Il dibattito sulla sinistra

Cosa era l’Ulivo di Prodi e perché oggi non va buttato ma rigenerato

Dopo anni di sbornia blairiana, è necessario rifondare le basi del pensiero programmatico di una parte politica che negli anni 90 fece grandi riforme: l’Ulivo non va buttato, ma rigenerato

Politica - di Laura Pennacchi

7 Febbraio 2025 alle 13:30

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Cosa era l’Ulivo di Prodi e perché oggi non va buttato ma rigenerato

La proposta di Franceschini al centro-sinistra – “marciare divisi per colpire uniti” – oltre ad essere sbagliata in sé, tradisce una scarsa considerazione della “dimensione programmatica”, quasi che questa fosse nella fase presente inutile per costruire una coalizione e, più in generale, un orpello retorico di cui si può fare tranquillamente a meno.

Dissentendo dalla proposta di Franceschini Arturo Parisi ha chiesto che se c’è qualche “ulivista” rimasto nel Pd alzi la mano. Eccomi qua, ad alzare almeno tutte le cinque dita di una mano, io che penso che ci vorrebbe un “Nuovo Ulivo” non solo perché credo testardamente, come Elly Schlein, che è l’unione, non la disunione, a fare la forza, ma perché ho una incrollabile fiducia nell’impeto trascinante del grande progetto, delle potenti idee di trasformazione, delle visioni ideali e, dunque, dei programmi elaborati a tale altezza. Il lavoro che in tanti facemmo per il programma dell’Ulivo durante tutto il 1995 fu intenso e profondo, succedendo a una sperimentazione di fattiva cooperazione già compiuta, sotto lo stimolo incalzante degli allora capigruppo Beniamino Andreatta e Luigi Berlinguer, nella seconda metà del 1994 – dopo la vittoria di Berlusconi dovuta alle nostre divisioni – nella preparazione di un disegno di legge di riforma pensionistica che poi servì di base alla legge 335 (per cui io, che coordinavo l’apposito gruppo di lavoro, dovetti dotarmi perfino della capacità di maneggiare modelli econometrici).

Una volta aperta nel febbraio del 1995 la strada della coalizione larghissima, Prodi non si limitò a girare con il pullman per lungo e per largo l’intera Italia, accolto ovunque con entusiasmo da persone che percepivano la credibilità e l’imminenza della svolta. Egli diede vita, con i suoi più stretti collaboratori, a una miriade di gruppi e di sottogruppi (coordinati dai mitici Andrea Papini, Giulio Santagata, Paolo Onofri) formati da semplici militanti, politici, esponenti sindacali, personalità prestigiose (tra cui Giovanni Maria Flick, Franco Gallo, Tommaso Padoa Schioppa, Luigi Spaventa, Enzo Visco e tanti altri), tenuti a riunirsi assiduamente, a ciascuno dei quali venne dato un tema da studiare, scandagliare, sviscerare da ogni punto di vista, formulando, alla fine, una proposta di policy.

A tali riunioni periodicamente si affiancavano meeting più vasti in cui si discutevano quadri più generali e complessi e si costruivano sintesi. I temi coprivano un vastissimo ordine di problematiche: il funzionamento dello Stato, del governo, del Parlamento, la Giustizia, l’Europa, la riforma dell’Onu e degli organismi internazionali, la finanza sana, la tassazione, il Mezzogiorno, il mercato, la politica industriale, l’informazione e le telecomunicazioni, l’innovazione e la ricerca, la casa, l’alleanza con la natura, l’energia, i trasporti, le città, la scuola, l’Università, i giovani, le donne, la famiglia, l’economia civile, i beni culturali, la previdenza, la sanità, il federalismo. Così nacquero le famose 88 Tesi dell’Ulivo con cui vincemmo le elezioni del 1996. E con questa carta d’identità Carlo Azeglio Ciampi lanciò, una volta ottenuto l’ingresso dell’Italia nell’Euro, la prospettiva di una “nuova programmazione”, la quale non poté essere sostenuta perché il primo governo Prodi venne colpevolmente fatto cadere nell’ottobre del 1998.

Potrei raccontare anche del successivo programma dell’Unione del 2006, tanto biasimato perché lungo 300 pagine (a causa della necessità di rappresentare le diverse anime della nuova coalizione), a differenza delle poche pagine richieste per impaginare le 88 Tesi del 1995: quel programma non fu affatto irrilevante nel farci vincere le elezioni di quell’anno e la vittoria consentì di governare facendo molte cose buone, a dispetto della litigiosità indubbiamente elevata che, però, è l’unica, invece della fattività, che viene ricordata. Il secondo governo Prodi cadde nel 2008 non per la litigiosità dei suoi componenti ma per la smania che a un certo punto prevalse di misurare la forza elettorale dell’appena costituito (nel 2007) Pd, orientato con il nuovo segretario Veltroni a perseguire una “vocazione maggioritaria” (cioè a inglobare tutti o quasi gli elettori del centrosinistra), in verità assai poco persuasiva tanto è vero che fummo sconfitti alle elezioni del 2008.
E qui vengo al punto che vorrei soprattutto sottolineare.

La “vocazione maggioritaria” ha contribuito a radicare nodi lasciati irrisolti alla nascita del Pd, nodi che hanno dato luogo ad alcuni equivoci di fondo, mai adeguatamente chiariti. Si tratta di: a) la presupposizione tacita che il Partito democratico dovesse essere sostanzialmente un partito “moderato”, nella convinzione che riformismo sia equivalente a moderatismo e che le elezioni si vincano solo al centro e per questo si debba rassegnarsi al moderatismo, “disintermediando” e abbandonando i riferimenti sociali tradizionali; b) l’idea che il Partito democratico, in quanto “postideologico”, dovesse anche essere “postidentitario” (per questo più attento alla buona amministrazione che non alla costruzione di “visioni” e di “progetti”). Da qui l’irrilevanza con cui è stata tenuta la dimensione programmatica e il fatto che in luogo del progetto è stata coltivata la sterile dicotomia riformismo/massimalismo, dimenticando che il riformismo autentico non può non essere radicale, come fu quello del New Deal di Roosevelt, e che per tale radicalità progetti e programmi contano molto di più di quanto non si creda.

Il risultato è che oggi la radicalità immaginativa e creativa del “progetto” è ciò che più manca nella sinistra, il che rende la distinguibilità del profilo ideale e progettuale di una forza di sinistra la questione fondamentale, giustamente tanto cara anche ai cattolici democratici. Elly Schlein sa bene che il monito vale in particolare per il Pd. Ma tutto il centro-sinistra è chiamato, oggi che il duo Trump-Musk lancia un’alleanza inedita tra tecnoliberismo e neotradizionalismo, a una più perspicua rappresentazione di ciò che vogliono dire nel presente destra e sinistra e di come mai l’ “ordine neoliberale” muore ma il neoliberismo sopravvive ibridandosi con tante forme di populismi, facendo fino in fondo i conti con narrazioni deterministiche della globalizzazione sregolata, dell’ondata di privatizzazioni, della ipertrofia finanziaria, della precarizzazione del lavoro, come se fossero stati fenomeni ineluttabili, naturalisticamente necessitati e non veicolati da una precisa intenzionalità politica. Ne discenderebbe anche una più puntuale identificazione, e ammissione, degli errori compiuti dalle sinistre nel traumatico passaggio dai “trent’anni gloriosi” al neoliberismo.

Se il lavoro e il “senso di responsabilità collettiva” affidato alle istituzioni pubbliche sono state le grandi vittime del neoliberismo, il drastico indebolimento della sfera lavorativa e delle forze sociali che di essa vivono e ad essa si ispirano a cui abbiamo assistito negli ultimi trent’anni ha certamente qualcosa a che fare con le Terze Vie à la Tony Blair, di cui non ci si può limitare a segnalare – come fanno gli amici di Libertà Eguale – che volevano cambiare il neoliberismo “dall’interno”, ma a cui va chiaramente imputata la fallacia delle convinzioni secondo cui i rischi del mercato del lavoro non esistessero più, i ceti medi fossero corposamente entrati nella categoria dei detentori di asset patrimoniali e finanziari, non ci fosse più bisogno del welfare state. Anche l’ostilità allo Stato è stata alimentata da anni di nefasta teorizzazione di matrice blairiana della superiorità delle pratiche di governance su quelle di government, esplicitamente indicate, e auspicate come metodi di “amministrativizzazione” mediante “depoliticizzazione”.

Qui siamo al punto cruciale, perché qui – sul rilancio della centralità del lavoro e della sua dignità e sul senso di “responsabilità collettiva” espresso dalle istituzioni pubbliche – passa nuovamente la discriminante destra/sinistra. Si impone un grande investimento culturale, la necessità di un largo sforzo di discussione e elaborazione collettiva che da una parte incorpori ricerca e analisi, dall’altra si cimenti con la produzione di nuovo pensiero e di nuova teoria. I compiti immani di fronte a noi sono affrontabili solo attraverso la collegialità, la condivisione, la partecipazione, il concorso di molte intelligenze, l’attivazione di tutte le passioni.

7 Febbraio 2025

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