L'adunata delle opposizioni
Meloni nell’angolo, debole sulle riforme e isolata in Europa (e il Pd gongola)
L’ostracismo di Macron e Scholz e le opposizioni che chiamano l’adunata contro il premierato: Giorgia rischia
Politica - di David Romoli
È un Pd galvanizzato e convinto di avere il vento in poppa quello che affila le armi, con il grosso dell’opposizione, in piazza Santi Apostoli, a Roma. Non ci sono Renzi e Calenda, ma il verdetto delle urne li ha condannati a una molto limitata rilevanza. Conte è insidiato dal dissenso interno a cui dà voce Grillo in persona, umiliando pubblicamente l’avvocato. Ma la stragrande maggioranza di quello che è ormai un establishment di partito lo appoggia e la sconfitta rende la sua guerriglia interna depotenziata. Ma i veri motivi d’ottimismo il Pd li trova guardando dall’altra parte della barricata. Meloni ha vinto le elezioni, certo, però quelle centinaia di migliaia di voti in meno indicano una tendenza diversa, anzi opposta.
I suoi ufficiali non perdono occasione per fare danno: tra saluti romani, botte da squadraccia e battutacce sui forni crematori danno un contributo impareggiabile. Sulle riforme, obiettivo della manifestazione di ieri, il governo è debole. L’autonomia al Centro e al Sud è detestata, tanto che la premier carezza il sogno di modificarla profondamente alla Camera ma anche il premierato, pasticciato com’è, rischia il capitombolo referendario. Poi c’è lì l’Europa e va da sé che gli occhi siano puntati sul palcoscenico europeo. La politica estera è stata la vera carta vincente della premier nei suoi quasi due anni di governo: un punto di forza assoluto in una fase dominata dalle guerre, nella quale la politica estera fa premio su tutto. L’innegabile successo ottenuto pochi giorni fa al G7 conferma che proprio su quel fronte, tradizionalmente il fianco esposto dei governi di destra, Meloni è più blindata. Ma le cose potrebbero cambiare presto e l’intera opposizione, anche quella parte che ieri non era a piazza Santi Apostoli, ci spera ardentemente.
Grazie a un posizionamento strategico e alla vigilia imprevedibile sul conflitto in Ucraina, Meloni ha visto oltreconfine e in particolare a Bruxelles e Washington tutte le porte aprirlesi davanti quasi senza neppure bisogno di bussare. La paura dell’ondata di destra in Europa ne ha improvvisamente richiuse molte. Due giorni fa a Bruxelles Macron e Scholz hanno giocato durissimo, decisi a rinchiudere la di nuovo la premier italiana nel recinto degli impresentabili di estrema destra. Dicono che gli stessi capi di governo convenuti alla cena che avrebbe dovuto lanciare ufficialmente le quattro candidature per i vertici istituzionali dell’Unione siano rimasti sbigottiti di fronte alla rudezza assai poco diplomatica con la quale il cancelliere tedesco e il presidente francese hanno voluto umiliare la collega premier italiana. Da un momento all’altro la già vezzeggiata Giorgia si è ritrovata bollata con la lettera non scarlatta ma nero orbace che già pesa su impresentabili come Orbàn o i tedeschi della AfD. Né è solo questione di immagine. Rifiutare l’appoggio degli eurodeputati di FdI, porre anzi l’assenza di trattative con loro come condizione per sostenere la candidatura von der Leyen alla guida della presidenza della Commissione, significa da un lato sottolineare che l’Italia conta pochissimo e dall’altro prepararsi a offrire un commissario di secondo piano a Roma.
Meloni ha reagito con la stessa durezza. I capi di governo quasi non si erano ancora seduti a tavola, lunedì sera, quando l’italiana ha cancellato l’illusione di chiudere subito la partita, in tempi fulminei, tanto da permettere addirittura a Macron di alzarsi in tempo per la partita. Messa brutalmente all’angolo, Meloni ha imposto il rinvio perché si augura che nei prossimi 10 giorni il quadro e i rapporti di forza possano cambiare a suo favore. Il Ppe è la chiave di volta dell’intera trattativa ma il Ppe, in materia di rapporti con la destra, è lacerato. Lunedì, per bocca del premier polacco e delegato alla trattativa per il Ppe Tusk, si è fatta sentire l’ala che vuole tenere FdI nel ghetto degli underdog. Il polacco ha dato man forte a Macron e Scholz: “Non abbiamo bisogno dei voti di Meloni. Abbiamo già la maggioranza”. Ieri ha risposto il fronte opposto, col presidente del partito Weber: “I cittadini hanno votato. L’Europa è di centrodestra e le nomine devono tenerne conto”. Alla fine, la vittoria o la sconfitta di Meloni si misurerà proprio sulle nomine: se otterrà un commissario pesante, per esempio gli Esteri o la Difesa scorporata dagli Esteri per il suo vicepremier Tajani, che nega di essere in corsa ma forse alla premier non dispiacerebbe affatto toglierselo di torno in Italia, o per la la diplomatica Elisabetta Belloni, uscirà dal torneo a testa alta. Altrimenti il colpo alla sua immagine sarà quasi fatale.
L’accordo tra popolari e socialisti, inoltre, è fragile. Il Ppe non vuole il portoghese Costa, troppo poco bellicoso sul fronte russo, presidente del Consiglio europeo e se proprio deve ingoiarlo vuole che sia solo per metà legislatura, poi dovrebbe passare le redini a un popolare. In compenso lo stesso Ppe boccia la staffetta, che sembrava invece acquisita, per la presidenza del Parlamento europeo: insiste perché il mandato di Roberta Metsola duri per l’intera legislatura. I popolari, inoltre, bocciano qualsiasi concessione ai Verdi e senza il soccorso verde i voti di FdI diventano per Ursula von der Leyen questione essenziale. Senza quella rete di protezione rischia di essere spolpata nel voto segreto dai franchi tiratori. La premier è in difficoltà ma con carte da giocare di qui alla riunione formale del Consiglio, il 26 e 27 giugno.
Però i suoi guai non si fermano qui. Dal no italiano alla ratifica della riforma del Mes sono passati i sei mesi necessari per ripensarci. L’Europa torna alla carica, pretende quella firma e con la trattativa sulla commissione in corso negarla sarà per il governo di Roma tanto difficile quanto rischioso. Anche perché nel riassetto della destra a Strasburgo la leader dei Conservatori è sotto tiro e firmare la riforma la esporrebbe ancora di più al “fuoco amico”. Se, come è probabile, si formerà un nuovo gruppo al quale aderiranno parti sia di Identità e Democrazia, a partire dal Rassemblement di Marine Le Pen, sia dell’Ecr, con i polacchi del Pis che sono il secondo partito per forza dopo FdI, sia lo stesso Orbàn, l’italiana si troverà di fronte a un dilemma: aderire, perdendo molto potere interno, oppure restare fuori ma senza più un gruppo forte a sostenerla. Per il Pd e per il popolo di piazza Santi Apostoli una Meloni in difficoltà in patria e isolata in Europa sarebbe lo scenario migliore che si possa immaginare. Ieri quello scenario appariva se non già realizzato neppure più solo un miraggio.