Il ritratto della premier
Meloni spacca l’Europa: un po’ despota, un po’ Arlecchino è la più spietata leader europea
Il Wall Street Journal l’ha ritratta come una specie di Arlecchino, Liberation la inchioda come la più spietata leader europea. Meloni è l’uno e l’altra
Editoriali - di Michele Prospero
Ben due copertine sono state dedicate a Giorgia Meloni. Quella del “Wall Street Journal” la raffigura in versione clownesca, con il capo nascosto sotto la giacca per rispondere a un Bonelli raggelato dal suo linguaggio degli occhi. Il foglio francese “Liberation” descrive invece la vecchia “admiratrice de Mussolini” come “la plus habile, la plus calculatrice et la plus impitoyable d’Europe occidentale”.
Il bacio sulla nuca che le ha dato Biden non è bastato per considerarla con la testa politica ormai a posto. Una imbonitrice mediterranea o una despota spietata? Le curve delle apparenze avvolgono Meloni, costretta a dover giocare a moscacieca con la coerenza perché su ogni questione importante ha cambiato giudizio.
Anche il presidente libanese si lascia abbagliare dalla sua strutturale ambiguità e, confuso dalla rassomigliante tinta dei capelli e dalle identiche onde dei boccoli, scambia la Patriota con la sua assistente.
Neanche il codice istituzionale della “post-fasciste” Giorgia Meloni, come la definisce Liberation, aiuta a sciogliere l’enigma. Mentre impone le decisioni più illiberali, la presidente del Consiglio segue sempre più lo spartito della farsa e in Aula scherza, inventa siparietti. Tutti i consigli ad attenersi alla forma arrivano invano alle sue orecchie.
Lo storico della letteratura Nino Borsellino (La tradizione del comico, Milano, 1989) ha individuato una vasta tipologia delle tonalità del comico: parodia, bozzettismo caricaturale, bizzarria, travestimento dissacrante, espressionismo grottesco, irrisione, mimesi orale e gestuale.
Meloni non si fa mancare nulla dal punto di vista della messinscena. È per lei una esigenza funzionale ad un disegno, non una semplice dimenticanza delle buone maniere, quella che la induce alla discesa spericolata nel regno scoppiettante dell’informale.
Per chi accarezza il sogno antico che fu della Buonanima, e in cuor suo spera sempre di ridurre il parlamento ad un emiciclo sordo e grigio, la sceneggiata sopra le righe dinanzi alle Camere deve coronare un desiderio che oggi, per i patrioti, non è più proibito. La premier, che si concede illimitate licenze espressive nel segno della spontaneità propria di “noi romani”, strapazza i “ragazzi” onorevoli.
Ovunque lei parli, preferisce cimentarsi in sketch che un tempo venivano inscenati, combattendo gli sbadigli, al Salone Margherita. Non disdegna il dileggio di luoghi e persone perché nulla ha un significato e il riso o lo scherno prevalgono sulla capacità di sviluppare un’analisi proponendo un ragionamento impegnativo.
Per questo non dà ascolto alle ingessate regole della retorica, le quali suggeriscono che “l’oratore deve evitare di abbassarsi al livello dei mimi e degli imitatori, deve scrupolosamente schivare la comicità grossolana” (Cicerone, De Oratore, Rizzoli, p. 477).
Esibendosi in un piano-bar con Salvini oppure intervenendo a Palazzo Madama, Meloni è disposta a qualsiasi bislaccheria e ricorre a mille faccette, gesti, vocine. Poiché sospetta di non avere un rigore concettuale paragonabile all’abilità raggiunta nel calcio (naturalmente) Balilla, a Montecitorio si abbandona ad una completa infantilizzazione della comunicazione di governo.
“Non posso chiamarvi ‘ragazzi’? Vabbè, ‘giovani onorevoli’”. Abbraccia teneramente il Capitano, che tenta di sfidarla con le minacce di un leone senza artigli, e dall’Aula, come in un matrimonio di periferia, si leva un urlo “bacio, bacio”.
Con la mimica facciale o lo sberleffo fuori luogo (“Conte pensava che a governare fosse la sua pochette”), Meloni rompe lo stile istituzionale e si getta nella mischia della rissa verbale. È più forte di lei non rispettare la secca raccomandazione di Quintiliano per cui “bisogna rinunciare a una battuta, piuttosto che perdere in autorevolezza”.
La presa in giro, la mossa a sorpresa senza il supporto della parola, intendono svelare al pubblico della sua rappresentazione che il parlamento, anche senza la madre di tutte le riforme, è già una combriccola di allegri perditempo.
Priva degli strumenti necessari per costruire un discorso efficace, la premier deve arrangiarsi con le smorfie e con il suo vocabolario minimo (“diciamo”, “banalmente”, “riempiono la bocca”, “a trecentosessanta gradi”, “orgoglio”, “Nazione”, “sono fiera”).
Attraverso un registro volto alla teatralizzazione, e servendosi di una lingua che sui grandi temi rotola a casaccio, Meloni non argomenta, bensì recita con una “loquela per gestum”. Il suo humour ha nondimeno una spiccata radice identitaria: con il ghigno infrange le procedure e dimostra così che il re è nudo, cioè che le istituzioni repubblicane sono dei puri simulacri. Chi è dunque Giorgia Meloni?
Una leader con un progetto autoritario che, in un solo copione, interpreta un personaggio con molti ruoli e seduce la platea indossando la maschera di Arlecchino. Hanno perciò ragione entrambi i giornali stranieri: una “impitoyable” che però fa anche ridere.