La caduta degli dei
Eredità Agnelli, la fine della dinastia che ebbe in pugno il Paese
Ebbe in pugno il Paese, ma poi l’Avvocato non seppe adeguare l’azienda alla globalizzazione. Mani Pulite gli regalò mani libere, ma lui e gli altri capitani d’industria, invece di fiorire, affondarono...
Economia - di Michele Prospero
C’è un che di profondamente sottoproletario nella saga, tragica e teatrale insieme, che coinvolge la famiglia più potente del capitalismo italiano. Non manca proprio nulla in questa soap opera dal vago sapore sudamericano: sentore di firme false e paradisi fiscali, trucchi erariali e malloppi scovati, puzza di riciclaggio e sospetti di malaffare, odi ancestrali che seppelliscono gli affetti. I colpi speciali si susseguono nella guerra per il controllo di qualcosa che è ben più di un pugno di dollari.
Chi non osava contestare il regime proprietario, nell’Ottocento, ripiegava su un obiettivo più limitato: eliminare almeno il diritto di eredità. Visto che la sola ricchezza legittima scaturisce dal lavoro personale, la discendenza nulla dovrebbe ricevere perché niente di misurabile essa ha svolto per accumulare i beni.
Se però il capitale appropriabile fosse soltanto quello lievitato grazie al coinvolgimento individuale, allora anche l’Avvocato avrebbe avuto scarsi titoli per il possesso di illimitate ricchezze. Più che come amministratore baciato dal successo per le efficaci strategie e le grandi innovazioni, Agnelli è stato un personaggio a suo agio tra donne e motori, poco incline alla weberiana condotta calvinista di un appartato capitano d’industria.
Senza essere un esperto manager d’impresa, l’Avvocato è stato l’emblema del comando conferito dalle strutture di una proprietà infinita e sganciato da ogni maniacale passione imprenditoriale. La funzione direzionale del capitale, il ruolo creativo del capo che anticipa processi e sforna prodotti in serie per affermarsi nel regime spietato della concorrenza, non descrivono la effettiva parabola del casato più rappresentativo della manifattura nostrana.
Sprovvisto di quel momento distintivo che i manuali di diritto commerciale definiscono “il genio creativo e regolatore dell’imprenditore”, l’Avvocato non ha avuto l’abilità di rilanciare le chances dell’azienda nel tempo della globalizzazione.
In compenso, ha partecipato attivamente alle grandi manovre che negli anni 90 hanno determinato lo smantellamento della Repubblica dei partiti. La classe dirigente del capitalismo italiano al completo (da Agnelli a Tronchetti Provera, da Falck a Lucchini fino ad Abete) ha combattuto i partiti in nome del sistema maggioritario, propedeutico al liberismo effervescente e disancorato dalle burocrazie pubbliche.
Ma così, senza le reti di protezione, sussidio e finanziamento assicurate dal potere politico, sono crollate una dopo l’altra le cattedrali della grande borghesia italiana, incapace di approfittare delle privatizzazioni delle partecipate e delle conseguenti scalate.
Dopo il crepuscolo dei partiti, il capitale ha avuto in mano lo Stato ma non ha saputo che farsene (neppure la svendita di Telecom negli anni 90 ha visto pronta la famiglia Agnelli). Tra il 1995 e il 2010 è diminuito del 16% il valore aggiunto dei grandi gruppi, e nelle industrie è calato drasticamente il numero dei dipendenti: la Fiat, la sola impresa ad avere stabilmente oltre 100 mila lavoratori, ha perso il 40% degli addetti tra il 1973 e il 2009. Sono inoltre scomparse Montedison, Snia, Olivetti, Liquigas, Sir.
Le grandi imprese (abituate alle infinite protezioni domestiche e agli incentivi a pioggia) non sono riuscite a superare gli imperativi ferrei della internazionalizzazione. Lo “shock” invocato da Romiti nel 1991, per scacciare definitivamente i vecchi partiti bollati come anomalia del Belpaese e freno delle migliori energie private, non ha prodotto miracoli.
La Fiat è sprofondata in un male di vivere ultratrentennale dopo il tramonto della lunga espansione sostenuta dal pubblico. Da quando, come ha detto una volta Giuliano Amato, l’Italia ha messo “il maggioritario al posto del trascendente”, le grandi imprese sono naufragate, e il declino complessivo è divenuto inarrestabile.
Le 15 maggiori imprese italiane sono piene di debiti, con utili minori e investimenti scarsi. Nell’economia della conoscenza, l’Italia esprime il 2,5% dei brevetti mondiali contro il 13% della Germania.
Il declino della Fiat è diventato la metafora di una perdita di competitività del sistema Italia (crescita al di sotto della media europea e declino di investimenti, ricerca e innovazione). Dato che portare i libri aziendali in tribunale era troppo costoso sul piano politico-simbolico, oltre che economico, la Fiat nel 2002 fu salvata solo con il concorso delle principali banche pubbliche.
La gestione di Marchionne non ha certo favorito una inversione significativa di rotta. Nel 2010 l’amministratore delegato ha aggredito le antiche relazioni sindacali rinunciando al contratto di lavoro nazionale dei metalmeccanici; con il perpetuo ricatto della delocalizzazione, ha persino vinto il referendum tra i lavoratori (con il 63% a Pomigliano e il 54 % a Torino). Nel 2012 la sfida è stata invece rivolta alla Confindustria, e la Fiat è uscita dalla organizzazione datoriale, ormai dominata dalle piccole aziende (il 90% ha meno di 100 dipendenti).
Tanto attivismo non è bastato a rimediare alla fragilità estrema della Fiat tra le multinazionali e ad arginare la stagnazione del capitalismo italiano. Più interessata ai canali di influenza (la stampa, soprattutto) che al rilancio delle filiere produttive, l’ex azienda torinese non sembra in grado di ricollocarsi nei mercati globali.
Tra una fusione (che sa però di acquisizione straniera) e l’altra, invoca perciò quello che ha sempre ottenuto: incentivi, erogazioni dello Stato. Che alla incapacità manageriale si aggiunga la curiosità delle toghe, per pratiche opache di familismo amorale, è un segno di accanimento del destino verso un potere che neppure un dio potrebbe risanare.