Il reportage

Siria, dove il passato non è ancora storia: viaggio nel Paese a un anno dalla caduta di Assad

“Non è pace, è solo una pausa”, mi dice una giovane insegnate a Damasco. La fine del regime non ha significato la fine della paura, né la guarigione delle fratture che attraversano la società siriana. Eppure quello che ho visto è un Paese vivo

Esteri - di Giovanna Cavallo

21 Dicembre 2025 alle 08:53

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AP Photo/Hussein Malla – Associate Press/ LaPresse
AP Photo/Hussein Malla – Associate Press/ LaPresse

La Siria che ho visto: tra ferite aperte e normalità ostinata

“Come vedi la Siria?” È la domanda che più spesso mi viene rivolta da quando sono arrivata a Damasco. Ogni volta resto in silenzio qualche secondo, perché la Siria di oggi non è mai una sola. È un Paese attraversato da linee di frattura che continuano a dividere comunità, memorie, possibilità di futuro. Un anno dopo la caduta di Bashar al-Assad, le piazze si sono riempite per celebrare la fine del regime, ma dietro le bandiere della rivoluzione a stelle rosse e i fuochi d’artificio sopravvive una realtà più complessa. Nel racconto ufficiale questa fase viene definita “liberazione nazionale”, l’inizio di una nuova stagione. Nelle strade, invece, la transizione appare come un compromesso fragile tra la voglia di crederci e la consapevolezza che le vecchie disuguaglianze, le appartenenze confessionali e la violenza strutturale non sono state davvero smantellate.

La Siria che ho attraversato è un mosaico di città che cercano un equilibrio tra il lutto e la voglia di futuro, tra euforia e disillusione. Mentre le cerimonie ufficiali segnano il colpo di stato come l’inizio di una “nuova era nazionale”, intere regioni restano intrappolate tra vecchie alleanze, nuovi poteri locali e un’economia che resta spezzata. “Non è pace, è solo una pausa,” dice Rasha, giovane insegnante che ho conosciuto a Damasco, mentre ricorda nel suo villaggio nell’est una scuola ancora in rovina. La nostra missione ha provato ad immergersi nel caleidoscopio delle aree locali, attraversando confini ideologici che dividono fisicamente realtà territoriali e tracciano uno spettro complesso siriano che fa eco alle polarizzazioni che caratterizzano il paese.

I teatri delle violenze settarie

A Suwayda nel cuore della comunità drusa, questo primo anniversario scivola via tra le strade animate ma raccolte, come se la città avesse scelto di proteggersi dalla narrazione ufficiale. Qui la parola “liberazione” suona distorta e più vicina a un’utopia che ad una prospettiva. Il massacro di luglio entra ancora nelle case da spiragli inattesi. Dal buco irregolare di una lamiera bruciata, Suwayda si lascia vedere solo a pezzi: un balcone intatto, un muro beige, una scala che non porta più da nessuna parte. È come se lo sguardo fosse costretto a passare attraverso una ferita per riuscire a mettere a fuoco il presente. Le facciate degli edifici raccontano da sole gli ultimi mesi. Interi palazzi portano colate nere di fumo che scendono dai balconi come cicatrici verticali, segnando con precisione l’altezza delle fiamme. Nei cortili, finestre vuote e serrande abbassate si alternano a qualche appartamento tornato abitato, in un contrasto netto tra chi ha potuto rientrare e chi è rimasto negli shelter center, aperti per accogliere migliaia di famiglie sfollate dalle loro case date alle fiamme da miliziani jihadisti. Le carcasse arrugginite di automobili bruciate, abbandonate ai margini della strada, sembrano sculture involontarie di una stagione che nessuno ha voglia di archiviare.

I metalli contorti, le vernici mangiate dal fuoco e dal tempo raccontano di attacchi che hanno trasformato oggetti ordinari in monumenti di rovina che piombano Suwayda in una tensione costante tra una disperata autonomia e la consapevolezza di essere una minoranza in un Paese che non ha ancora trovato un modo credibile per includere tutti. La comunità drusa resta sotto scacco anche per la posizione strategica, per i giochi regionali, per l’ombra dei vecchi e dei nuovi poteri. Chi incontro mi parla a bassa voce ricordando i propri cari scomparsi. La “nuova Siria”, da qui, viene guardata con disprezzo: come una promessa disattesa e gravemente tradita, che non potrà avere una prospettiva. Qui come altrove, le identità che continuano a dividere appartenenze confessionali non sono un dettaglio, ma una struttura portante. Il regime di Assad ha trasformato per anni le identità religiose e sociali in strumenti di controllo: sunniti, alawiti, drusi, cristiani erano etichette da cui dipendevano accesso alle risorse, sicurezza, margini di parola. La caduta del potere baathista le ha lasciate come gabbie, in eredità a chi oggi governa la transizione. Me ne accorgo a Jaramana, un sobborgo alla periferia di Damasco abitata da diverse comunità tra cui quella drusa, che è rimasta ferma con i murales che ritraggono la vecchia bandiera, ormai illegale, più per disattenzione che per scelta. Lì inciampo per strada e la madre di un’amica drusa sorridendo mi ricorda: “Se cadi in un posto, significa che ti sposerai lì.” Poi, quasi per scherzo, aggiunge “forse non potrai, sei cristiana”.

Sorrido, ma penso a quanto questa battuta contenga una verità diffusa: in Siria non sei mai soltanto una persona, sei appartenente a una categoria che orienta relazioni, destini possibili, persino il diritto di restare o partire. Le fratture sociali e confessionali che il vecchio regime ha esasperato vengono ancora oggi mobilitate, apertamente o in modo carsico, per definire alleanze, isolare voci critiche, distribuire opportunità. Mentre la retorica ufficiale parla di unità nazionale, la mappa reale del Paese resta una geografia di identità rigide. Più a ovest sulla costa a 50 chilometri da Latakia, Baniyas racconta un’altra declinazione delle stesse fratture. Qui il mare non si vede subito: prima arrivano le tracce della violenza scaturita dalla controffensiva delle forze di sicurezza del regime della scorsa primavera che ha causato oltre 1000 vittime civili. Le carcasse delle case colpite, i balconi anneriti, gli appartamenti svuotati parlano di una città dove le identità religiose sono state usate come miccia, trasformando la convivenza tra comunità sunnite e alawite in una linea del fronte interno. Poco più in là, una casa color verde pallido è quasi inghiottita dalla vegetazione i balconi sono anneriti, le fi nestre vuote, ma dagli arbusti che crescono sotto le ringhiere arriva un senso di ostinata vitalità. È come se la natura fosse l’unica a rivendicare senza esitazioni il diritto di riprendersi lo spazio. Dentro gli appartamenti colpiti, i soffitti crollati e i muri spaccati convivono con brandelli di quotidianità che raccontano la violenza che si è consumata in uno dei luoghi più intimi, trasformato in spazio di terrore.

La guerra che non diventa passato

Tornando invece al Sud verso il Golan arriviamo a Beit Jenn dove la Siria mostra il suo volto più esposto alle logiche regionali. Il paesaggio è segnato da case incompiute, muri crepati, strade che si arrampicano tra colline che hanno ascoltato per anni il rumore dell’artiglieria. Qui parlare di “post-conflitto” è quasi offensivo: la guerra non si vede più in prima linea, ma continua a fi ltrare attraverso check-point, pattugliamenti, presenze armate. La posizione, a ridosso delle alture del Golan occupate da Israele, rende Beit Jenn un tassello sensibile nella partita tra Damasco e Tel Aviv: ogni movimento militare, ogni schieramento locale viene letto alla luce di questa costante sorveglianza reciproca. In una strada polverosa, una giovane attivista parla davanti a una telecamera, circondata da giornalisti, bambini, bandiere che sventolano in una manifestazione che rivendica l’appartenenza di questo piccolo villaggio alla Siria.

Le sue parole sulla giustizia e sulla ricostruzione si mescolano al rumore dei motorini e delle voci che passano, ma portano addosso il peso di un territorio che è sempre stato pensato più come corridoio strategico che come comunità da proteggere. A pochi metri, un minareto lesionato alla base dai mortai lanciati dall’IDF, attraversato da crepe profonde e cavi elettrici, sembra reggersi più per ostinazione che per solidità; ai suoi piedi brillano pannelli solari che forniscono energia dove lo Stato arriva a intermittenza, condensando nello stesso sguardo religione, povertà, adattamento tecnologico. Sul pietrisco, due bossoli arrugginiti nel palmo di una mano ricordano che qui il passato recente non è ancora diventato storia: è un presente che continua a condizionare le scelte di chi resta. In questo senso Beit Jenn condivide con Sweida una condizione di vulnerabilità politica: territori di frontiera, reali o simboliche, in cui le comunità scontano tanto i giochi di potere interni quanto gli interessi esterni, e dove la promessa di una “nuova Siria” rischia di restare solo un titolo lontano.

Damasco: normalità come resistenza

Rientrando stabilmente a Damasco dopo aver attraversato queste periferie del Paese, la capitale appare quasi indulgente. Piove ma qui non si usano gli ombrelli: la pioggia viene accettata come tutto il resto, una cosa che semplicemente accade. Gli autobus viaggiano spesso con le porte aperte, le persone chiacchierano, sorridono e c’è un traffico inusuale. Sono scene che potrebbero sembrare banali, ma che in un contesto segnato da anni di guerra assumono il valore di un atto politico: scegliere di vivere, nonostante tutto. Accanto a questa normalità ostinata, però, si impone la povertà strutturale. I bambini che chiedono qualche moneta ai semafori, gli anziani che sopravvivono con le rimesse dei giovani della diaspora mentre quelli che restano parlano di emigrazione come di un orizzonte quasi obbligato. “Non vogliamo più avere paura di morire,” mi dice un ragazzo, “ma non vogliamo nemmeno vivere così per sempre.”

La tutela dei diritti è migliorata rispetto agli anni del conflitto aperto, ma resta lontana dall’essere garantita. Molto dipende dai rapporti personali con chi conta davvero: funzionari locali, gruppi armati, nuovi imprenditori vicini al potere. È una giustizia selettiva, che lascia fuori proprio chi avrebbe più bisogno di protezione. Cosi ci racconta una attivista per i diritti umani facendo un bilancio di questo ultimo anno. La libertà di parola esiste, ma è una fessura da attraversare con cautela: non è un diritto garantito, è una pratica quotidiana che comporta rischi concreti. Ma quando mi è capitato di condividere le mie perplessità sullo stato delle cose, molte persone, davanti alle critiche al governo, si irrigidiscono. È come se vedessero in questo assetto imperfetto l’ultima possibilità di scegliere qualcosa che non fosse solo guerra. Difendono il presente non perché lo ritengano giusto, ma per paura di tornare al buio già conosciuto. La speranza, anche quando è fragile, diventa una forma di sopravvivenza emotiva. Così, mentre in alcune piazze si celebra la caduta del regime, altrove si contano ancora i bossoli a terra, si fotografano le crepe dei minareti, si attraversano condomini bruciati e strade piene di rottami. La fine di Assad non ha significato la fine della paura, né la guarigione delle fratture che attraversano la società siriana.

Eppure la Siria che ho visto è un Paese vivo. Lo è nelle reti di solidarietà che resistono ai cambi di bandiera, nelle comunità che cercano forme di autonomia anche se allettate da miraggi di protezione, nelle voci che continuano a raccontare nonostante il rischio. Lo è nelle case che qualcuno prova a ripulire, nei balconi anneriti dove ricompaiono piante, negli spazi culturali improvvisati dove i giovani mettono in scena storie che nessun comunicato uffi ciale vuole ascoltare. In questo contesto, l’arte resta uno degli ultimi spazi dove è possibile elaborare il trauma e rivendicare un racconto diverso del Paese. Valorizzarla, come in diverse occasioni ci è stato chiesto da giovani siriani, signifi ca offrire loro un luogo simbolico in cui nominare ciò che è accaduto e immaginare altre possibilità. Chi usa l’arte per parlare di responsabilità del passato, di nuove disuguaglianze o di promesse tradite continua però a muoversi su un terreno instabile ma che resta una scena agibile. Le giovani generazioni che ho incontrato sono state un sole che acceca tra le nubi in tempesta; hanno una prospettiva molto profonda del paese e usano l’arte e la cultura come arieti per sfondare muri di diffi denza. Oggi la domanda non è più soltanto “come vedi la Siria?”, ma “chi avrà il coraggio di continuare a raccontarla?”. In quella risposta si gioca gran parte del futuro del Paese: non solo nelle decisioni dei governi, ma negli sguardi di chi, ogni giorno, sceglie di restare.

*Forum per Cambiare l’Ordine delle Cose

21 Dicembre 2025

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