Il leader del Partito Democratico israeliano

Intervista a Yair Golan: “Hamas? È viva e vegeta ed è tutta colpa di Netanyahu”

“Invece di sfruttare il sostegno degli Usa, gli Accordi di Abramo e creare una coalizione regionale per plasmare un nuovo ordine di sicurezza con i paesi moderati, il premier ha permesso a Qatar e Turchia di prendere le redini e riportare in vita Hamas. Un fallimento diplomatico risultato di una politica consapevole"

Interviste - di Umberto De Giovannangeli

23 Ottobre 2025 alle 09:00

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Evelyn Hockstein/Pool via AP  – Associated Press/LaPresse
Evelyn Hockstein/Pool via AP – Associated Press/LaPresse

Dall’esercito alla politica. Un passaggio non inusuale in Israele. Lo fu per alcuni dei grandi d’Israele – Moshe Dayan, Yitzhak Rabin, sul fronte opposto Ariel Sharon – e per alcuni super decorati diventati primo ministro (Ehud Barak). Un percorso condiviso da Yair Golan, Già vicecapo di Stato Maggiore delle Idf, maggiore generale della riserva, Golan è oggi presidente del Partito democratico, nato dall’unificazione di ciò che resta del glorioso Partito laburista – che per 29 anni, dalla fondazione dello Stato d’Israele al 1977, guidò ininterrottamente Israele – e del Meretz, la sinistra sionista.

Si è detto e scritto che la forza del “Piano-Trump” per Gaza sia stata la “regionalizzazione” dell’accordo. Condivide questa considerazione?
La realtà è molto più complessa e contraddittoria.

Perché?
Il vertice di pace di Sharm el-Sheikh avrebbe dovuto segnare un momento storico di speranza, con la fine della guerra, il rilascio degli ostaggi e l’inizio di una nuova era di maggiore sicurezza per la regione. Ma chiunque guardasse ai paesi che promuovevano l’accordo poteva immediatamente intuire che qualcosa di fondamentale era andato storto.

Vale a dire?
Le quattro potenze firmatarie – Egitto, Qatar, Turchia e Stati Uniti – avevano creato una situazione pericolosa in cui chi detiene le chiavi della sicurezza regionale e della ricostruzione di Gaza sono proprio i paesi che sostengono Hamas, lo finanziano e lo hanno difeso nel corso degli anni. È altrettanto importante vedere chi non c’era, ovvero l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, due delle potenze arabe più moderate e pragmatiche con cui Israele ha intrapreso negli ultimi dieci anni una cooperazione senza precedenti nei settori della difesa, dell’economia e della lotta contro l’Iran. L’assenza dell’erede al trono saudita, Mohammed bin Salman, e del presidente degli Emirati Arabi Uniti, Mohammed bin Zayed, non è una questione marginale. Si tratta di una dichiarazione politica forte e chiara, che noi in Israele dobbiamo comprendere. L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno chiarito in anticipo che la loro partecipazione al piano di ricostruzione di Gaza si basa su una semplice condizione: disarmare Hamas e cacciarlo da Gaza come movimento. A loro avviso, finché Hamas rimarrà a Gaza, la regione non sarà fuori pericolo, poiché lo considerano un braccio pericoloso dei Fratelli Musulmani e dell’Iran, un’organizzazione terroristica che elimina ogni possibilità di stabilità a lungo termine e di pace autentica nella regione.

Tornando all’accordo fortemente voluto se non imposto da Trump…
Questa importante precondizione è semplicemente scomparsa dall’accordo di Trump. Ecco perché l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno giustamente descritto la formulazione dell’accordo come “compromettente” e “eccessivamente flessibile” nei confronti di Hamas. Sebbene l’accordo abbia portato alla fine dei combattimenti e al ritorno degli ostaggi, non garantisce la fine di Hamas e non ne causerà la caduta.

La sua è una visione alquanto pessimistica…
Direi realistica. Al di là delle speranze suscitate, molte in buona fede, per quel che c’è scritto e soprattutto per quello su cui glissa, l’accordo siglato a Sharm el-Sheikh ha creato una nuova piattaforma per Hamas per riabilitarsi, riorganizzarsi e tornare a operare dalle rovine di Gaza. Il Qatar, il Paese che ha servito Hamas prima e dopo il 7 ottobre come fonte di finanziamento e propaganda, e la Turchia dei Fratelli Musulmani, sono ora responsabili del “giorno dopo” a Gaza, al posto dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti. Questa situazione rappresenta una vera minaccia alla sicurezza di Israele. E non si tratta di un errore tecnico, ma del risultato della continuazione della politica di negligenza del primo ministro Benjamin Netanyahu. È un fallimento diplomatico molto grave da parte sua, che non è il risultato di una svista, ma di una politica deliberata e consapevole.

Vale a dire?
Netanyahu ha scelto di fuggire dall’arena diplomatica per ragioni di sopravvivenza politica e, ancora una volta, ha lasciato un vuoto e permesso agli attori più estremisti di entrarvi. Invece di sfruttare il sostegno degli Stati Uniti e gli Accordi di Abramo e creare una coalizione regionale per plasmare un nuovo ordine di sicurezza con i paesi moderati, ha permesso al Qatar e alla Turchia di prendere le redini e riportare in vita Hamas. Anche questa volta, quando a Israele è stata offerta una rara opportunità di apportare un cambiamento strategico a Gaza e nell’intera regione, Netanyahu ha scelto ancora una volta Hamas, compromettendo la sicurezza nazionale di Israele. Già poco dopo l’inizio dell’attuazione dell’accordo, da Gaza giungono notizie e immagini sconvolgenti: Hamas è tornato a dimostrare il proprio potere, minacciando la popolazione, eliminando i membri delle milizie locali d istituite con l’aiuto di Israele e cercando di assumere il controllo dei meccanismi di distribuzione e di aiuto. Non esiste alcun meccanismo internazionale per impedirlo. L’impressionante risultato militare di Israele, ottenuto a costo del sangue di soldati e civili, si sta nuovamente dissolvendo di fronte a un bruciante fallimento diplomatico.

Se fosse lei primo ministro come si muoverebbe?
Un Paese responsabile baserebbe la propria sicurezza su un’alleanza con i suoi vicini moderati – Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Giordania – e non affiderebbe il proprio destino alla Turchia e al Qatar, che sono identificati con i Fratelli Musulmani e forniscono denaro, armi e ossigeno a coloro che hanno massacrato e rapito israeliani e seminato morte. La sicurezza di Israele non può dipendere da Paesi ostili e che odiano Israele come questi. Cedendo il “giorno dopo” a Gaza nelle mani del Paese che ha finanziato il massacro nelle comunità al confine con Gaza, Netanyahu ha dato un premio a Hamas. Ha dato al Qatar e alla Turchia un punto d’appoggio e ha fatto capire al mondo che lo Stato di Israele ha rinunciato ai principi fondamentali su cui si basa la sua sicurezza. In un momento come questo, in cui non stiamo conducendo un’iniziativa diplomatica che garantisca i nostri interessi più importanti e in cui le considerazioni politiche prevalgono su quelle di sicurezza, Israele sta diventando più debole e i suoi nemici più forti. Israele sta diventando uno Stato paria, come lo era un tempo il Sudafrica, se non tornerà a comportarsi come un Paese sano. Uno Stato sano non muove guerra ai civili, non uccide bambini per divertimento e non si pone obiettivi come l’espulsione di una popolazione.

Lei è stato molto critico sulla decisione di Netanyahu di nominare a capo dello Shin Bet Zini, nomina che ha scatenato forti polemiche in Israele. Da cosa nasce la sua critica?
Dovremo ripulire la pubblica amministrazione e assegnare le posizioni chiave – quelle che determinano il destino dello Stato di Israele – a persone veramente qualificate. E Zini non era la persona giusta per quel lavoro. L’unica qualità che lo rende adatto è che è stato scelto dal primo ministro, il quale ritiene che Zini gli garantirà l’immunità dalle indagini sul caso “Qatergate”.

Prima di entrare in politica, lei ha ricoperto incarichi apicali nelle Forze armate israeliane (Idf). Cosa le viene da quell’esperienza?
Vede, io sono entrato in politica per promuovere la separazione dai palestinesi in un accordo regionale che avrebbe portato alla creazione di due Stati per due popoli, due Stati che vivono fianco a fianco in sicurezza e pace. Come persona che per anni ha affrontato la questione dal punto di vista della sicurezza, anche come ufficiale presso il quartier generale della Cisgiordania durante l’attuazione degli accordi di Oslo negli anni ‘90 e come comandante della divisione Giudea e Samaria dal 2005 al 2007, posso affermare che la soluzione dei due Stati è nell’interesse strategico di Israele. E so che il percorso non è meno importante dell’obiettivo. È nell’arena palestinese che si deciderà il futuro del nostro Paese. In questa arena la sfida più urgente è Gaza, un problema che non potrà essere risolto se non forniremo una soluzione a due questioni fondamentali: chi governerà la Striscia e chi sarà responsabile della sua ricostruzione. La saggezza di Israele sarà ora misurata dalla sua capacità di influenzare la formazione di un governo che sostituisca l’organizzazione terroristica a Gaza. Questo governo deve godere di legittimità interna palestinese, essere moderato e lavorare fianco a fianco con i paesi sunniti moderati della regione. Questi sono i paesi in grado di sostenere la creazione e il consolidamento di un tale governo, e sono quelli che possono aiutare a ricostruire Gaza. Questi due processi ci costringono ad abbandonare una visione utopistica e superficiale della pace. Per il momento, il partner non sarà in grado di garantire la sicurezza degli israeliani. Pertanto, Israele deve cercare di ottenere la separazione a livello civile, preservando al contempo la libertà di operare delle forze di sicurezza, ovvero il diritto di prevenzione e risposta contro qualsiasi minaccia terroristica fino a quando non sarà più necessario. Il percorso inizia con la fine della guerra e il rilascio di tutti gli ostaggi, seguito da una stretta collaborazione con i paesi moderati della regione e con l’Occidente guidato dagli Stati Uniti. Dobbiamo anche riconoscere pienamente che il governo multinazionale temporaneo che controlla Gaza dovrà alla fine essere sostituito da un governo palestinese indipendente che possa essere un partner degno di sicurezza e diplomatico per Israele, a vantaggio anche del popolo palestinese. Chiunque pensi che Netanyahu sia in grado di guidare Israele lungo questo percorso è un illuso e non lo ha ascoltato attentamente in questi giorni. La strada verso una vita degna di essere vissuta può essere tracciata solo da un nuovo governo che non includa gli attuali partiti della coalizione.

Sono passati più di due anni da quel tragico 7 ottobre 2023.
Una ferita che resterà nel tempo, un orrore che qualunque coscienza civile in qualunque parte del mondo non può negare né tollerare. Niente può giustificare quel barbaro massacro di civili inermi, l’uccisione e il rapimento di donne e bambini. Quella ferita ha unito Israele e Israele si è riconosciuto, tutto, nell’azione dei nostri soldati. Ma gli elettori di destra, sobillati da un governo irresponsabile, credono che Israele possa annettere milioni di palestinesi e che dovrebbe adottare una sorta di politica di vendetta senza aspirare a una potenziale riconciliazione nella sicurezza. Io la penso esattamente al contrario.

23 Ottobre 2025

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