffici di Procura arriva un tale sberleffo al diritto di difesa di un cittadino inerme? Il suo messaggio è stato però potente: il tempo della tortura continua; non finirà mai.
Il senso della mia testimonianza, in fondo, è uno solo: la assoluta impossibilità a definire la vicenda di Giancarlo Pittelli un “processo”. Ho sempre considerato il processo come un evento che appartiene alla modernità: il frutto del lungo cammino di civilizzazione delle nostre società, una conquista addirittura di libertà e una garanzia di rapporti, regolati, fra “parti” contrapposte. Quanta ricchezza di significato in questa parola – “parti” – che allude a un distacco emozionale, a una separazione che preserva alcuni vitali vincoli sociali. Al lato semanticamente opposto trovo questa vicenda oscura, impenetrabile, che osservo e a cui partecipo da quattro anni e mezzo e che non so più come definire. È una lotta senza mediazioni, senza “parti”. Un corpo a corpo totale, unilaterale, a mani nude fra un individuo che vuole solo continuare a esistere e una forza impersonale che vuole annientarlo. Qualcosa che non appartiene al mondo moderno ma a un mondo arcaico: quello della vendetta, del “regolamento di conti”, dell’ordalia.
*Portavoce Comitato Appello per Pittelli