L'hotspot in Albania
Meloni non ha stoffa da leader e si vede: ecco perché
La retorica della presidente del Consiglio rimanda sempre alla demagogia deteriore. Stampino teatrale, infantilizzazione del pubblico, forme caricaturali meschine. La via breve allo scadimento della politica
Editoriali - di Michele Prospero
Per capire la teatralità che Giorgia ha imposto alla politica nostrana, assumendo da ultimo anche la maschera della “stronza”, che in visita nel gulag albanese per i naufraghi risponde ad un deputato malmenato “seeeh, poveri cristi”, sono utili – di nuovo – alcuni spunti di Gramsci.
Studiando le tendenze elementari sollecitate dai media del tempo, egli comprese la recitazione teatrale che irrompeva anche sul palcoscenico politico con esagerazioni o provocazioni linguistiche e cavalcando le dinamiche di un senso comune folgorato dalle sparate più grossolane.
I Quaderni descrivevano la emersione di una figura di leader nel cui parlare aggressivo e privo di controllo si evidenziava un contegno declamatorio caratterizzato da una “solennità gonfia, oratoria, e dal sentimentalismo melodrammatico, cioè dall’espressione teatrale, congiunta a un vocabolario barocco”.
L’avvio della riflessione di Gramsci era che il successo di un capo recitante, della stessa pasta ad esempio di quello che oggi sbraita in piazza “Elly, non scappare, rispondi”, sarebbe stato impensabile senza la presenza di “un gusto melodrammatico” allignante nella società. Per questo è fondamentale esplorare i luoghi e le modalità di formazione del (cattivo)gusto popolare.
In qualità di pensatore della crisi delle democrazie, Gramsci intuiva che la concezione unitaria del popolo andava scomposta per cogliere le risposte differenziate date ai processi politici.
“La crisi crea situazioni immediate pericolose, perché i diversi strati della popolazione non possiedono la stessa capacità di orientarsi rapidamente e di riorganizzarsi con lo stesso ritmo”.
Ora, spente le fabbriche quali sedi di coscienza di classe, distrutti i partiti con le cure di Occhetto e Veltroni, le condizioni di resistenza della società civile coinvolgono le cosiddette Ztl e le università, entrambe non a caso sottoposte al dileggio da parte della destra.
Nel vuoto delle mediazioni organizzate, la manipolazione demagogica vince con facilità e i media aiutano la “capa” trasmettendo i comizi in diretta o apparecchiando per lei la lunga e soporifera “melontana”, evento di riposizionamento della “Sette” annunciato non a caso dal portavoce del Potere, Paolo Mieli.
L’irrazionalismo, che portava alla identificazione della folla con un politico che curava le sue pose attoriali, negli anni Trenta contagiava un pubblico “formatosi non alla lettura e alla meditazione intima e individuale della poesia e dell’arte, ma nelle manifestazioni collettive, oratorie e teatrali. E per «oratorie» non bisogna solo riferirsi ai comizi popolari di famigerata memoria, ma a tutta una serie di manifestazioni di tipo urbano e paesano”.
Secondo Gramsci, quando declinano la cultura e l’autonomia critica del soggetto, la teatralizzazione manipolatoria diviene irresistibile. Al fine di conoscere l’involuzione della comunicazione politica, non occorre partire dall’esame del leader che seduce con destrezza ma afferrare con precisione anzitutto i caratteri del pubblico che si lascia abbindolare.
E’ sempre il destinatario l’elemento cruciale di ogni retorica. La leadership popolana, all’epoca di Gramsci come anche oggi, confida nella estensione di una mentalità fortemente semplificata e si avvale di affondi strumentali per dividere, suscitare opposte tifoserie.
“I teatri popolari con gli spettacoli, così detti da arena (e oggi, forse il cinematografo parlato, ma anche le didascalie del vecchio cinematografo muto, compilato tutto in stile melodrammatico), sono della massima importanza per creare questo gusto e il linguaggio conforme”.
Le fortune di un leader dalla eloquenza degenerata riconducevano, nell’indagine dello scienziato comunista sardo, alla officina del senso comune passivizzato, che, nel trionfo di un “provincialismo-folcloristico” o nell’“ammirazione per il linguaggio da libretto d’opera”, vedeva al lavoro tutte le agenzie della cultura di massa.
L’operazione di decostruzione di ogni spirito critico nella società civile fu intesa con profondità da Gramsci. Il teatro, il cinema, i media inducono la platea ad abbandonarsi dinanzi alla diatriba eccessiva, alle “schermaglie e bizze particolari”. Un pubblico maleducato è la precondizione per il trascinamento di un capo smodato che disprezza le convenzioni e la misura.
Perché un leader senza freni possa affermarsi, occorre che gli investimenti degli apparati ideologici producano una massa disposta a subire il fascino delle esagerazioni.
Gramsci ipotizzava proprio un intervento consapevole delle potenze dell’immaginario: “L’interesse del pubblico viene sviato: da parte in causa, il pubblico diventa mero «spettatore» di una lotta di gladiatori, che si aspetta i «bei colpi», in sé e per sé: la politica, la letteratura, la scienza vengono degradate a gioco «sportivo». In questo senso occorre perciò condurre le polemiche personali, bisogna cioè ottenere che il pubblico senta che «de te fabula narratur»”.
La politica si converte in una contesa personalizzata carica di finzioni ed effetti speciali, mentre il pubblico deve solo tifare per uno dei gladiatori.
Se Giorgia esibisce ovunque un tono così urlato e ostile al galateo, ciò accade perché per le sue stoccate pittoresche trova un sentiero ben battuto dai social, dalla tv spazzatura, dai giornali.
Dal demenziale dialogo tra “Bianchina” e il montanaro fino allo sguaiato Del Debbio che garantisce alla premier un’acclamazione in uno studio televisivo trasformato in stadio, è così che viene professionalmente generato il punto di vista teatrale indispensabile per lo scadimento della politica.
Quella sensibilità pronta ad osannare Giorgia si definisce proprio nel salotto di Vespa, nei talk e sui social, dove regna un collaudato schema di polarizzazione che bandisce analisi complesse.
L’essenza delle rappresentazioni (anti)politiche, notava già Gramsci, è che “queste manifestazioni hanno tutte un pubblico di «tifosi» di carattere popolare”.
Le continue scenette di Meloni, che dal podio balla la macarena mentre la folla grida “Giorgia-Giorgia”, una sola voce isolata osa un “vincere e vinceremo”, oppure gira con un grande dispendio di tempo il video di “Telemeloni”, entrano in sintonia con “il gusto melodrammatico del popolano italiano”.
La presidente del Consiglio, considerata anche la sua reale struttura di statista dalle scarse letture, non ha difficoltà a esprimersi in maniera teatrale, a recuperare certi tratti esteriori dell’invettiva e dell’istrionismo.
L’essenza della sua retorica rimonta alla nozione denominata da Gramsci “demagogia deteriore”, che vede il capo “servirsi delle masse popolari, delle loro passioni sapientemente eccitate e nutrite, per i propri fini particolari, per le proprie piccole ambizioni (il parlamentarismo e l’elezionismo offrono un terreno propizio per questa forma particolare di demagogia, che culmina nel cesarismo e nel bonapartismo coi suoi regimi plebiscitari)”.
Giorgia col suo gergo costantemente impregnato di trovate popolaresche sembra sbucata fuori da una commediaccia di Boldi. Per intercettare sentimenti assai diffusi in una società che rimane poco colta, e per questo incline a scagliarsi contro “i radical chic”, su ogni palco scherza e graffia potendo ricorrere ad una molto solida tradizione nazionale di contrapposizioni artificiali.
Dopo essersi giocata tutte le carte nel racconto prefabbricato di una patriota trasvolatrice che vaga per il mondo indossando mille abiti nuovi alla ricerca di una foto con un potente della Terra, Meloni è indotta a una inevitabile correzione di rotta.
Si dichiara “stronza” perché in fondo va bene sghignazzare, non c’è niente di male a farsi immortalare con la baronessa tedesca armata fino ai denti e in cerca di una riconferma o a ricevere alla Casa Bianca il bacio della legittimazione in testa, ma qualcosa di più sostanziale e meno naïf deve pur affiorare dopo due anni di potere assoluto.
Le storielle edificanti su Ginevra devono lasciare il posto ad un “gladiatorismo gaglioffo” grazie al quale Meloni si atteggia a donna che non sopporta “i bulli” e assesta ceffoni. Che carisma può mai sprigionare una donna che in conferenza stampa confessa che le “scappa la pipì” e “fanno malissimo i piedi”? Meglio mostrare il volto della “stronza” nella costruzione della immagine di sé.
Dove la capacità di governo latita con decreti-spot da repubblica delle banane, e contagiosa cresce la sensazione della completa nullità politica incarnata dalla prima donna al comando a digiuno di rudimenti di economia o diritto costituzionale, ecco il fattore scenico che riconquista una preminenza nello spazio pubblico attraverso una tattica di accentramento.
Dietro questo incastro di teatralizzazione, posture seduttive e infantilizzazione del pubblico Gramsci scorgeva un problema strutturale, che è tuttora irrisolto.
La politica che adotta lo stampino teatrale “non è altro che un riflesso del fatto che non esiste ancora una unità nazionale-culturale nel popolo italiano, che il «provincialismo» e particolarismo è ancora radicato nel costume e nei modi di pensare e di agire; non solo, ma che non esiste un «meccanismo» per elevare la vita dal livello provinciale a quello nazionale europeo collettivamente e quindi le «sortite», i «raids» individuali in questo senso assumono forme caricaturali, meschine, «teatrali», ridicole, ecc. ecc.”.
La mancanza di un organico collegamento tra locale, nazionale ed europeo è la fonte di una politica che oscilla tra il particolarismo leghista, il registro scenografico della “Ducia” e un europeismo delle élite che stenta a delineare una credenza di massa.