Il caso a Tripoli
Migrante respinto in Libia in maniera irregolare: “Dargli il visto subito”, ma il governo disobbedisce…
Non ha ancora dato né un documento d’ingresso in Italia né protezione a Tripoli al ragazzo che deve essere protetto per decisione del Tribunale di Roma
Esteri - di Angela Nocioni
C’è un ragazzo nascosto a Tripoli, il cui diritto di metter piede immediatamente in Italia per poter chiedere protezione è stato accertato e ristabilito dal tribunale di Roma, che deve ricevere subito il visto dalla nostra ambasciata a Tripoli. Lo dice una sentenza del Tribunale di Roma che «ordina alle amministrazioni competenti di emanare tutti gli atti ritenuti necessari a consentire il suo immediato ingresso nel territorio dello Stato italiano».
Ecco, quel visto non c’è. L’ambasciata italiana a Libia che dovrebbe darglielo, non gliel’ha ancora dato. L’ha ospitato, accolto, lo sta proteggendo, aspettando di mettere un timbro a questo benedetto visto? No. Noi l’abbiamo contattata per chiedere spiegazioni, ma non ci ha ancora risposto. La sentenza del Tribunale di Roma parla chiarissimo e si rivolge alla presidenza del Consiglio oltre che al ministro degli esteri e a quello degli interni. Ordina di «emanare tutti gli atti necessari». In assenza di collegamenti accessibili e sicuri ai quali la persona in pericolo possa accedere vuol dire che il governo italiano si deve occupare di andarlo a prendere. Perché il ragazzo è in Libia, esposto a pericoli dopo aver subito torture di vario genere, per colpa dell’Italia. Perché è stato respinto illegalmente in Libia dalla guardia costiera libica, con la collaborazione accertata dell’Italia.
È successo il primo luglio del 2018 quello che accade molto spesso. Solo che questa volta c’è una serie di documenti giudiziari a raccontarlo. È successo che di fronte a una richiesta di soccorso di una barca prossima al naufragio le autorità italiane avvisano i libici dandogli le indicazioni precise per una cattura rapida dei naufraghi. Nei dintorni della nave in pericolo c’è la nave Duilio della Marina Militare Italiana, allertata anch’essa ma con la consegna a non intervenire. Invia il suo elicottero EliDuilio sopra il gommone. Passano le ore prima che la motovedetta libica arrivi, nel frattempo il gommone cede. Muoiono così, nell’attesa, ottanta persone. La motovedetta libica porta a bordo i 18 superstiti, con loro a bordo carica altri 262 migranti fermati in mare, punta verso Tripoli. Ma va in avaria.
Arriva il mercantile Asso Ventinove – parte della flotta della Augusta Offshore che opera a supporto di sicurezza attorno alla piattaforma di Sabratha – su indicazione della nave militare Caprera, che è in rada al porto di Tripoli, banchina Abu Sitta. La Caprera sta a Tripoli nell’operazione Nauras, che formalmente prevede il solo supporto meccanico e logistico per la manutenzione delle motovedette fornite dall’Italia alla guardia costiera libica, cioè alle bande di trafficanti vari di cui è composta la guardia costiera libiica La Caprera ha finito per essere il vero centro di coordinamento dei libici. La Asso Ventinove va, porta a bodo tutti i naufraghi della navetta libica e fa rotta su Tripoli con motovedetta vuota a rimorchio. La nave italiana si ferma davanti al porto di Tripoli, i naufraghi vengono fatti sbarcare e il ragazzo che è riuscito a far ricorso finisce con altri internato nel lager di Tariq Al Matar. Subisce per tre mesi torture e violenze di ogni tipo, per destinato come schiavo ai lavori forzati.
Nel tentativo di rigettare il suo ricorso l’Avvocatura di Stato italiana fa di tutto per imputare tutto l’accaduto esclusivamente ai libici. Il Tribunale di Roma accerta che è vero il contrario di quanto asserito dalla Avvocatura di Stato perché ricostruisce, passo passo, il «ruolo decisivo allo Stato italiano nell’esecuzione della condotta contestata, circostanza il cui accertamento si configura quale dirimente ai fini della decisione. All’esito della lettura degli atti depositati dalla parte ricorrente, si ritiene che le azioni di coordinamento compiute dalla Marina militare italiana, in particolare le indicazioni fornite ad Asso 29 per il recupero dei naufraghi ed il successivo trasporto degli stessi verso la Libia, unitamente alla circostanza che gli stessi si trovassero in tale frangente a bordo di una nave battente bandiera italiana, siano tali da configurare la responsabilità dell’Italia, nonché fondare una pretesa al ripristino del diritto violato».
Ancora: «Il venir meno dell’Italia a dette obbligazioni positive è peraltro insito nell’adozione di atti coerentemente ed inequivocabilmente finalizzati ad ottenere il rientro in Libia del ricorrente e degli altri naufraghi per il tramite della condotta di un attore privato (l’equipaggio della Asso 29) con il conseguente rischio reale ed immediato di sottoposizione a trattamenti vietati» da varie norme internazionali. La sentenza ribadisce la «necessità di una piena attuazione del divieto di respingimento per il tramite di una tutela il più possibile ampia e dal carattere marcatamente sostanziale. È fatto notorio e confermato da tutte le autorevoli fonti internazionali che la Libia non costituisca un porto sicuro dove poter far sbarcare le persone soccorse in mare, che andrebbero altrimenti incontro a trattamenti inumani e degradanti e torture».
Ricorda «il diritto funzionale a prevenire qualsiasi respingimento, di chiunque si trovi in una determinata situazione oggettiva, verso un paese in cui la sua vita o la sua libertà siano a rischio, a prescindere dal fatto che lo status di rifugiato della persona interessata -ai sensi dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra -sia stato o meno ufficialmente riconosciuto (v. Cass 15869/22). Il divieto di respingimento verso un luogo non sicuro è stato esplicitamente previsto e regolamentato da numerosi altre fonti internazionali adottate successivamente alla Convenzione di Ginevra». Se l’ambasciata non dà subito quel visto disobbedisce alla sentenza del Tribunale di Roma.