La sfinge
Chi è Mario Draghi, liberal-socialista che non dà peso alla giustizia sociale
La sua figura passata al microscopio in due libri diversi e opposti. Quello amichevole di Cristina La Bella e quello molto critico di Viroli. È l’allievo ed erede di Caffè o l’oppositore delle teorie di Capitini e Calogero?
Politica - di Filippo La Porta
Verso la figura di Mario Draghi provo – lo confesso – sia una grande ammirazione e sia un senso di forte distanza. Tento di spiegarlo attraverso due libri recenti. In “Mario Draghi: La speranza non è una strategia”, (Santelli Editore) di Cristina La Bella ritrovo tutte le ragioni dell’ammirazione, che ne fanno un politico di qualità straordinaria, specie se paragonato all’attuale compagine governativa, ma anche al personale dei governi di coalizione precedenti. Si potrebbe dire: un antitaliano, per serietà, competenza professionale, coerenza intellettuale, e aggiungo per il senso della misura, per la elegante e naturale sobrietà del suo stile di vita. In Consumare, obbedire, tacere di Maurizio Viroli (in dialogo con Roberto Bertoni), Castelvecchi editore, affiora invece una critica radicale di Draghi, della sua idea di modernità e delle sue scelte politiche. Vediamoli separatamente.
Cristina La Bella ha voluto scrivere non un’agiografia ma una biografia ampia e meticolosa, partendo dall’infanzia, dal trauma della perdita dei genitori, fino alla brillante carriera e al ruolo di primo piano nella scena politica internazionale. Così lo ha spiegato la giovane autrice: “Mi incuriosiva comprendere perché è stato chiamato, più volte, a ‘salvare’ qualcosa: la Banca di Italia, l’Euro, il nostro Paese. Un lungo percorso dentro le scelte, i dubbi, le fragilità di un uomo spesso descritto come freddo, ma che (parola sua) ha un cuore. Anche è quello di un “banchiere centrale”. Non potrei dubitare che anche i banchieri hanno un cuore. E poi Draghi è un economista e civil servant educato sui libri di Keynes, conosciuto attraverso il suo maestro Federico Caffè. Diamogli la parola: “Il ritorno alla crescita, una crescita che rispetti l’ambiente e che non umili la persona, è divenuto un imperativo assoluto: perché le politiche economiche oggi perseguite siano sostenibili, per dare sicurezza di reddito specialmente ai più poveri”. E ancora “Per anni una forma di egoismo collettivo ha indotto i governi a distrarre capacità umane e altre risorse in favore di obiettivi con più certo e immediato ritorno politico: ciò non è più accettabile oggi. Privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza”. Qui Draghi si mostra sensibile al problema drammatico della redistribuzione del reddito nel nostro paese, e delle intollerabili disparità che lo abitano. Aggiungo: schierato decisamente contro il nuovo zar Putin e la sua brutale strategia di annessione (anche perciò inviso ai 5Stelle!), favorevole a forti sanzioni, ma sempre con l’obiettivo strategico di costruire la pace. E premiato da Biden che lo ha definito “una voce potente nel promuovere tolleranza e giustizia”.
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Il ritratto di La Bella è scritto con rigore documentario, piglio giornalistico e gusto letterario. Se la citazione di Manzoni ci sta tutta, forse solo un po’ azzardata mi sembra l’analogia di Draghi con la bellissima Grace Kelly, che Hitchcock volle definire “ghiaccio bollente”. Senza entrare nelle pieghe di un racconto biografico così movimentato, possiamo chiederci: si può legittimamente considerare Draghi un liberal-socialista? Sì e no. Da un lato, certo – lo abbiamo detto – devoto a keynesismo e Welfare, preoccupato di garantire livelli elevati di occupazione e protezione sociale per i ceti deboli, favorevole a un intervento pubblico capace di correggere gli squilibri del mercato. Dall’altro però colpisce – sfogliando questa biografia – che in una persona così colta manchino riferimenti alla teoria politica, e segnatamente a quella teoria che ha più indagato la questione della giustizia sociale: dai padri di Giustizia e libertà (Gobetti, Rosselli, e poi Foa) – che pure il suo maestro, l’azionista Ciampi, dovrebbe avergli trasmesso – , ai due estensori del Manifesto liberalsocialista del 1940 , Calogero e Capitini, per non parlare di Hannah Arendt e della sua riflessione sulla democrazia e i diritti umani, o del socialismo dei “cafoni” e dei poveracci di Silone.
Eppure nel libro mancano questi fondamentali riferimenti. Io credo che nessuna sinistra, riformista o radicale, pragmatica o ideologica, possa rinunciare del tutto al presupposto che la giustizia sia un concetto universale, presente a priori nella coscienza umana, dunque un valore assoluto, al di là delle sue mutevoli forme storiche: nato con il cristianesimo, solo presentito nell’antichità classica (nella tragedia greca, in Socrate), e poi riformulato e rafforzato nella modernità e nell’illuminismo. Ora, proprio la giustizia sociale è al centro del libro-intervista di Maurizio Viroli, storico del pensiero politico e studioso di Machiavelli, che si autodefinisce “radicale nei principi e riformista nel metodo”. L’autore, che rivendica invece la sua formazione repubblicana e socialista (dal patriottismo risorgimentale di Mazzini – nemico di ogni nazionalismo – a Rosselli, Parri e financo a Pertini: “Non c’è libertà senza giustizia sociale”) ci ricorda subito lo spaventoso incremento del divario tra poveri e ricchi a partire dal 1980: allora il 10% più ricco deteneva il 23% del reddito totale, alla fine del 2021 deteneva quasi il 70%, allora nel 50% più povero si concentrava il 30% della ricchezza, ora solo il 14%!. Aggiungendo che le riforme sono state gli strumenti per indebolire i sindacati e il potere contrattuale dei lavoratori, aggirando i contratti nazionali. In questa ottica si capisce il suo attacco frontale a Draghi, che nel gennaio 2020 in un discorso sul panfilo della Corona inglese, si mostrava ben consapevole dei “possibili effetti delle privatizzazioni sulla disoccupazione”, che “potrebbe aumentare come effetto della ricerca dell’efficienza”. Viroli cita poi il Vangelo come fonte di ispirazione morale, la capacità di indignarsi per le ingiustizie perpetrate ai danni del prossimo (“Tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me”).
Qualsiasi proposta politica della sinistra dovrebbe partire per lui da questo incontro tra laicità e cristianesimo: cita in proposito anche l’enciclica Fratelli tutti di papa Francesco, con l’invito a non sottomettersi al paradigma efficientista. Ora, obiettivamente a me Draghi non sembra un bieco tecnocrate come spesso viene dipinto – perlopiù sulla stampa di destra – né “un uomo al servizio dell’ordine finanziario di Bruxelles”, come volle definirlo Varoufakis (ricordiamo che Draghi decise di chiudere le banche greche nell’estate del 2015). Però l’impressione è che nel perseguire il binomio efficienza-uguaglianza sia tutto sbilanciato sul primo dei due termini. Eppure anche un liberale ottocentesco come Tocqueville riteneva che l’idea di uguaglianza, una volta entrata nella Storia, è la principale forza propulsiva dell’agire umano. La giustizia sociale, implicata nel concetto di libertà – come abbiamo visto – dovrebbe essere presente in ogni documento della sinistra. Come definirla semplicemente? “Il riconoscimento in altri di una personalità uguale alla nostra” (Proudhon). Tutto qui.