Il padre dell’operaismo
“Un partito senza passato non può avere una idea credibile di futuro: serve recuperare la memoria di parte”, parla Mario Tronti
Editoriali - di Umberto De Giovannangeli
Il padre dell’operaismo ha insegnato per trent’anni all’Università di Siena Filosofia morale e poi Filosofia politica. È stato eletto in Senato nel 1992 nelle fila del Partito democratico della sinistra e nel 2013 nelle fila del Partito democratico.
Il 12 settembre del 1923, nel pieno divampare della dittatura fascista, Antonio Gramsci propone la fondazione de l’Unità attraverso una lettera nella quale prospetta non solo il nome (“L’Unità puro e semplice, che sarà un significato per gli operai e avrà un significato più generale”), ma anche funzione e linea editoriale del quotidiano (“Dovrà essere un giornale di sinistra, della sinistra operaia. Non è molto facile fissare tutto ciò in un programma scritto; ma l’importanza non è di fissare un programma scritto, è piuttosto nell’assicurare al partito stesso, che nel campo delle sinistre operaie ha storicamente una posizione dominante, una tribuna legale che permetta di giungere alle più larghe masse con continuità e sistematicamente”). Oggi l’Unità torna a rivivere…
Il ritorno in campo de l’Unità in questo passaggio di fase politica, acquista un forte valore simbolico. Ed è tempo che tutti impariamo quanto importante sia il simbolico per il politico. L’Unità di Gramsci nasce in una sorta di stato d’eccezione, in un’Italia in preda alle violenze fasciste, in una contingenza storica quindi del tutto irripetibile. Riproporla oggi non ha il senso di un richiamo a quel periodo. Il significato politico semmai è un altro. L’Unità era stato un settimanale diretto da Gaetano Salvemini tra il 1911 e il 1920. Uomo di stampo liberale, ma socialista meridionalista, fieramente antigiolittiano, Salvemini rappresentava una tradizione di impegno civile e di onestà intellettuale, essa stessa travolta dall’irruzione della barbarie fascista. Si trattava di riprendere quella tradizione, innovandola profondamente, da parte di quel Partito comunista d’Italia, da poco nato e ancora nel travaglio di un suo sviluppo. Nella scelta del nome, l’Unità, c’era già implicita la linea Gramsci-Togliatti di radicare, una volta superato l’estremismo bordighista, il nuovo partito politico nella storia nazionale. Il giornale, nel secondo dopoguerra avrà una funzione enorme nel portare avanti questa linea trasmettendola, anche pedagogicamente, nella coscienza di classe di dirigenti e militanti. Ma se questo è il significato politico della nascita e crescita de l’Unità di allora, il significato simbolico del suo ritorno nell’attuale contingenza pubblica va ben oltre la riproposizione di quella linea. I compiti dell’oggi sono radicalmente altri. Si tratta anche qui di superare conservando. Mantenere lo spirito di un giornale di lotta e di organizzazione, popolare e colto nello stesso tempo. Popolo e cultura non sono alternativi. È la mentalità borghese che li ha divisi. La tradizione del movimento operaio li ha riunificati, elevando il popolo a protagonista della storia e facendo della cultura un’arma teorica per la comprensione del mondo e della vita. Come si riprende questa insopprimibile tradizione nelle condizioni radicalmente cambiate e addirittura sovvertite, che ci presentano qui e ora i mondi vitali presenti? Ecco il grande tema, l’enorme problema, che sta di fronte a noi. Rinunciare a questo passato, rimuoverlo o demonizzarlo a seconda dei casi, è stato un suicidio. Ripresentarlo come ancora attuale sarebbe d’altra parte, nemmeno una fuga nell’utopia, piuttosto una caduta nell’ideologia, intesa marxianamente come falsa apparenza. E neppure si può predicare una “terza via”, che nel nome e nell’intenzione non ha mai portato a un buon esito. Rimbocchiamoci le maniche e “cerchiamo ancora”, liberi di spirito e realisticamente pratici nella lotta. Il simbolico da comunicare con la nuova Unità è la volontà di un orgoglioso riscatto dell’idea di sinistra in quanto forza e potenza di radicale trasformazione del presente esistente.
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Una sfida da calare in un presente segnato dal governo più a destra nella storia dell’Italia repubblicana?
Mi sentirei di dire che la contingenza è in questo momento favorevole per tale progetto. Per riprendere uno slogan fortunato: se non ora, quando? C’è il trauma che la nostra parte non ha ancora elaborato di una destra dichiaratamente tale per la prima volta al governo nella storia repubblicana. C’è una sinistra che, di conseguenza, sta ricercando sé stessa, in forme anche inedite, ma proprio perché inedite, al momento abbastanza imprecise e improvvisate. Vediamo separatamente le due postazioni. Questo tipo di destra è una novità. Lasciamo stare le provenienze, le ascendenze. Queste pesano più nella psicologia di singoli personaggi che nella fattiva azione quotidiana. La responsabilità di governo è un grande correttore e stabilizzatore di tutte le pulsioni coltivate anche a lungo dall’opposizione. Occorre quindi misurarsi sul presente, non sul passato. Non so quanto ci sia di liberale in questa destra, ma c’è abbastanza di sociale. È stretta in questa contraddizione: da una parte deve rispondere a un elettorato di popolo, il cui consenso ha guadagnato stando all’opposizione, dall’altra nella funzione di governo deve assicurare grandi interessi economico-finanziari, accontentare piccoli interessi corporativi e soprattutto stare dentro compatibilità sovranazionali, che mettono in crisi la sua ideologia sovranista. Intervenire dentro queste contraddizioni, con l’organizzazione delle lotte nel paese reale, in raccordo con i sindacati, e sviluppare una efficace iniziativa parlamentare, in raccordo con tutte le altre forze disponibili, questo è il compito dell’opposizione. Proprio di fronte a una esplicita destra di governo, questa opposizione quanto più assumerà caratteri esplicitamente di sinistra, tanto più risulterà riconoscibile, credibile, praticabile, affidabile.
Riferendosi al partito, Gramsci lo pensò come “intellettuale collettivo”. Oggi sarebbe una eresia?
In questa occasione, non voglio parlare della sinistra reale, di oggi, ma di una sinistra possibile, per domani. Immagino un soggetto sociale totus politicus, che prenda su di sé, esercitandola con quotidiana decisione, la critica delle attuali forme di vita e dell’attuale forma di mondo. Un soggetto collettivo che sappia farsi riconoscere per la sua alternativa concezione del mondo e della vita. Ben dentro la modernità, ma con la funzione di forte denuncia di tutte le sue promesse non mantenute. Non solo critica di società, ma critica di civiltà. Dall’altezza di questa vetta saper scendere poi a valle, per fare i conti con la contingenza storica, misurandosi con le condizioni di disagio in qualunque modo si manifestino nell’esistenza quotidiana, a livello di difficoltà economiche, di emarginazione sociale, di precariato giovanile, di sfruttamento a volte selvaggio, di mancata sicurezza sul lavoro e nel territorio, di caduta di status per quanto riguarda una parte di ceto medio proletarizzato. Quello che una volta era il blocco storico dell’alleanza tra operai e contadini può e deve diventare l’arcipelago politico dell’alleanza tra lavoratori dipendenti dell’industria e dei servizi e lavoratori autonomi di varie generazioni. Sindacati e sinistra marcino divisi e colpiscano uniti tutte le zone di privilegio, tutte le chiusure corporative, tutte le vergognose accumulazioni di ricchezza personale e di gruppo, tutti i nuovi monopoli dell’informazione e della comunicazione.
È possibile tenere insieme visione lunga e alta di pensiero e iniziativa di lotte pratiche e concrete nell’azione e nell’organizzazione?
Non so se è possibile nel presente stato delle cose, che chiamerei di smarrimento sia tattico che strategico, dove di gramsciano “intellettuale collettivo” non c’è traccia, ma so per certo che è assolutamente necessario.
“La classe operaia non ha nulla da sperare da questo e da quest’altro ministro; la classe operaia non può fare affidamento che in sé stessa. Ogni decreto, ogni disegno di legge non sono che pezzi di carta per i padroni, la cui volontà può trovare un limite solo nella forza medesima degli operai”. Così scriveva Antonio Gramsci sull’Ordine Nuovo l’8 agosto del 1921. Lo chiedo a Lei che giustamente è considerato il “padre” dell’operaismo: è solo un pezzo di storia?
La storia, appunto, il passato, la memoria, se ne è fatto un deserto e l’hanno chiamata modernizzazione. Questo è un tempo smemorato. Questa brutta parola “presentismo” esprime un pessimo concetto: è tutto qui, non c’è altro dall’oggi, non c’è più né ieri né domani. La crisi della politica sta in questo: ha perduto il “che fare?”, segue il vento, non della storia ma della cronaca. Ogni governo e ogni opposizione vivacchiano nel giorno per giorno. Per la conservazione delle cose come stanno è una situazione ideale. Per la trasformazione in grande di questo stato delle cose è una condizione mortale. La crisi della sinistra fa tutt’uno con la crisi della politica. Qui da noi, in particolare, l’irruzione della demagogia antipolitica e il suo insediamento in un senso comune popolare, è stata devastante. Non se ne è visto il pericolo. Qualche volta addirittura si è colpevolmente ceduto ad essa, dai referendum elettorali dei primi anni Novanta, al lasciar passare il discorso sulla “casta”, all’abolizione del finanziamento pubblico della politica, al taglio dei parlamentari senza uno straccio di riforma istituzionale. Tutto questo si è sommato, in parallelo, al grande abbaglio della sinistra nuovista, europea non solo italiana, che ha scambiato la mutazione genetica capitalistica da centralità dell’industria a centralità della finanza, ordoliberalismo e fine della storia, cioè in pratica, reazione anti-novecentesca, il tutto come magnifica sorte progressiva. Anche qui non si è visto nella forma della modernizzazione il contenuto di restaurazione. Aggravante: nemmeno le crisi del 2008 e del 2011, come nemmeno l’attuale crisi geopolitica della globalizzazione, hanno prodotto né sembrano produrre fin qui un riposizionamento. Ricostruire la politica – decisione di presente, progettualità di futuro – è la premessa indispensabile per il ritorno in campo di una sinistra moderna con radici antiche.
La memoria storica come investimento sul futuro e non come anticaglia inutilizzabile di cui sbarazzarsi?
Diceva Agostino: il tempo, quando non ci penso so che cos’è, quando lo penso non lo so più. Temporalità e politica è un punto di problema. Il presente ha a che fare con il futuro non meno che con il passato. Sulle parole di Togliatti, “noi veniamo da lontano e andiamo molto lontano”, si costruì quella forza politica, nazionale e internazionale, che fu il Pci. Un partito senza passato non può avere una idea credibile di futuro. Anche quando si definisce “partito nuovo”, sceglie di stare dentro una tradizione. In quel caso fu la grande tradizione del movimento operaio, innovata in altre forme, superando antiche divisioni. Infatti fu una forza politica riformista senza mai rinunciare a dirsi rivoluzionaria.
È possibile per una sinistra di domani un’operazione di questo tipo?
Nuove forme di lavoro da una parte, nuove forme di capitale dall’altra, per sommariamente intenderci. Francamente non lo so. Sono convinto che si dovrebbe cercare per questa via. Ma mi guardo intorno e altrettanto francamente non vedo chi possa caricarsi, qui e ora, di questo arduo compito, quale soggetto collettivo, quali personalità in tutto politiche. Comunque, come programma minimo, vorrei che si cominciasse a ragionare di politica e memoria, politica di parte e memoria di parte. Poi, nella irrazionalità della storia, potrebbe accendersi una scintilla. E se capace di incendiare la prateria, questo spetterà a chi sapremo lasciare il testimone.