Il conflitto Israele-Palestina
Quelli che: se Israele vuol esistere deve meritarselo…
La “causa palestinese” esiste, ha motivazioni e merita sostegno se non implica la revoca del diritto alla vita degli ebrei in Israele
Editoriali - di Iuri Maria Prado
“Non farò il nome”, ha detto l’altra sera un noto economista di cui non faccio il nome, “ma c’è un avvocato molto noto che in Italia, sulle questioni dei diritti civili ha delle posizioni molto di sinistra, che io trovo assolutamente sgradevoli, e quando tocchi la questione Israele all’improvviso ha una specie di reazione automatica…”.
Faccio questo riferimento personale (ho il sospetto che porti il mio nome l’avvocato di cui non fa il nome l’economista di cui non faccio il nome) non per centrogravitazione ombelicale, ma perché quel gentile osservatore, in modo inconsapevolmente significativo, nel mezzo delle sue inibizioni onomastiche intromette la questione generale e centrale: la “questione Israele”, appunto. È la questione centrale perché da decenni, e ancora nel giorno in cui si consuma la più spaventosa violenza anti-ebraica a far tempo dalla Shoah, l’esistenza e sopravvivenza di Israele rappresenta per molti un fatto discutibile o inaccettabile senz’altro.
E non mi riferisco, ovviamente, a quelli che l’altro giorno hanno macellato i civili ebrei in quanto civili e in quanto ebrei, istruiti da minuziose mappe in cui trovare il villaggio, il kibbutz, la sinagoga, il giardino, la festa in cui uccidere, stuprare, deportare il maggior numero di ebrei possibile. Né mi riferisco a quelli che hanno manifestato la loro gioia – e a carico dei quali non vedo troppa condanna – per le scene di massacro cui abbiamo assistito: scene che molti non ripropongono non già per contravvenire opportunamente al disegno degli assassini che le vorrebbero sparate in faccia al mondo, bensì per il colpevole e opposto intento di coprire quell’orrore, esattamente come i nazisti in rotta tentavano di cancellare le prove della verità bruciando le fotografie e i registri degli eccidi.
Mi riferisco invece a chi – inconsapevolmente o no – commisura il diritto di esistere di Israele al grado di buona condotta di Israele, e conseguentemente misura le violenze inflitte agli ebrei di Israele prendendo a criterio il loro diritto affievolito, o inesistente, di viverci senza l’”inevitabile” conseguenza di essere sgozzati, fatti a pezzi, stuprati e presi in ostaggio: il tutto, mentre qui e altrove si invoca il comma adatto della risoluzione Onu per dare la giusta lettura, per offrire l’interpretazione geopoliticamente conclusiva e la giustificazione storicizzante della decapitazione dei prigionieri e dell’annientamento di duecentocinquanta ragazzi impegnati a sentire musica e danzare irresponsabilmente vicino alla gente che soffre.
Perché questo abbiamo dovuto sentire: non solo il noto mascalzone che, a proposito del massacro al rave nel deserto del Negev, ha detto che questo è ciò che si merita chi balla in sfregio ai diritti del popolo occupato, ma anche il noto conduttore televisivo (uno di cui pure non faccio il nome, ma questa volta per vergogna) che su quello scempio non ha trovato di meglio che osservare come sia stonato, inopportuno e sostanzialmente oltraggioso che dei giovani si diano alle danze mentre lì vicino c’è tanta rabbia e tanto patimento.
È tutto questo che non va. È tutto questo – che non è l’episodico e disparato atteggiamento di alcuni, ma il diffuso e sistematico riflesso di molti – che avvelena il dibattito. È tutto questo che impedisce a molti di capire che cosa sia la “questione Israele”, che cosa essa implichi, che cosa essa metta in gioco. E impedisce di capire come sia sbagliato evocarla, sulle notizie dei fatti di questi giorni, a petto della “causa palestinese”. Che esiste, che ha motivazioni e che merita sostegno se non implica la revoca del diritto alla vita degli ebrei in Israele e nel mondo: ma che tanti amici dei palestinesi hanno un’altra volta deciso di sostenere senza la dovuta e radicale condanna dei nemici di Israele e degli ebrei.