L''attacco alla segretaria Pd

Perché Elly Schlein fa bene a stare con le piazze: il futuro del Pd non è al centro e la destra di Meloni non è imbattibile

I liberal giudicano il sostegno ai movimenti come “deriva radicale”, un abbaglio che ha già regalato il Paese a Meloni. Solo la mobilitazione può riportare al Nazareno chi ha smesso di votare

Politica - di Michele Prospero

11 Ottobre 2025 alle 08:00

Condividi l'articolo

photo by Cecilia Fabiano/LaPresse
photo by Cecilia Fabiano/LaPresse

I nostalgici della vocazione minoritaria coltivata da Letta escono dal torpore. Dopo la catastrofe del settembre nero del 2022, denunciano come una maledizione la via “testardamente unitaria” di Elly Schlein. Per scongiurare che Meloni si trasferisca al Quirinale, i riformisti del Pd partoriscono l’idea di tornare alla strategia da loro ritenuta vincente, quella che ha già regalato Palazzo Chigi alla comitiva di Colle Oppio. Grazie alle munizioni fornite dai giornali amici, le correnti centriste del Nazareno denunciano come nefasta la deriva radicale e di piazza con la quale la segretaria regala alle destre lo spaesato elettore moderato. L’analisi delle sconfitte subite alle ultime due elezioni regionali viene così sostituita dalla pura mistificazione. Seguendo l’impostazione solipsistica del segretario sceso da Parigi, il centro-sinistra avrebbe prosciugato le fonti di fiducia e non avrebbe strappato alle destre nemmeno la Sardegna e l’Umbria.

Il deficit dell’offerta politica sotto la guida Schlein non è stato certo quello di aver gettato le premesse per un’alleanza organica con il M5s. Per l’innegabile mutamento dei paradigmi culturali che Conte ha impresso al suo organismo modellandone il profilo progressista, un patto strategico dovrebbe essere considerato un dato irreversibile. E invece forte diventa il lamento per la presunta subalternità a Conte, che secondo gli opinionisti d’area avrebbe come unico obiettivo il ritorno alla presidenza del Consiglio. In una convergenza tra formazioni diverse, è del tutto fisiologico che la guida della coalizione possa cadere in mani diverse da quelle del partner più grande. È già accaduto in occasione delle due affermazioni di Prodi. Perciò la pretesa di firmare con il M5s un accordo coalizionale solo dopo la preventiva dichiarazione da parte di Conte di rinunciare ad ogni pretesa di leadership è grottesca. Piuttosto che preoccuparsi della testa su cui poggiare la corona, converrebbe impegnarsi nella costruzione del corpo dell’alleanza e del suo volto programmatico.

Sarebbe un segno di forza e non di debolezza, una volta stabilizzato l’asse della coalizione attorno a Pd, M5s e AVS, l’apertura di un dialogo con le molteplici sigle dell’area liberal-democratica. In Calabria un tale allargamento non ha garantito esiti miracolosi, e però in Liguria e in Basilicata (qui Renzi e Calenda appoggiarono il candidato di destra) la stessa alchimia avrebbe probabilmente garantito la vittoria. La maledizione scagliata contro il campo largo come pistola oramai scarica non ha un fondamento reale. Intanto non è vero che dalle urne sia uscita rinsaldata l’idea di una destra imbattibile. L’unico indicatore allarmante che è affiorato riguarda la fragilità del radicamento organizzativo e territoriale delle opposizioni, che neppure in una età di crollo vertiginoso della partecipazione dispongono di una capacità di mobilitazione residuale delle proprie strutture locali. Le cabine non sono rimaste vuote a causa delle piazze o delle barche piene, che avrebbero prodotto un effetto contrario d’ordine a favore del governo. La raccolta dei voti è naufragata perché, dinanzi ai movimenti molecolari della società italiana, ancora poco credibile pare la rappresentazione politica di un’alternativa.

L’astensionismo dilagante, e la crescita di grandi movimenti di protesta aggrappati ad un intenso livello etico-politico, rivelano che la destra ha vinto due battaglie (grazie al recupero della Lega e di Forza Italia), ma non ha ancora incassato il successo nella guerra che si combatte entro una situazione di estrema fluidità. Mentre celebra la tenuta della coalizione, Meloni appare nervosa poiché proprio il suo partito è la delusione principale della tornata elettorale. Nelle due regioni andate al voto, la Fiamma ha bruciato la bellezza di 115mila voti rispetto alle politiche del 2022 e di 105mila rispetto alle europee del 2024. Solo in Calabria, FdI ha registrato una frana di 48mila schede. La logica dello scontro tra i poli adesso segue il criterio statico per cui trionfa chi tiene meglio il proprio bacino di sostegno. La destra conferma i presidenti di regione con degli spostamenti intra-coalizionali (cede terreno Meloni, mentre Lega e FI migliorano i risultati delle politiche). La sinistra evidenzia difficoltà di tenuta (il Pd complessivamente raccoglie 230mila voti, ne aveva ottenuti 260mila alle politiche; le due liste a sostegno di Tridico con 106mila suffragi consolidano i 104mila delle scorse europee). Se vuole superare il suo logoramento nella disputa abituale, il Pd dovrebbe imporre un nuovo gioco, mobilitare cioè energie rilevanti che rifiutano le attuali forme di rappresentanza per imprimere alla contesa un assetto dinamico.

Il punto dolente sembra proprio essere questo cambio di mappe ideali. Su pace e ordine multipolare, lavoro e relazioni sindacali le distanze tra le varie anime del Pd sono incolmabili per cui infinita diventa la negoziazione e sovrana regna l’incertezza. La componente riformista interna, che su materie nevralgiche è più sensibile al suono delle corde di Renzi e Calenda, è molto sovra-rappresentata nelle cariche elettive. Un esodo consensuale verso un’aggregazione liberal-democratica, alleata con l’arcipelago progressista, risolverebbe molte delle aporie che paralizzano il Pd. Nella fase di crisi esistenziale degli attori delle democrazie occidentali, non può più essere al tempo stesso un partito di sistema e un soggetto di movimento.

11 Ottobre 2025

Condividi l'articolo