Il caso in Libia

Chi è Gianluca Alberini, l’ambasciatore a Tripoli che ignora gli ordini del giudice

Un ragazzo rischia la vita. Il Tribunale di Roma intima: dargli «immediatamente» un lasciapassare e un visto. Ma nessuno adempie alla sentenza. I legali: «Avviamo esecuzione coatta»

Esteri - di Angela Nocioni

30 Giugno 2023 alle 11:30

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Chi è Gianluca Alberini, l’ambasciatore a Tripoli che ignora gli ordini del giudice

L’ambasciatore italiano a Tunisi, Gianluca Alberini, non sta adempiendo a un ordine del tribunale. Deve dare immediatamente un lasciapassare e un visto a un ragazzo sudanese del Darfur per ordine di un giudice di Roma. Lo deve fare e alla svelta, altrimenti il suo comportamento diventa omissione di un doveroso atto d’ufficio. Se non lo fa, è mancato adempimento doloso dell’ordine del giudice. I legali del ragazzo, dopo ripetuti solleciti, sono costretti a avviare una procedura esecutiva per veder rispettata la sentenza.

L’ambasciatore – non soltanto lui perché la sentenza chiama in causa anche la presidenza del Consiglio, il ministero degli Esteri, quello degli Interni quello della Difesa – rischia di andare incontro a responsabilità penali. Entrano in ballo l’articolo 388 e il 328 del codice penale.
Questo sottrarsi all’ordine del tribunale sta facendo rischiare la vita al ragazzo che si trova a Tripoli, nascosto, in una situazione di estremo pericolo: quel pericolo lo sta correndo per responsabilità del governo italiano che l’ha respinto illegittimamente in Libia contravvenendo all’obbligo di farlo arrivare in Italia, responsabilità riconosciuta da una sentenza.

I fatti. Il primo luglio del 2018 succede nel mar mediterraneo quello che accade molto spesso: di fronte a una richiesta di soccorso di migranti in balia delle onde, le autorità italiane avvisano la guardia costiera libica dando le indicazioni precise per una cattura rapida dei naufraghi. In acqua, non distante dal gommone in avaria, quelgiorno c’è la nave Duilio della Marina Militare Italiana, allertata anch’essa ma con la consegna a non intervenire. La nave non soccorre i naufraghi, ma invia il suo elicottero, EliDuilio, sopra il gommone. Nell’attesa che la motovedetta libica arrivi, ore e ore dopo, il gommone cede. Muoiono così, ottanta persone. La motovedetta libica porta a bordo i 18 superstiti, con loro a bordo carica altri 262 migranti fermati in mare, torna verso Tripoli.

Ma va in avaria. Su indicazione della nave militare Caprera, che è in rada al porto di Tripoli, banchina Abu Sitta, interviene il mercantile Asso Ventinove (parte della flotta della Augusta Offshore). La nave Caprera sta a Tripoli in teoria nell’ambito dell’operazione Nauras che prevede il solo supporto meccanico e logistico per la manutenzione delle motovedette fornite dall’Italia alla guardia costiera libica, cioè alle bande di trafficanti vari di cui è composta la guardia costiera libica. La nave ha finito però per essere il vero centro di coordinamento dei libici.

La Asso Ventinove va, porta a bordo tutti i naufraghi e fa rotta su Tripoli con motovedetta vuota a rimorchio. I naufraghi vengono fatti sbarcare al porto di Tripoli, il ragazzo sudanese di cui si occupa la sentenza del tribunale di Roma (perché è l’unico che è riuscito a far ricorso) finisce internato nel lager di Tariq Al Matar. Subisce per tre mesi torture e violenze di ogni tipo, per poi essere mandato ai lavori forzati. Da notare che nel tentativo di rigettare il suo ricorso l’Avvocatura di Stato italiana fa di tutto per imputare l’accaduto esclusivamente ai libici nonostante sia chiarissimo che a riportare a Tripoli i naufraghi sia stata una nave italiana che aveva il dovere di portarli in Italia perché la Libia, dove i migranti catturati vengono rinchiusi in lager, non è un porto sicuro.

Il Tribunale di Roma ricostruisce nella sentenza, passo passo, il “ruolo decisivo allo Stato italiano nell’esecuzione della condotta contestata”. Ordina quindi al governo italiano di “emanare tutti gli atti necessari a consentire l’immediato ingresso nel territorio italiano” del ragazzo che deve entrare in Italia “per presentare la domanda di protezione internazionale”. A Tripoli lui è appena sfuggito a una retata. Dare subito un visto e un lasciapassare che sostituisca il titolo di viaggio, intima la sentenza. Alla quale l’ambasciata italiana in Libia non ha finora dato seguito.

E’ un temporeggiare gravissimo perché quel ragazzo sudanese, che è dovuto ricorrere contro l’avvocatura dello stato italiano per vedersi riconosciuto un diritto evidente, rischia di morire. E ogni minuto che passa è un minuto perso che può costargli la vita. La nostra ambasciata a Tripoli deve spalancargli le porte, garantirgli protezione. Invece fa finta di nulla, L’ordine del giudice viene ignorato. Cerchiamo da giorni l’ambasciatore Alberini per chiedergli cosa stia aspettando, ma non ha mai risposto. I legali del ragazzo sono costretti a notificare l’atto di precetto per avviare una procedura esecutiva per veder rispettata la sentenza. Tempo che passa. Costi che si sommano. E soprattutto rischio crescente che lui faccia una brutta fine.

L’avvocata Loredana Leo, che insieme all’avvocata Giulia Crescini ha condotto il ricorso contro l’avvocatura dello Stato, e l’ha vinto, conferma di aver sollecitato più volte l’ambasciata. E sempre a vuoto. Dice l’avvocata Leo: “Appena ricevuta l’ordinanza la abbiamo mandata con più solleciti all’ambasciata. Era parte in causa l’ambasciata e quindi lo doveva sapere dal tribunale. Ciononostante abbiamo mandato due giorni fa una diffida, un atto stragiudiziale prima di incardinare un altro procedimento per arrivare a esecuzione forzata, abbiamo provato a diffidare per sollecitare l’esecuzione. Se non si adegua saremo costretti ad andare di nuovo in tribunale, avvieremo la richiesta di procedura esecutiva nei prossimi giorni”.

Di solito le ambasciate di fronte a una sentenza del giudice che chiede il rilascio di un visto provvedono subito. “Ci siamo già trovati di fronte a ordini simili – dice un giudice del tribunale di Roma – e le ambasciate hanno sempre adempiuto subito. E’ la prima volta che non rispettano un ordine del genere e per di più stavolta la sentenza prevede l’ordine esplicito di portarlo in Italia immediatamente. Gli ordini dei giudici vanno eseguiti, l’obbligo riguarda ovviamente anche e in primo luogo dalla pubblica amministrazione che deve improntare il suo comportamento al rispetto non solo delle leggi ma anche degli ordini dei giudici”.

Siccome la responsabilità penale è personale l’ambasciatore, che ha il potere di rilasciare il lasciapassare e il visto ordinatigli dal tribunale, deve provvedere subito a rilasciarli. Continuare a non farlo configura il reato descritto dall’articolo 388 del codice penale riguardante chi non ottempera ai provvedimenti dell’autorità giudiziaria. Poi, essendo tutti i destinatari della sentenza e non solo l’ambasciatore dei pubblici ufficiali, potrebbe scattare l’articolo 328 del codice penale per l’omissione o il rifiuto di atto d’ufficio. L’articolo 328 prevede una messa in mora di trenta giorni di un pubblico ufficiale. Il 388 presuppone che sia avviata la procedura esecutiva. Presuppone cioè di tirare in ballo un altro giudice che si occupi dei cosiddetti “obblighi del fare”.

Se dal ritardo deriva un danno – ed è evidente che il danno già c’è – il ragazzo va risarcito. Ma la questione sconcertante è che dei pubblici ufficiali – dall’ambasciatore Alberini, al ministro degli esteri, alla presidenza del consiglio – aspettino che un giudice li costringa ad adempiere a un ordine del giudice attraverso una procedura forzata. Ambasciatore, ci faccia capire: un ragazzo rischia la vita e lei, prima di metterlo in salvo come un giudice le ha già ordinato di fare, aspetta che un altro giudice le ordini di farlo attraverso una procedura forzata?

30 Giugno 2023

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