Il conflitto Israele-Palestina

Rave party Israele, non solo Shani Louk: oltre 250 morti al confine con Gaza

La crisi di coesione politica e sociale non concede molto spazio alle armi, alla distruzione, alla guerra totale

Editoriali - di Alberto Cisterna

10 Ottobre 2023 alle 13:30 - Ultimo agg. 24 Ottobre 2023 alle 09:36

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Rave party Israele, non solo Shani Louk: oltre 250 morti al confine con Gaza

Cercare una luce nel buio di odio e di morte che avvolge il popolo di Israele e la gente palestinese che vive nella Striscia di Gaza in questi giorni è una missione disperata. Il sangue è destinato a scorrere e morte chiamerà morte in una spirale di vendetta e di giustizia che potrebbe durare decenni a questo punto. La Pearl Harbor israeliana, ossia la colossale negligenza consumata dagli apparati militari e di intelligence di quello Stato, è stata considerata inevitabilmente un atto di guerra che esige, nella prospettiva dell’aggredito, una risposta su vasta scala, probabilmente una prova di forza mai prima vista in quel fazzoletto di terra densamente popolato che Hamas controlla con ferocia e con apparente unanime consenso.

Eppure. Eppure proprio in queste ore si consumeranno mosse decisive per comprendere se il piano inclinato della violenza e della morte avrà il sopravvento, oppure se la nube densa dell’odio possa celare anche un’inaspettata, minuscola fonte di speranza. Si calcola che Hamas abbia catturato almeno un centinaio di israeliani, civili inermi e militari colti di sorpresa dalla blitzkrieg palestinese. A breve cominceranno a circolare i video di uomini, donne e bambini in catene, che implorano pietà, che chiedono aiuto. I social diffonderanno nel globo quelle immagini di insensata e crudele sopraffazione e il popolo israeliano non è più la forza coesa e invincibile dei decenni scorsi. Politiche dissennate, si pensi solo alla riforma della giustizia, hanno spaccato la società israeliana spingendo persino il capo dell’intelligence civile a prendere posizione contro le riforme imposte da Benjamin Netanyahu non senza una certa dose di arroganza e di tornaconto personale.

Le piazze in rivolta nelle grandi città sono appena dell’altro ieri e una comunità un tempo compatta è attraversata da tensioni e divisioni che, certo, la brutalità della violenza di Hamas potrà temporaneamente superare, ma si dovrà probabilmente fare i conti con la spietata propaganda degli aggressori, con i video, con le lacrime. E, su questo versante, gli israeliani hanno mostrato sempre una particolare inclinazione umanitaria, hanno sempre fatto di tutto per portare a casa sani e salvi i propri cittadini, talvolta persino i cadaveri vilipesi dei propri soldati caduti in mano nemica.

Era l’ottobre del 2011 quando il soldato israeliano Gilad Shalit fece ritorno a casa dopo essere era stato catturato dai gruppi armati palestinesi di Gaza in un raid oltreconfine nel giugno 2006. Per ottenerne la liberazione il governo israeliano si impegnò a liberare 1.027 detenuti palestinesi. Per portare a casa le salme di Ehud Goldwasser e Eldad Regev, due soldati rapiti dopo un’incursione nei confini israeliani da parte degli Hezbollah nel 2006, gli israeliani hanno trasferito in libano 5 prigionieri Hezbollah, fra i quali Samir Kuntar colpevole della morte di 4 israeliani e consegnato i resti di 199 militanti libanesi e palestinesi.

È chiaro che decine di ostaggi in mano ad Hamas pongono un problema enorme per il governo di Israele che non ha molto tempo a disposizione per portare a compimento un’azione massiccia e distruttiva nella Striscia di Gaza senza vedere minacciata l’incolumità di propri inermi cittadini, donne e bambini inclusi, rapiti nelle proprie abitazioni dai miliziani palestinesi. La clessidra è capovolta e, probabilmente, la crisi di coesione politica e sociale che quel popolo soffre non concede molto spazio alle armi, alla distruzione, alla guerra totale, perché è evidente che le immagini degli ostaggi paralizzeranno tutti, commuoveranno, freneranno, chiameranno i parenti a insorgere, molti a pretendere che chi è stato incapace di garantire sicurezza ai propri cari faccia di tutto per riportarli a casa.

Le vere democrazie – e Israele lo è fino in fondo – devono contemperare la ragion di Stato con la ragionevolezza, le necessità securitarie con l’umanità e non possono sicuramente assistere inermi alla decimazione di propri cittadini per mano di terroristi. Nessun governo avrebbe fatto quel che Israele ha fatto per la vita del caporale Gilad Shalit. Quando le Br chiesero la liberazione di alcuni detenuti per la salvezza di Aldo Moro, sappiamo come è andata a finire. È una sensibilità e una cultura che costituisce l’intima essenza di un popolo che ha tanto sofferto e che vuole proteggere ciascuno per salvare sé stesso per intero.

Ecco, nell’ora delle tenebre, un barlume di speranza può esservi che gli israeliani, di fronte all’enormità della strage e del ricatto che stanno subendo, colgano la necessità della pace a qualunque costo come l’unica via di uscita da una situazione che, a questo punto, non consente alcun scambio o alcuna mediazione e la cui alternativa (la vita di tanti ostaggi, probabilmente) quel popolo non potrebbe tollerare. Non è la resa, si badi bene, che mai ci potrebbe essere, ma la lucida consapevolezza che è impossibile distruggere l’avversario se non a patto di distruggere una porzione profonda e irrinunciabile della propria identità.

10 Ottobre 2023

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