Cosa ci resta della sinistra?
La morte di Mario Tronti porta via una forma, uno stile
Editoriali - di Goffredo Bettini
Qualche settimana fa avevo scritto sull’Unità un lungo “elogio” a Mario Tronti. Per il suo 92° compleanno. Lo ripubblichiamo qui sotto. Oggi mi è giunta una telefonata della figlia, che mi ha comunicato la sua scomparsa. Solo un pensiero, che trafigge, alla consapevolezza che non c’è più.
Con Tronti se ne va una “forma”, uno stile, un modo di essere, un approccio, un suono delle parole, l’intercalare lento che prepara l’affondo, il pudore dei grandi, la tenacia dei rivoluzionari, l’educazione e la nobiltà del popolo, l’odore dei “mercati generali”, il disprezzo per il narcisismo, l’odio per la merce, la speranza dello “spirito libero”, l’indifferenza per la piccola borghesia che annaspa, la pietà e lo sdegno per gli “offesi” del mondo, le camminate solitarie, i tram e il metrò, le biblioteche, lo sguardo che lacrima di nostalgia perché non hai fatto tutto ciò che potevi fare e lo hai lasciato andare, il fastidio per la volgarità, i gesti smisurati, gli schiamazzi che disturbano la quiete, la tracotante manifestazione di te medesimo, penosa illusione di segnalarti all’universo che tutto ignora.
Tronti è un contenuto. Per me, radicalmente una forma, che ha lottato contro la deformazione di tutte le forme decretata dalla forma-mondo del capitalismo odierno che tutto rende cosa.
Il più grande filosofo politico del dopoguerra, almeno per me, sta invecchiando dolcemente. Conduce una vita disciplinata, parca; eppure ancora indomita per capacità di pensiero e attenzione sul procedere degli avvenimenti. Prassi e teoria, si rincorrono vicendevolmente. Come sempre, per lui.
Immerso nel suo ambiente popolare, risponde ad ogni lettera, interloquisce per iscritto, interviene su riviste e giornali, passeggia perché salutare anche per la mente, prende la metropolitana e il bus, pranza sempre alla stessa ora, va spesso in biblioteca a studiare. Un raro esempio di coerenza tra gli ideali che professa e l’esistenza che conduce; indissolubilmente, e forse oggi ancor di più, legata alla missione alla quale si è vincolato fin da ragazzo: cambiare alla radice una realtà che non gli piace. Partendo dagli ultimi, dagli offesi, dagli sfruttati.
Oggi anch’egli deve fare i conti con la scarsità di strumenti che abbiamo, con la pervasività del paradigma turbo-liberista che arriva fino in fondo alla radice umana delle persone. Se lo senti parlare, anche in privato, al telefono, la voce di Tronti è lucida e decisa nell’esprimere le sue convinzioni; eppure è come se arrivasse da lontano, da un altro mondo, da un’altra epoca. È impastata di pessimismo sul presente, seppure attraversata dal vivido rovello di “entrare in guerra con il mondo”, per costruirne un altro. Tronti rimane, nella sua essenza, un rivoluzionario. Solo il conflitto può aprire la strada ad una pacificazione. Un rivoluzionario, consapevole come pochi altri, che la sinistra e il movimento operaio hanno subito una sconfitta storica. Non valutata per la sua dimensione e i suoi effetti. Invece, Tronti la considera lo spartiacque di un’intera epoca: che segna il passaggio tra “il grande” e “il piccolo” Novecento.
Tronti, “un politico che pensa”, fin dagli anni Sessanta si è messo sulle spalle, con tante speranze, il compito di trovare le vie per combattere gli avversari di classe; che continuamente si trasformano e ti sfidano. L’operaismo: “Operai e capitale”. Un classico che spinge la classe operaia a diventare soggetto fondante di una alternativa di società. Nel cuore dei rapporti di produzione. Nella fabbrica moderna: dove si può rovesciare la dialettica tra servo e padrone. Non si tratta di un appello generico al protagonismo degli operai. Piuttosto la presa di coscienza da parte di una “aristocrazia” di classe, che si fa “forza”, potenza, azione foriera di teoria e di prassi, in grado di ergersi, nella sua nobile essenzialità, fino a un conflitto faccia a faccia con l’avversario.
È il fascino (fortissimo anche in me) di quei densi cortei operai, senza simboli di rappresentanze politiche o sindacali, “nudi” nel presentare sé stessi. Autosufficienti, talvolta silenziosi; lavoro “vivo” che manifesta la sua inevitabile politicità, in modo diretto. Per contendere un’egemonia sul complesso dei rapporti sociali, allora pensata possibile. Poi: il passaggio difficile dopo il ‘68- ‘69. Le lotte giovanili e dei lavoratori decisive per migliorare i salari e i diritti, ma alla fine incapaci di un salto di qualità. Di smuovere gli assetti di potere. Anzi: a quel livello, dopo la rivolta, vince la reazione di destra. A quel punto Tronti svolta; o meglio completa e approfondisce il suo pensiero.
È la fase dell’”autonomia del politico”. Difficile dare conto della ricchezza della sua riflessione.
Ma, in sostanza, si prende atto che la “fabbrica” non basta più. Ciò che il padronato perde, recupera, con i resti, attraverso gli strumenti del governo, del potere, della diffusa statualità, della sapienza tecnico amministrativa, ereditata da un grande passato. La classe, dunque, deve confliggere anche lì: nel cuore dello stato e della politica. Con sagacia tattica, cultura e professionalità. Appropriandosi del sapere di chi per secoli ha comandato, ritorcendoglielo contro. Machiavelli e Schmidt, prima di tutti. Tronti si riavvicina al Pci. Al partito. A metà degli anni ‘80 accetta la proposta avanzata dal sottoscritto, allora segretario dei comunisti romani, di entrare nella segreteria. Fu un privilegio per noi, a quel tempo poco più che ragazzi. Era attento, puntuale, modesto e autorevolissimo nel suo lavoro di direzione. A lunghi silenzi alternava “sciabolate” politiche e di pensiero. Come quando svolse una relazione di fronte a più di mille iscritti, in polemica con Occhetto, circa la ricollocazione storia della rivoluzione sovietica.
Al di là degli esiti tragici successivi, considerata, comunque, la scintilla che ha cambiato il Pianeta. Proprio alla fine di quel decennio, tuttavia, per Tronti si chiude il sipario. Si apre un altro scenario, rapidissimo e spietato nel suo evolvere. Il crollo dell’Urss: la pietra sopra il Novecento che ha sognato “l’assalto al cielo”. Non si intravedono più cieli. Il pensiero, unico e vincente, pare indiscutibile e oggettivo. È in simbiosi subalterna, con il travolgente sviluppo capitalistico-finanziario; che corre sulle ali della scienza e della tecnica. E che è quello che comanda veramente. La “merce” permea ogni realtà e ogni forma di vita. Ha ingoiato i soggetti del cambiamento, gli slanci verso un “oltre”, lo spazio vitale per una rivolta. Alla sinistra pare restino solo due strade, aborrite da Tronti: integrarsi per addolcire lo stato delle cose o praticare il minoritarismo ideologico, astratto e inconcludente. Frammento sociale, consolatorio e autoreferenziale, a cui è preclusa l’ipotesi di confliggere nei rapporti sociali e per la conquista del governo e dello stato.
Giunge così la terza fase, coerentemente connessa con le precedenti, della ricerca di Tronti. Urgente ma non affannosa. Libera, “sporca”, attraversante e attraversata da sortite nel pensiero cresciuto nel campo avverso. Stimoli “scorretti”, arrivando dove la sinistra non è mai riuscita ad arrivare. Da “La politica al tramonto” fino a “Lo spirito libero” si compongono pagine temerarie; eppure non aeree, astratte; piuttosto dedite a riprendere in mano un filo perduto. Se il capitalismo finanziario ha dato forma alla forma mondo e la forma mondo ha dato forma (o ha deformato) le forme umane e della vita, dove sono gli appigli per scalare di nuovo la montagna?
Qui Tronti si fa, volutamente, evocativo, più indefinito, persino misterioso; e dal suo autentico struggimento e realismo pessimista, azzarda visioni, più che programmi e analisi scientifiche. Non trascurando la loro utilità per una militanza e un risveglio dal basso; a cui dedica ancora una parte del suo tempo. Dove il pertugio? Non tutto è colonizzato e colonizzabile. Nella profondità dell’umano, la sonda del pensiero critico può trovare grandi sorprese e la “libertà” dello spirito. Spirito, sfuggente come la vita stessa. Non misurabile, non calcolabile, non prevedibile. Eppure insopprimibile; perché è un “sì” alla vita che contrasta l’inerzia delle cose, la passività e la pigrizia manipolabile.
Ci sono molti echi di un altro gigante del pensiero della sinistra: Pietro Ingrao. È come un tirare su per i capelli gli esseri umani dalla poltiglia indistinta e massificata del melmoso presente. È una frontiera oltre la quale la mercificazione, a certe condizioni, trova territori di indisponibilità. È il pensiero che va “oltre”, si sottrae, non viene a patti, cerca solidarietà tra affini, smuove il terreno per percorsi molteplici e in ombra. È un lavoro in gran parte molecolare. Pretende tempi lunghi. E pretende una politica già da oggi in grado di produrre cultura, dubbio, riflessione in movimento; rifuggendo un democraticismo inconcludente, ramificazione e rimbombo del messaggio dominante.
Quando, invece, occorre alludere a nuove forme “ordinatrici”; che disordinano l’ordine universalmente definito da una manciata di potenti. Insomma: la sconfitta subita non è solo sociale e politica. Piuttosto antropologica. È lì che si verifica la contraddizione fondamentale. Si è aperta una crisi di civiltà; ormai messa in discussione, da un paradigma che tutti gli altri ingoia.
Tronti suggerisce spunti di azione. Senza illudersi. La transizione, se vi sarà, durerà molto tempo. È impervia. Non spingere in avanti alla cieca è dimostrazione di forza ed è la sola possibilità per una “epifania” di sbocchi allo stato attuale difficilmente decifrabili. È giusto prendere atto dell’oscurità che ci circonda; continuando a tentare di accendere luce. La crisi di civiltà inchioda tutto il passato al presente. Lo consuma e lo svilisce. Nega anche il futuro; perché il presente si può innovare esclusivamente entro i suoi stessi confini. Una reiterazione che assomiglia a un istinto di morte. La “libertà” dello spirito è, al contrario, il recupero di tutto ciò che si vorrebbe perduto. Non solo il lascito della nostra parte. Piuttosto le “idee” di tutto il grande pensiero. Gli autori, i filosofi, i politici, anche del campo che abbiamo combattuto. Perché da lì si può imparare. Soprattutto da quelli che hanno visto per primi il “demonio” dell’Occidente e lo hanno penetrato con occhio follemente lucido. Dostoevskij e Nietzsche, sopra ogni altro.
In questo senso, la prospettiva di Tronti è catecontica. La storia va frenata, va rallentata nella sua corsa verso un burrone e la liquidazione dello spirito. Altro che una generica innovazione, sulla quale competere con i nostri avversari! È stata questa la via che ha portato alla subalternità della sinistra. Rallentare, invece, per non nutrire ancor di più uno sviluppo malsano, inumano e distorto. Prendere tempo; per riorganizzarsi. Semmai ammassare ai confini dello scontro, tutto il materiale più significativo di una tradizione antica; utile ad affinare le coscienze e a contrastare il silenzio.
Immaginare un “oltre”; non come un disegno definito. Piuttosto come l’impulso incancellabile e insopprimibile alla libertà. Occorrono “profeti”. Da non intendere come sognatori o indovini del tempo che verrà. Semmai come testimoni di un possibile altro “luogo”; in grado di mettere in tensione il presente. Per comprenderlo con più profondità nelle sue faglie nascoste, nei suoi sviluppi autentici, nella dialettica che nutre, seppure negata dal potere.
Tronti ragiona in termini di una nuova “teologia politica”. In odio al presente. Un al di là che per i credenti è il destino della verità celeste e per i non credenti la possibilità dell’essere umano di innalzare l’essere umano. Nel segno dei tempi, sottolineo io, questi percorsi si dovrebbero intrecciare. Tra socialismo e cristianesimo, tra le parole di Francesco e il recupero di una laica integrità umana, ci sono assonanze, da non far morire. La stessa preghiera come ricorda Taubes: “E anche qualcos’altro rispetto al canto nella Chiesa cristiana: pregando si grida, si geme, si prende d’assalto il cielo”. Credo sia questo il pregare che impegna Tronti. Anche nei suoi frequenti ritiri nella dimensione del convento.
Ecco il perché degli auguri a un maestro. So che egli non gradisce questa definizione. Gli insegnamenti nascono nel fuoco dei grandi stravolgimenti storici. La Rivoluzione francese, la comune di Parigi, la rivoluzione dei soviet, le lotte operaie e sociali. Tutto questo produce pensiero. Altrimenti ammuffito, nella normalizzazione gestita dai forti. Ma chiamarlo maestro, per me, non è pretendere da lui lezioni, che non intende impartire. Piuttosto testimoniare una gratitudine a una presenza militante e al tempo stesso speculativa, che ha segnato la nostra storia e le nostre vite.