Lo sviluppo del Paese
Come salvare l’economia italiana, il piano industriale per tornare a crescere
La crisi dell’acciaio e dell’automotive sono le ultime due scosse del terremoto partito negli anni 90, con l’addio allo Stato imprenditore. Poi il neoliberismo si è mangiato tutto: salari e produttività
Economia - di Cesare Damiano
Circa 56 anni fa ho iniziato a lavorare: era il primo ottobre del 1968. Quell’inizio avvenne alla Riv-Skf, un’impresa metalmeccanica dove ho cominciato anche la mia attività sindacale. Da delegato di azienda sono diventato, negli anni seguenti, dirigente della Fiom-Cgil, a partire dalla Quinta Lega della Fiat Mirafiori.
Anni duri nel confronto tra lavoro e impresa. Ma un confronto che avveniva in uno scenario di sviluppo industriale e, perciò, di sviluppo economico. Fatto in ragione del quale i lavoratori, con le loro famiglie, salivano sull’ascensore sociale, mentre il Paese diveniva una potenza industriale.
Non sono qui a scrivere memorie nostalgiche di un tempo passato. Ma per compiere un ragionamento su quanto è successo e sta succedendo al nostro Paese. E su quali meccanismi si siano inceppati nel sistema produttivo, così come in quello politico. E discutere di cosa sia necessario fare. Ciò in ragione del fatto che l’Italia sembra, da decenni, insensatamente e passivamente avvitata in un processo di deindustrializzazione.
Due dei principali settori che hanno fatto del nostro Paese la seconda potenza industriale d’Europa sono in una situazione dalla quale, senza una svolta strategica complessiva, non potranno riemergere. Parliamo, per la precisione, della siderurgia e dell’automotive. Due settori, tra l’altro, legati tra loro perché il primo fornisce materia prima al secondo.
I segnali sono drammaticamente concreti e chiaramente descritti dai numeri. In una recente intervista, il Presidente di Confindustria, Bonomi, ha sottolineato la necessità di un piano industriale per il nostro Paese.
Riferendosi alla drammatica situazione di Acciaierie d’Italia, ex-Ilva, e ricordando che senza acciaio non c’è manifattura, ha snocciolato alcuni dati: tra gli utilizzatori dell’acciaio, la meccanica rappresenta il 20,2%; i prodotti in metallo il 18,7%; l’automotive il 17%; gli elettrodomestici il 2,7%.
Intanto, a fronte dell’immatricolazione, nel 2023, di oltre un milione e mezzo di auto, gli stabilimenti italiani ne hanno prodotte poco più di mezzo milione. Nella produzione, l’Italia arranca, in Europa, dietro non solo alla Germania; ma anche alle spalle di Francia, Spagna, Slovacchia.
Tutto questo avviene nel passaggio storico dell’avvento delle motorizzazioni elettriche. Mentre in Italia non sorge l’attesa gigafactory di batterie, è anche necessario fronteggiare i grandi produttori asiatici. A sua volta, Marco Bentivogli ha sottolineato che, lo scorso dicembre, una Volkswagen, peraltro in difficoltà, ha superato per la prima volta il marchio Fiat nella vendita di auto in Italia.
Mentre Acciaierie d’Italia e Stellantis sono oggetto di un molto tardivo dibattito e di richieste di confronto che si sono fatte sempre più urgenti, emerge in Italia – c’è da dire “finalmente” – il tema della politica industriale. Nei processi economici del mondo globalizzato tutto si tiene, e la politica industriale si presenta come quella tessera del domino che, se non posta precisamente sul tavolo, rischia di far crollare tutte le altre.
È un tema che richiede di essere affrontato con la consapevolezza che questa assenza di una visione e di una strategia nazionale viene, purtroppo, da molto lontano. Perché le radici della mala pianta del vuoto strategico che affligge il sistema industriale italiano affondano nei lontani anni 90 del XX Secolo.
Per nulla strategico fu il passaggio che si avviò allora con la privatizzazione dei grandi Gruppi industriali pubblici. Infatti, quell’uscita di scena dello Stato imprenditore non portò con sé un’autentica modernizzazione dei processi economici.
Le grandi privatizzazioni dei Gruppi pubblici furono una risposta congiunturale all’urgenza di porre rimedio allo strabordare del debito pubblico, cresciuto, in quel tempo, a dismisura.
Quella manovra di emergenza causò due gravi effetti.
Primo, la tendenza dei nuovi assetti dirigenziali a realizzare un guadagno immediato a danno dell’innovazione e di un’efficiente capitalizzazione e organizzazione delle imprese. Il drammatico risultato di questo processo si manifestò in quella verticale perdita di produttività che affligge costantemente, ancora oggi, il nostro sistema economico.
Il secondo effetto fu un mancato adeguarsi della nostra industria ai processi della globalizzazione economica che si erano avviati nel frattempo. E, perciò, la mancata nascita di quei campioni industriali nazionali di adeguata misura che, tra le altre cose, avrebbero potuto svolgere il compito di trainare il sistema delle piccole e medie imprese che vivono nell’indotto della grande industria con la loro capacità di assicurare produzioni di alta qualità.
Risale a quel tempo l’assenza dello Stato nella funzione di stratega. Uno stratega capace di indicare le strade e sostenerle con adeguati incentivi, intesi non come sussidi per tappare i buchi, ma come stimoli alla crescita. Siamo così diventati un Paese senza politica industriale e, dunque, senza le strategie necessarie a mantenere la competitività.
Alcuni elementi politico-culturali hanno senz’altro pesato su questo processo degenerativo, così come successo in tutto l’Occidente a partire dalla damnatio memoriae dell’opera di Keynes e delle politiche da essa generate, dovuta alle elaborazioni della scuola di Chicago, creatrice del neoliberismo, che produsse gli eccessi che pesano sui sistemi economici di oggi.
Lo Stato è stato relegato a un ruolo marginale, in una visione che ha in parte informato di sé, purtroppo, anche i Trattati dell’Unione Europea. E la perdita dello Stato come stratega e generatore di processi di innovazione mostra nel tempo presente i suoi nefandi effetti.
Eppure, oggi, vediamo forti, si direbbe inevitabili, risposte politiche alle situazioni critiche che viviamo. L’Amministrazione Biden ha fatto un massiccio ricorso a quegli aiuti di Stato – così ostacolati nei Trattati europei -, strutturati soprattutto in crediti d’imposta, come strumento di politica industriale. E, non si può certo dire che, nella nostra Europa, Paesi come Germania e Francia non applichino vaste strategie nazionali per sostenere l’evoluzione del proprio sistema industriale.
Perché, sia pur perseguendo il progetto dell’integrazione nell’Unione Europea, questi Paesi non hanno perso di vista il nocciolo della questione: l’innovazione e l’efficienza dei processi economici, perciò, produttivi, è l’architrave della qualità della vita dei propri cittadini. Proprio quel che non è accaduto in Italia.
C’è un ovvio, preciso rapporto tra il declino del nostro sistema industriale e l’impoverimento di chi del proprio lavoro vive. Descritto con precisione nel Rapporto 2023 dell’Inapp, l’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche, l’Ente di ricerca che valuta queste politiche in relazione al mercato del lavoro.
Dal 1991 ad oggi, la crescita media delle retribuzioni nell’area Ocse è stata del 32,5%. In Italia la crescita è stata, nel medesimo arco di tempo dell’1%. I salari reali sono, di fatto, fermi al 1991.
Il divario nelle retribuzioni corrisponde geometricamente a quello che si è manifestato nel campo della produttività.
Secondo il Rapporto “a partire dalla seconda metà degli anni Novanta la crescita della produttività è stata [in Italia] di gran lunga inferiore rispetto ai Paesi del G7, segnando un divario massimo nel 2021 pari al 25,5%”. L’incremento del Pil per ora lavorata nell’area del G7 supera largamente lo 0,4%. in Italia si assesta, tra il 1991 e il 2022, intorno allo 0,2%.
Ancora, “negli anni Novanta, inoltre, si spezza anche quel legame tra salari e produttività del lavoro che aveva caratterizzato il nostro sistema economico fino ad allora”. La stagnazione della produttività, produce la stagnazione dei salari.
C’è dunque un chiaro filo che unisce l’assenza di una strategia industriale con il declino sociale dei ceti produttivi. Un fatto ovvio. Che però non ha acceso risposte politiche per lunghi decenni.
Se non con poche eccezioni.
Positivo è stato l’impatto dei Piani Industria 4.0. Così come potrà sortire effetti positivi la recente riforma del Fondo di Garanzia, istituito presso il Ministero delle Imprese e del Made in Italy. Il Fondo rappresenta uno strumento per facilitare l’accesso al credito per le piccole e medie imprese. Se ne è parlato in un recente convegno tenuto dall’Associazione Lavoro&Welfare, della quale sono presidente.
Il Fondo può facilitare, attraverso la garanzia che offre, l’investimento del capitale dei Fondi pensione, delle Casse professionali e delle assicurazioni nel tessuto delle piccole e medie imprese. Le quali trovano sempre più difficoltà proprio nell’accesso al credito.
E se per le Pmi diventa sempre più difficile trovare credito, come può quest’area di impresa uscire dalla sotto-capitalizzazione, crescere sul piano dimensionale, innovare, aumentare la propria competitività? Soluzioni come la garanzia pubblica per un’azione sistematica degli investitori istituzionali sono assolutamente necessarie. Ma devono far parte di un quadro più vasto.
Un orizzonte per sviluppare un ragionamento di ampio respiro sulla politica industriale viene dalla Gran Bretagna, da un’iniziativa del Labour Party di Keir Starmer. Il quale, nell’elaborazione di una rinnovata linea riformista, ha presentato recentemente un documento intitolato Prosperity through Partnership.
Ed ecco un’affermazione che delinea, seppur a causa di processi storici diversi, un collegamento tra la situazione del Regno Unito e quella italiana: “il livello di produttività del Regno Unito rimane ostinatamente al di sotto dei nostri concorrenti. Di conseguenza, i lavoratori non hanno visto alcuna crescita della retribuzione reale dal 2010”.
Dunque, la necessità di ripristinare la crescita perché “questo è l’unico modo per favorire miglioramenti sostenibili nei salari e nel tenore di vita delle persone, per rivitalizzare i servizi pubblici e rilanciare le comunità”. Il Labour dice “una cosa di sinistra”. Una di quelle che fanno parte – e qui mi riallaccio alla mia esperienza di vita che citavo inizialmente – delle nostre radici perdute.
Radici che la sinistra italiana deve ritrovare per recuperare un senso alla propria esistenza: la produttività trascina con sé i salari, la contribuzione previdenziale, il mantenimento del sistema del welfare. Senza produttività non si può mantenere lo Stato sociale.
E questo deve essere il primo e più urgente impegno di una sinistra moderna che ritrovi la propria ragion d’essere e si renda anche distinguibile. Perché la sinistra nasce nelle forze produttive e il suo compito è dar loro risposte. La miglior sinistra italiana si è sempre è rivolta al lavoro e ha sempre perseguito il dialogo con il fronte imprenditoriale.
Quale il metodo? Afferma il documento che “il Labour adotterà un approccio strategico all’economia, investendo per le nostre esigenze a lungo termine e stringendo una partnership con le imprese e i sindacati di tutto il Regno Unito”. Dunque, il coinvolgimento delle forze produttive nello sviluppo della visione strategica per il Paese diviene il baricentro dell’approccio riformista del Labour.
Quale l’indirizzo di tale strategia? “Lo sviluppo di vaccini contro il coronavirus fornisce un utile esempio di come la politica industriale può funzionare, con lo Stato che gioca un ruolo cruciale in collaborazione con il settore privato per raggiungere un obiettivo specifico, anche attraverso investimenti a lungo termine […] Una strategia ‘mission-based’ di questo tipo dovrebbe adottare un approccio intersettoriale, che riconosca che i diversi settori dell’economia sono inestricabilmente interconnessi”. Il ritorno allo sviluppo di un’autentica politica industriale è una necessità assoluta per il Paese. E una missione ineludibile per la migliore e più autentica sinistra.