Il ricordo
“Mario Tronti era una speranza di pensiero nel deserto della sinistra”, il ricordo di Sergio Cofferati
Interviste - di Umberto De Giovannangeli
Il “padre” dell’operaismo ricordato, nel giorno della sua scomparsa, da colui che è stato il leader della più grande organizzazione sindacale. Una vita nel sindacato, nella Cgil, della quale è stato segretario generale dal giugno 1994 al settembre 2002, promotore della più grande manifestazione di piazza nella storia del dopoguerra. Mario Tronti visto da Sergio Cofferati.
Cosa ha rappresentato per il movimento operaio e sindacale Mario Tronti?
Una interlocuzione di altissimo valore. Il suo pensiero, e la traduzione di esso in testi scritti hanno aiutato la discussione interna alle organizzazioni compresa la Cgil, per tanto tempo. È stato uno stimolo importante, non solo perché quello di Mario Tronti era un pensiero profondo, ma anche perché aveva sempre il coraggio di affrontare, a volte con largo anticipo, i temi che riguardano il lavoro e l’economia, anche in contrasto con i comportamenti e le opinioni prevalenti in quel momento.
Mario garantiva dialettica e profondità nella definizione dei temi che erano oggetto di confronto, discussione, ricerca. E questo è stato per tutta la sinistra, non solo per le organizzazioni, ma in generale per chi ha vissuto e lavorato. L’elaborazione di Mario Tronti è stato uno stimolo importante per chiunque abbia lavorato con una visione progressista di riferimento.
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Mario Tronti è stato giustamente definito il “padre” dell’operaismo. Cosa ha rappresentato quello specifico pensiero, anche nello sviluppo del conflitto di classe e delle stesse organizzazioni, sociali e politiche, che a quella classe facevano riferimento?
È stato in primo luogo uno stimolo a cercare sempre di dare sostanza alle azioni necessarie nel mondo della rappresentanza, sia quella politica sia quella sociale. E poi ha consentito di guardare in profondità ad alcuni fenomeni che, purtroppo, tanti soggetti guardavano con distrazione o addirittura ignoravano. Cosa ha rappresentato il lavoro industriale e le persone che lo praticavano, qualunque fosse il dettaglio, è sempre stato molto importante, soprattutto in tutto il dopoguerra, quando in Europa, oltre che in Italia, l’uscita dalle dittature ha consentito alla democrazia di dispiegarsi, però l’ha spinta, in qualche circostanza viene da dire costretta, a fare i conti con la società nella quale la democrazia si sviluppava, si radicava. La società nei suoi contenuti, sia quelli ideali che quelli materiali. Quando dico quelli materiali, penso a quelli che riguardano ciò che poi è stato realizzato per rappresentare le imprese, per rappresentare il lavoro, in generale per l’economia. E Mario in questo ha avuto un ruolo molto, molto importante, riempiendo dei vuoti che la semplice rappresentanza non era stata in grado qualche volta neanche di percepire.
Nella sua ultima, impegnata intervista, concessa a l’Unità nei primi giorni del suo ritorno in edicola, segno tangibile e illuminante del suo legame con il giornale fondato da Antonio Gramsci, Mario Tronti ragionò proprio sull’attualità del pensiero gramsciano, rideclinandolo in rapporto alla società dei lavori oggi.
Uno stimolo del tutto positivo. Gramsci nelle sue riflessioni, nelle sue proposte, parte dalla società del suo tempo, ma i valori e le dinamiche, come giustamente sottolineava Tronti in quell’intervista, che Gramsci esplora e propone, sono connesse al tema generale, all’economia e al lavoro, al livello più alto che possono avere. E poi come l’economia e il lavoro in quel periodo storico si stanno sviluppando oppure stanno regredendo, è dato dalle caratteristiche di dettaglio della loro composizione. Ma la dimensione generale vale nel tempo, si forma con comportamenti e attività diverse da quelle precedenti, ma sempre lì ritorna.
In questo c’è ancora oggi un’attualità, una modernità del pensiero di Mario Tronti?
Sì. Poco percepita, secondo me, ma c’è ancora. E c’è bisogno anche di approfondimenti culturali come quelli che lui garantiva. C’è un vuoto da colmare.
“Comunque, come programma minimo, vorrei che si cominciasse a ragionare di politica e memoria, politica di parte e memoria di parte. Poi, nella irrazionalità della storia, potrebbe accendersi una scintilla. E se capace di incendiare la prateria, questo spetterà a chi sapremo lasciare il testimone”. Così Tronti conclude la sua ultima intervista a l’Unità.
Come considerazione, come ipotesi, è molto affascinante. Ma è molto difficile che si realizzi perché la sinistra di oggi è poco incline a guardare lontano e ancor meno a guardare la storia passata. Vive molto alla giornata, senza progetti.
Progetti che potrebbero essere ambiziosi, qualche volta addirittura esagerati. Un progetto stimola sempre azioni e partecipazione, ma oggi di tutto questo non si vede traccia.
Questo “deserto” non è dovuto anche a un regresso delle responsabilità di quello che un tempo si sarebbe definito il mondo dell’intellettualità. Anche su questo Tronti amava ragionare, con una lucidità “impietosa”.
Mario aveva ragione anche in questo. Le responsabilità sono molteplici e diffuse. Ci sono quelle delle organizzazioni di rappresentanza che tendono a vivere alla giornata, senza un progetto che guardi lontano. Poi la realizzazione del progetto può essere molto difficile, complessa, conflittuale, ma il progetto dà vita e oggi di questo non c’è traccia.
E poi, certo, in parallelo c’è il venir meno di un lavoro intellettuale. L’attività intellettuale dovrebbe essere rivolta sempre a guardare il futuro e a cercare le soluzioni che lo possano rendere migliore, più facile da realizzare. E questo oggi purtroppo non c’è. C’è una dimensione intellettuale molto ristretta, angusta, che fatica a guardare al tempo ravvicinato e ignora completamente il tempo lontano, tant’è che poi ci si trova di fronte a cambiamenti, che riguardano l’economia, la società, l’ambiente, improvvisi che non sono stati minimamente affrontati nei segnali che avevano dato in passato dall’intellettualità.
Mario era fatto di un’altra pasta. Ci mancherà.