I questori del moderatismo

I nostalgici dell’Ulivo all’assalto di Schlein, Landini e dello spauracchio del “radicalismo rosso”

Arrivano i commissari. Per contrattare rendite eterne, alzano lo spauracchio del radicalismo rosso in marcia. Spiccano un mandato di comparizione ai vertici del Nazareno e di Corso d’Italia. Provano a piazzare una trappola per la leader dem, per portarla al suicidio politico

Politica - di Michele Prospero

20 Novembre 2025 alle 07:00

Condividi l'articolo

Foto Roberto Monaldo / LaPresse
Foto Roberto Monaldo / LaPresse

Arrivano i commissari. Un riflesso d’ordine induce le antiche nomenclature a spiccare un mandato di comparizione ai vertici del Nazareno e di Corso d’Italia. Attenti a quei due, intimano i nostalgici dei riti austeri di Bruxelles. La strana coppia, con Schlein l’estremista e Landini il rivoltoso occupati a dare i tempi dell’insurrezione, inquieta le questure del moderatismo. In un’Italia rassegnata, con il partito maggioritario dell’astensione che cresce a dismisura, i benpensanti fingono di tremare. Per contrattare rendite eterne, alzano lo spauracchio del radicalismo rosso in marcia.

Dovrebbero spiegare come sia mai possibile che l’impeto ribelle, che molto turba le candide coscienze degli ex commissari europei, non sfiori neppure la percezione che della verità effettuale hanno i cittadini in carne ed ossa. In tanti a votare, al cospetto di maschere troppo simili tra loro, proprio non vanno più.  Una deriva sovversiva che produce un’apatia sterminata è semplicemente un ossimoro concettuale spolverato dai riformisti solo per angusti calcoli di potere. Mentre Meloni esibisce la sua statura politica saltellando in maniera scalmanata sul palco di Napoli, Bussano i commissari? Schlein e Landini farebbero bene a serrare le porte, costoro annunciano solo sventura. Non basta la Picierno, che custodisce la bacheca su cui viene inciso il nominativo di ogni musicista o storico censurato. Qualsiasi sospetto di gauchismo sarebbe fugato solo se i capi della coalizione venissero reclutati da vecchi volponi tra i mosci cacciatori degli evasori fiscali o tra le indossatrici di fasce tricolori nei municipi.

E’ evidente che i sabotatori intendono accompagnare Elly Schlein al suicidio politico, costringendola al gioco ambiguo di far seguire ad ogni passo in avanti almeno due salti indietro. Il centro è un contenitore del tutto vuoto. I tanti consiglieri che sentenziano in nome dei successi passati provano a piazzare la trappola per la segretaria. E’ certo che intendono farla scattare già in occasione del referendum, perciò decidono di fiaccare il Nazareno da dentro e di operare nelle scelte di campo in sintonia con i fuoriusciti. Per conferire un tratto apodittico alle loro preghiere volte a replicare l’offerta politica di Renzi e Calenda, le anime belle centriste arruolano Prodi. Tutti lo santificano quale corpo sacro, l’unico testimone con le stimmate del vincitore. Ma è proprio così o si configura una sorta di abuso di titolo? La parola va data ormai agli storici, i soli a poter dirimere la controversia carte alla mano. La complessa regia propedeutica al governo dell’Ulivo nel 1996 indovinò due mosse. Con la prima, venne effettuato il ribaltone, e quindi la disarticolazione della maggioranza berlusconiana attraverso la fuga tempestosa della Lega. Con la seconda, promuovendo Dini a partner discreto della coalizione alternativa, prevalse il momento dell’aggregazione. Entrambe le scelte provocarono scandalo agli occhi dei profeti dell’ideologia del maggioritario. Forte fu anche il disappunto di Occhetto.

Nella vittoria, comunque, ben poco contò l’effetto di trascinamento connesso alla personalizzazione della leadership ulivista, con lo scudocrociato dei “Popolari per Prodi” esposto per sedurre i moderati. La conclusione alla quale perviene Giuseppe Mammarella è che dietro il disarcionamento della destra covarono queste due sapienti mosse tattiche: per via del ruolo cruciale rivestito dai quadri cresciuti a Botteghe Oscure, “la vittoria del centro-sinistra sarà pertanto in larga misura la vittoria del Pds e segnerà il successo personale di D’Alema” (G. Mammarella, L’Italia contemporanea. 1943-2007, Bologna, 2008, p. 552). L’accortezza nella manovra marciava in quei mesi assieme alla mobilitazione sociale. La riuscita dello sciopero sindacale contro l’intervento berlusconiano sulle pensioni mostrava la debolezza congenita della destra di governo, perché nella ripartizione dei costi era palese che “gli interessi economici del popolo delle partite Iva non coincidevano con quelli dei lavoratori dipendenti che avevano votato per il Polo” (A. Lepre, C. Petraccone, Storia d’Italia dall’Unità a oggi, Bologna, 2008, p. 378).

Non diverso era il quadro che produsse la replica del 2006. Prodi cercò l’unzione carismatica e credette di averla in tasca dopo il sostegno del 74% dei votanti alle primarie di coalizione del 2005. Nei gazebo amici (la gara non fu realmente competitiva, trattandosi dell’incoronazione di un prescelto) egli salutò “una legittimazione personale che aveva drasticamente modificato l’equilibrio tra la sua leadership e i partiti che lo appoggiavano” (J. Hopkin, Dalla Federazione all’Unione alle primarie, in G. Amyot e L. Verzichelli, a cura di, Politica in Italia, Bologna, 2006, p. 100). Dopo neanche due anni la sua illusione di un comando non negoziabile con gli apparati di partito si sciolse. Per giunta nel 2007 un’altra passeggiata nei gazebo aveva incoronato la seconda testa. Ciò convinse il primo segretario del Pd, nonché “candidato premier” per statuto, Veltroni a forzare la mano fino a rendere impossibile la convivenza di due leader che vantavano una legittimazione alla sovranità personale.

Dilapidando un vantaggio di ben 10 punti percentuali sul Cavaliere in affanno, nel 2006 Prodi celebrò come una vittoria entusiasmante un mandato che in realtà fu il frutto di un’alchimia bizzarra. La destra al Senato raccolse 150mila voti in più della sinistra, ma conquistò due seggi in meno perché l’Unione prodiana vinse in 13 regioni su 20 e prevalse tra i sospetti proprio nel conteggio delle schede giunte dalla circoscrizione Estero introdotta da Tremaglia. Ancora una volta cruciali, nella movimentazione dei consensi, risultarono gli esercizi di conflitto tutt’altro che moderato, con la mitica adunanza del 2002 al Circo Massimo in difesa dell’articolo 18.

Insomma, la lezione è che senza la volpe della tattica, che piazza bene ogni pedina, e senza il leone della mobilitazione collettiva, che erode la coalizione sociale dell’avversario, non si trovano i numeri per tentare una scalata a Palazzo Chigi. Inventando candidati che spuntano dal nulla o inseguendo le inesistenti praterie del centro non si produce nulla di politicamente rilevante, si fa puro chiacchiericcio. La sinistra ha fatto centro soltanto quando ha coniugato l’opposizione sociale e la lucidità negli spostamenti dei pezzi sulla scacchiera. Bussano i commissari? Schlein e Landini farebbero bene a serrare le porte, costoro annunciano solo sventura.

20 Novembre 2025

Condividi l'articolo