La cosa piumata della premier
Meloni e la politica ridotta ad avanspettacolo: tra gag e macchiette va in onda la commedia all’italiana
L’ultima versione della commedia all’italiana è Meloni bersagliera. La nostra alterna gag e macchiette per intrattenere il pubblico, impersonando quella politica ridotta a marketing di cui aveva parlato Schumpeter
Editoriali - di Michele Prospero
Con le piume sul cappello e la corsa della bersagliera, può ritenersi ormai completata la metamorfosi di Giorgia detta Giorgia da “ducia” in caratterista onnipresente nelle scenette ripetitive della politica pop. I panni dell’agitatrice sovranista, che urla con metafore di guerra nelle terre della corrida, sono stati accantonati.
Ora la recita prevede solo immagini irriflessive e tante parole banali. Sul lungomare di Pescara è apparsa evidente l’adozione dell’intrattenimento come misura del riconoscimento della leadership meloniana nella sfera pubblica del disincanto.
I più solerti commentatori di Repubblica suggeriscono alle opposizioni un “Gedimento” alla destra per adeguarsi ai rituali del marketing e non sfigurare nella contesa iper-leggera di una politica ad una sola dimensione, quella del partito personale.
La loro spiegazione del fenomeno dell’anti-comizio, come modalità espressiva tipica del politico post-moderno, è che nell’era dei social media non ci sono alternative alla trasformazione del consenso argomentato in una operazione superficiale, che induce a cliccare “like” su qualcuno o qualcosa.
Eppure, prima che la rete facesse emergere il profilo del follower al posto dell’attivista o militante, e la tv imponesse il volto seduttivo del leader in luogo di una classe dirigente plurale, Joseph A. Schumpeter rifletteva già sulla contiguità tra sostegno politico e dispositivo pubblicitario.
L’economista e politologo, ormai lontano dagli scontri della vecchia Europa, riscontrava in una società mercantile di massa come quella americana un nesso tra la proliferazione del mercato e la de-ideologizzazione dei partiti (“nell’esperienza comune partiti diversi adottano esattamente o quasi lo stesso programma”). Con il congelamento delle fratture di classe, la posta in gioco della concorrenza elettorale si restringeva ad una gara vaporosa per la selezione della leadership più accattivante.
Schumpeter è stato il primo teorico della politica ridotta a marketing, che riesce a determinare i processi elettorali con gli stessi meccanismi richiesti in una società del consumo per piazzare un prodotto su uno scaffale.
Le tecniche della pubblicità si diffondono indifferentemente, coprono il mercato dei beni come la competizione politica. Alla base del ricorso ai ritrovati della commercializzazione c’era l’ipotesi per cui nei comportamenti collettivi, tanto nell’acquisto di beni quanto nel consenso da dare all’autorità, prevale “l’elemento irrazionale della condotta umana”.
Con questo assunto Schumpeter rigettava la teoria classica della democrazia intesa come partecipazione, spirito critico nella valutazione delle proposte, autonomia del giudizio individuale. La “smentita dell’ipotesi della razionalità” comportava per lui una grande fuga dal confronto tra solide argomentazioni, dall’affidamento dei nodi programmatici al discernimento dell’opinione pubblica.
La descrizione delle influenze extralogiche conduceva Schumpeter alla demistificazione del postulato razionalista cui egli contrapponeva le arti manipolatorie come più efficaci per vendere un volto qualsiasi sul mercato politico.
L’elettorato reale si presentava, in una indagine abbozzata con una venatura scettica, come “insofferente verso ragionamenti lunghi e complessi”. La cittadinanza era tutt’altro che informata sull’agenda, anzi, attorno alle più spinose questioni, essa versava in un “gradino inferiore di rendimento mentale”.
La conclusione inevitabile di tale radiografia era che il cittadino democratico si dimostrava inadatto, davanti a un’asserzione controversa, a compiere “un controllo logico effettivo”. L’assunto chiave di Schumpeter era perciò che nell’arena politica, tramutata in dominio della tecnica pubblicitaria per favorire la circolazione di leader e opinioni, “più di un argomento razionale conta un’affermazione più volte ripetuta”.
In un simile scenario inutili si rivelavano la prova dimostrativa della validità delle proposte, l’offerta di argomenti complicati. Invece di sprecare energie attorno alla ricerca di spiegazioni ragionevoli, bisognava cedere dinanzi alla efficacia persuasiva della narrazione più attrezzata per trascendere ogni compatibilità e navigare con parole superficiali nell’assoluta finzione.
Come la pubblicità di un prodotto viene abitualmente associata ad una immagine a sfondo sessuale, così anche la politica in una società di mercato deve penetrare nelle zone più istintuali. Nella comunicazione volta ad incamerare un assenso solo passivo, rileva Schumpeter, più della consequenzialità “conta l’appello diretto al subconscio nella forma di tentativi di evocare e cristallizzare associazioni gradevoli di natura completamente extrarazionale e, molto spesso, sessuale”.
Per sfondare nel gradimento occasionale del pubblico, il leader dovrebbe rivolgersi non certo alla ragione dell’elettore, sollecitato con argomenti logici rigorosi, ma all’emozione attraverso l’astuta stimolazione di impulsi, il rimando evocativo a idee preconcette o a pregiudizi normalmente rimossi.
Il pubblico reale è infatti pigro e non mostra alcuno sforzo nell’“assimilare i dati informativi”. Il marketing politico spinto all’estremo sconfinava, secondo Schumpeter, nel pericolo della nuda manipolazione: “Quella che abbiamo chiamato volontà manipolata non esula più dalla teoria, non è più un’aberrazione della dottrina pura in cui preghiamo il cielo di non cadere mai”.
Diffidando del popolo che si fa agevolmente trascinare da slogan infantili per via di “un senso ridotto della realtà”, anche Schumpeter si mostrava piuttosto inquieto dinanzi alle sorti del regime democratico.
Il marketing e l’apatia per un verso andavano perseguite per pacificare l’ordine sociale, per un altro, però, proprio la mercificazione spettacolare della politica conduceva con la sua vittoria alla eutanasia delle classi dirigenti.
Abile nella seduzione e nella vendita di programmi elettorali alla stregua di prodotti commerciali, il politico affinava l’immagine ma perdeva ogni attitudine al governo di una società complessa. Il timore dell’economista austriaco sul costo elevato del declino delle élite è confermato anche dalla parabola di Giorgia Meloni, che grazie anche a delle trovate estemporanee ottiene i pieni poteri per spegnere il dissenso, ma poi non sa che farsene poiché appare a digiuno delle abilità minime necessarie per governare.
Per impedire il suicidio della democrazia, che proprio la follia del mercato trionfante impone, occorrono non già dei tentativi – vagheggiati anche da qualche quotidiano progressista – di imitazione della Meloni, ma il recupero di qualcosa di antico: una ripresa del conflitto sociale per il tramite di partiti arricchiti da una cultura e una teoria politica autonome. Un capitalismo che vaga senza il nemico interno socialista, perde la testa.
La tendenza organica del capitale a sciogliere come liquida anche la cosa più solida si espande così in ogni ambito dove la forma della merce si insinua, inghiottendo immaginari, ideologie, sovrastrutture, credenze, persino ordinamenti giuridici.
Il nichilismo di Giorgia Meloni detta Giorgia è la conferma empirica che l’Italia, dal marketing come strategia di smercio dagli effetti magici, è precipitata nel marketing come sostanza di una politica che smarrisce il senso della realtà, la complessità dell’agenda, la percezione della temporalità.
Non può di sicuro bastare, dinanzi a questo esito catastrofico, la soddisfazione che esiste pure un risvolto positivo nella conversione della statista di Colle Oppio dall’universo paganeggiante di Evola al mercatismo di Schumpeter, dalle memorie della marcia su Roma alla simulazione della marcetta dei bersaglieri.