L'attualità vista dal dem
“Ecco come ridurre le morti di migranti nel Mediterraneo”, intervista a Matteo Orfini
«Il Pd deve occuparsi di far avere un salario a chi non ce l’ha e di far alzare lo stipendio dei lavoratori poveri: mettere al centro la questione sociale significa far vivere meglio chi lavora»
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
L’ attualità politica del pensiero di Mario Tronti, una eredità da non disperdere per una sinistra che intende ricostruire un rapporto forte, oggi in crisi, con i ceti più deboli. La parola a Matteo Orfini, parlamentare e membro della Direzione nazionale del Partito democratico, già presidente Dem.
Che cosa ha rappresentato Mario Tronti nel pensiero della sinistra e non solo quella legata alla storia del Pci?
Mario Tronti è stato sicuramente una grande personalità della storia della sinistra italiana. Per la mia generazione, quelli che a un certo punto si sono affacciati a un protagonismo politico, ai tempi della segreteria Bersani, in chiave generazionale, lui fu uno dei maestri. Ricordo che quando nacque quel movimento che fu chiamato impropriamente dei “Giovani turchi”, Tronti fu uno di quelli che accettò subito con noi il confronto, il dialogo, la discussione, con quella curiosità politica e intellettuale che lo ha sempre caratterizzato. Per noi fu allora un confronto preziosissimo. Per chi come noi cercava di ridefinire il profilo di una sinistra che riscoprisse le proprie radici e tradizioni anche nelle battaglie per il lavoro e la sua centralità, Tronti era un punto di riferimento fondamentale. Avere avuto il privilegio di poterci confrontare con lui è stato davvero importante, sul piano politico come nei rapporti interpersonali. Ricordo la passione con cui Mario intraprese l’ultimo passaggio parlamentare che svolse al Senato, quando fu candidato in età già abbastanza avanzata. Svolse quella funzione con grande vitalità e con un protagonismo riconosciutogli unanimemente. Anche in quell’occasione svolse un ruolo preziosissimo per tutti noi.
Mario Tronti, nella sua ultima intervista che concesse proprio a l’Unità, rifletteva molto sull’attualità del pensiero di Gramsci, rideclinato al tempo presente. Perché c’è una rimozione di queste problematiche, anche nel dibattito interno al Partito democratico?
Penso che ci sia una fuga dalla complessità e dalla profondità del pensiero politico. È la stagione che stiamo vivendo, in cui a volte i protagonisti politici sembrano più simili agli influencer che a dirigenti politici come l’intendevamo una volta. Molto si vive sul posizionamento del momento, sulla presa di posizione magari efficace ma poco si ragiona sui processi politici più profondi, su come costruire una cultura politica che sappia dare e praticare risposte alla complessità dei problemi di un mondo che è profondamente cambiato e che lo sarà sempre di più in un futuro che si fa già presente. Era questo l’assillo di Tronti e di personalità del suo spessore politico e intellettuale che hanno maggiormente formato la storia della mia generazione. Penso a lui, a Reichlin, a Beppe Vacca, a Napolitano, a quelli della nostra storia e tradizione. In qualche modo questo c’hanno insegnato, che bisogna guardare alla profondità dei processi politici e non scindere mai l’azione politica dalla costruzione di un pensiero e di una cultura politica. Dedicare un po’ di tempo in più a questo potrebbe aiutare l’effi cacia dell’azione politica quotidiana.
In una intervista a questo giornale, Massimo Cacciari, ragionando sul pensiero politico di Tronti, ha sostenuto che la sconfitta della sinistra è stato culturale prim’ancora politico, quando ha accettato il pensiero unico abbandonando il pensiero critico, facendo sua la categoria di “un popolo”, un tutt’uno indistinto, o quella di “gente”, cancellando il conflitto di classe. Un tema, quello del conflitto di classe, che è sempre stato al centro del pensiero del “padre” dell’operaismo.
Ai tempi della segreteria Bersani, noi cercammo una interlocuzione con Tronti, e questo anche perché vedevamo in quello che aveva preceduto quella fase, cioè la sinistra della “Terza via” blairiana degli anni ’90, del riformismo inteso a volte quasi come dire da sinistra cose di destra, uno dei momenti dell’inizio della crisi. Una fase caratterizzata, da un lato, da una subalternità al pensiero neoliberista, che aveva attecchito anche nelle classi dirigenti della sinistra europea e non solo italiana. E dall’altro lato, da una rinuncia ad alcune categorie politiche, all’idea che nella società ci fossero delle differenze. Peraltro questa era anche una delle critiche che alcuni di noi facevamo al Pd delle origini, al mantra veltroniano, all’idea che un partito dovesse rappresentare tutti quanti, di fatto rimuovendo le differenze che c’erano nella società. L’idea che tutti vogliono la stessa cosa, ci sono solo modi diversi di raggiungerla. Mentre in realtà nella società ci sono differenze sociali e non solo molto forti e quindi anche ambizioni differenti e conflittuali. In qualche modo, in quella fase lì, quella della sinistra della “Terza via”, rimuovemmo dalla politica il concetto di conflitto politico, che invece è fondamentale in democrazia. È chiaro che ci sono interessi confliggenti, è chiaro, o almeno dovrebbe esserlo, che un partito deve essere “parte”, e quindi scegliere da quale parte stare e poi ovviamente rappresentando quella parte si deve fare garante dell’interesse generale del paese. Rimuovere le differenze, rimuovere la necessità di combattere per una parte, la parte più debole del paese, è stato uno degli errori esiziali che in quegli anni ha compiuto non solo la sinistra italiana ma quella europea. Problemi ancora attuali, che misuri anche negli effetti elettorali. La fatica che la sinistra italiana fa a conquistare consenso nei ceti popolari del paese è fi glia di questo. È figlia dell’incapacità che si è avuta in quegli anni, e anche in quelli più recenti, di rappresentare la parte più debole del paese.
Da questo punto di vista, la battaglia parlamentare delle opposizioni sul salario minimo e anche la convergenza sulla questione stessa del Reddito di cittadinanza, possono significare un nuovo inizio nel porre al centro dell’iniziativa politica l’irrisolta “questione sociale”?
Ritengo che sia una parte delle cose che dobbiamo fare. Nel senso che pone al centro intanto il fatto che in Italia esiste una questione salariale.
Vale a dire?
Noi abbiamo una parte del paese che lavora e nonostante lavori è povera. C’era prima della ripresa dell’inflazione, c’è ancora di più in un periodo in cui riscopriamo il dramma dell’inflazione che rende tutto ancora più difficile. Porre al centro dell’azione del Pd la questione salariale, che significa dare un salario a chi non lo ha, alzarlo a chi ha un contratto pirata, ma anche sostenere i salari del ceto medio. Cercare di restituire al mondo del lavoro tutele, diritti e dignità. Credo che sia un buon modo per ripartire. E credo anche che sia un merito di chi c’ha lavorato nella passata legislatura. E qui c’è un’annotazione polemica da fare…
Quale e indirizzata a chi?
Vedo, ascolto e leggo i leader del centrodestra che ripetono in ogni dove perché non lo avete fatto quando stavate al governo. Ci abbiamo provato, il ministro Orlando ci provò a fare il salario minimo, ma aveva contro Lega e Forza Italia che erano maggioranza nel governo Draghi. Perché non lo abbiamo fatto, Giorgia Meloni dovrebbe chiederlo ai suoi alleati di oggi. Non c’abbiamo provato. Resta un merito di chi c’ha provato nella passata legislatura e di Elly Schlein che su questa battaglia è riuscita con generosità a costruire una unità di tutte le opposizioni. Penso che sia un buon punto di partenza.
Come sta andando l’“estate militante” Dem?
Non è ancora tempo di bilanci. Siamo ancora in mezzo all’“estate militante”. Siamo tutti coinvolti, in giro per il Paese. Io il 14 agosto sarò in provincia di Rovigo per una delle tante feste de l’Unità che i nostri militanti stanno svolgendo. Stiamo riuscendo a dare dimostrazione che il Partito democratico ha voglia di fare opposizione, è vivo, vitale e si è messo in battaglia. Sappiamo che è una sfida complicata battere una destra che è ancora molto forte, ma non ci spaventiamo per questo. Finalmente siamo usciti dalla parte più introversa, i congressi ecc…, e siamo tutti concentrati nella costruzione che non sia solo nelle aule parlamentari ma sia in tutto il paese e che prepari al meglio le prossime sfide, che sono da un lato il contrasto al governo e dall’altro le elezioni europee ed amministrative.
Un altro tema tragicamente attuale è quello delle stragi in mare, o nel deserto, di migranti. Si continua a morire eppure l’Italia e l’Europa continuano nella politica nefasta dell’esternalizzazione delle frontiere e dei memorandum securitari
Abbiamo fatto insieme tante interviste e ogni volta torna questa domanda perché purtroppo non cambia assolutamente niente. Perché è la strategia di fondo che è sbagliata. Se si pensa che il problema si risolva con l’esternalizzazione delle frontiere e con patti bilaterali che calpestano i diritti umani, il risultato non può che essere lo stesso. I flussi non si fermano e le persone continuano a morire in mare, nonostante la vergogna propagandistica di decreti chiamati con il nome dei luoghi in cui sono avvenute le stragi, come è accaduto con il decreto Cutro, che poi il primo a dover disattendere è stato proprio il governo. In quel decreto si sanciva che le navi potevano fare un solo salvataggio, oggi è il governo che deve chiedere alle Ong di fare salvataggi multipli, a dimostrazione di quanto l’impianto normativo che hanno costruito fosse meramente propagandistico e assurdo. L’unico modo per provare seriamente a evitare che le persone muoiano in mare è costruire una missione europea di salvataggio, come fu Mare Nostrum, che tra l’altro consentirebbe di salvare vite umane e di gestire meglio la distribuzione di flussi in entrata, non arrivando tutti nello stesso posto sovraccaricando hot spot come quello di Lampedusa e le mete più prossime. E poi invece di smantellare, come sta avvenendo, il sistema di accoglienza e integrazione, investirci in modo da evitare sovraccarichi e condizioni di difficoltà per i migranti e per i cittadini delle località in cui arrivano. Si può gestire e si può fare una battaglia europea per una gestione condivisa. Invece si continua sulla strada che già con il memorandum Italia-Libia voluto da Gentiloni e Minniti, si è dimostrata un fallimento. Legittimazioni come quella data dal governo Meloni a personaggi come il presidente tunisino Saied paiono quanto meno discutibili.